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Albedo Newsletter - N°3

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e informazioni sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque, come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction. E lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza, insieme alla redazione di Duegradi, cercheremo di rispondere ai dubbi e alle tue perplessità (scrivi qualsiasi cosa che ti salta in mente a redazione@duegradi.eu);

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Paura, angoscia, comunità: i paradigmi dell’attivismo ambientale

Lo scorso ottobre è uscito Primavera ambientale - L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra, un libro di uno dei giornalisti italiani ambientali più preparati, Ferdinando Cotugno. Il titolo ricorda un famoso libro di Rachel Carson, Primavera silenziosa. E non è un caso questa assonanza, perché il libro di Cotugno ha l’obiettivo di ricostruire la recente evoluzione dei movimenti per la giustizia climatica, di cui il libro della Carson ha rappresentato una sorta di archetipo. Ma una curiosa differenza tra le due opere, notata (Si apre in una nuova finestra) da Aurora Audino di Italian Climate Network, è che, mentre per Carson la prospettiva è quella di una primavera “in cui l’uso indiscriminato degli insetticidi in agricoltura fa sparire gli uccelli, rendendo l’aria muta”, la primavera ambientale di Cotugno, invece, è una primavera rumorosa, “in cui si alzano le voci di chi è stato ai margini, dei paesi vulnerabili e dei loro abitanti, di chi sta dicendo di invertire la rotta”.

E proprio nell’ultimo mese questo rumore si è fatto ancora più assordante. La voce di chi protesta per il clima si è alzata ancora di più in seguito agli scontri tra ambientalisti e polizia avvenuti lo scorso gennaio a Lützerath (Si apre in una nuova finestra), a margine della decisione presa dall’azienda energetica tedesca RWE di estendere ulteriormente gli scavi per la miniera di lignite presenti nella zona. Le foto dell’arresto di una sorridente Greta Thunberg appartengono già all’iconografia dei movimenti per il clima. Qualcuno crede che con Lützerath si sia impressa una virata più radicale ai movimenti per la giustizia climatica. L’inizio, in pratica, di una vera e propria battaglia a salvaguardia della vita degli esseri umani sulla Terra. Non so se sia effettivamente così, ad ogni modo può essere interessante comprendere dove rintracciare i paradigmi che sono alla base dell´attivismo climatico. Paradigmi che non possono che essere, prima ancora che pubblici, un fatto che afferisce alla singola storia privata di chi vi prende parte. In questa operazione di comprensione, ci aiuta ancora il libro di Cotugno. Cominciamo dal principio.

Se esistesse una Bibbia dell’attivismo climatico, inizierebbe così: “In principio era la paura”. Come ha scritto Cotugno, la storia di molti attivisti per il clima è iniziata con questa emozione. “L’equilibrio si rompe nel momento in cui apri gli occhi e scopri di essere terrorizzato”.

Anche per me è successa una cosa simile. Era il 2019. Mi trovavo in El Salvador, in America Centrale. Era il mese di marzo, nel pieno della stagione secca, e in gran parte del Salvador non pioveva da praticamente cinque mesi. Ricordo che ero in auto con Roberto, un cooperante italiano che avevo conosciuto poche settimane prima a San Salvador. Eravamo diretti al mare. Lo stereo dell’auto suonava le percussioni di un brano di Enzo Avitabile e i Bottari di Portico. A un certo punto, mentre parlavamo, l’autopista imboccò uno slargo che girava attorno al costone di una montagna. La vista davanti a noi ci era impedita da un lato dell’altura. Ma dopo una lunga curva il paesaggio fuori dai finestrini si aprì improvvisamente su una vallata costiera. Ricordo che era una vallata incredibilmente brulla e arida. Il colore scuro delle colline era quello di terra bruciata. Mentre la strada digradava verso il mare, Robertò commentò che la siccità prolungata degli ultimi anni stava cambiando i connotati della zona costiera del Salvador, con gravi danni per chi, nella zona, viveva solamente di agricoltura di sussistenza. Fu in quel preciso momento che mi prese una strana agitazione. I bum bang delle percussioni dei Bottari sembravano lame che mi penetravano da parte a parte. Rimasi rigido, immobile come un’iguana, e la sensazione di mutismo e immobilità si protrasse per vari minuti. Solo le acque del Pacifico riuscirono a calmare questa strana e inspiegabile inquietudine.

Spesso quando il nostro corpo si trova di fronte a un pericolo reagisce con un comportamento simile, una sorta di paralisi che viene chiamata “finta morte”. Dal punto di vista evolutivo, l’idea è quella di immobilizzarsi per far credere ai predatori di essere morti. Non è qualcosa di scontato, millenni di adattamento hanno affinato la tecnica. La paura è come un algoritmo iscritto nel nostro codice genetico che è servito, essenzialmente, a salvarci la pelle.

Come spiega (Si apre in una nuova finestra) la psicoterapeuta Serena Barbieri, la paura dipende principalmente da due stimoli: una sensazione soggettiva di vulnerabilità e la percezione di un pericolo esterno. A questi due stimoli, il nostro corpo reagisce con alcuni comportamenti (come quello, appunto, della “finta morte”) che vengono chiamati difese. Le difese sono reazioni molto rapide, molto impulsive, che richiedono poco pensiero. Da qui si intuisce che la paura è un’emozione molto antica. Per questa mancanza di valutazione razionale, qualcosa di simile è presente anche in animali che non hanno un cervello complesso come il nostro, come ad esempio nei rettili.

Adesso non so se la sensazione che provai di fronte alla vallata brulla e alle parole di Roberto fosse per davvero paura. C’è chi sostiene (Si apre in una nuova finestra) che è pressoché impossibile che i nostri corpi considerino la minaccia dei cambiamenti climatici come un pericolo di cui spaventarsi. E questo, un po’ per come è fatto il fenomeno (troppo lento, per nulla riconducibile a un’entità definita), un po’ per come siamo fatti noi esseri umani (abituati a dover fronteggiare altri tipi di minacce, più concrete, più facili da percepire).

Ma la paura non è solo materia di psicologi ed evoluzionisti, ha anche una componente simbolica, culturale. Ciò che la rende complessa è proprio il fatto che, con il tempo, questa emozione è stata condizionata anche dai significati storici che abbiamo attribuito al concetto di pericolo. La paura è infatti anche un sentimento sociale, e si determina in base alle categorie culturali con cui siamo abituati a interpretare il mondo e le nostre esperienze.

E qui arriviamo al secondo punto. “Il secondo passo, dopo il terrore, è un senso di solitudine, di angoscia” scrive Cotugno. Forse due autori su tutti sono riusciti a chiarire i contorni di questa angoscia, e lo hanno fatto soprattutto spiegando qualcosa del mondo contemporaneo, globale e massificato. Sto parlando di Zygmunt Bauman e Marc Augé.

Nel suo Paura liquida, Bauman spiega che l’umanità contemporanea è attanagliata da un senso di incertezza e precarietà, e ciò è dovuto al passaggio verso un tipo di società liquida, ovvero un sistema in cui abbiamo perso tutte le certezze che avevamo maturato durante le epoche precedenti. Certezze, ad esempio, come la solidità dei legami familiari, e quella delle istituzioni e delle reti sociali. Il risultato della società liquida è che una quantità sempre maggiore di individui è respinta ai margini del sistema.

Più o meno dallo stesso presupposto prende le mosse la riflessione dell’intellettuale francese Augé. Nel suo Le nuove paure, all’angoscia dell’esclusione sociale generata dal sistema consumista si aggiungono anche quelle del terrorismo internazionale, delle conseguenze delle super tecnologie e delle reazioni della natura al nostro modello di sviluppo. Il tutto amplificato da un ecosistema comunicativo che aumenta a dismisura l’orizzonte informativo, e quindi anche il quadro delle potenziali minacce. Ma al netto di tutto ciò, per Augé la reale preoccupazione dei nostri tempi è un’altra: è l’indebolimento della coesione sociale, il quale mina il “fondamento dell'identità individuale: il legame intimo tra il sé e l’altro”.

Insomma per entrambi gli studiosi l’angoscia contemporanea è dato dallo sbriciolamento delle forme tradizionali di integrazione degli individui nella società. Il meccanismo è come un cane che si morde la coda: più si sfalda il senso di comunità, più ci sentiamo soli, e più questa solitudine non fa che acuire il sentimento di impotenza di fronte a sfide così impegnative.

Ma “se la paura individuale è annientamento”, continua Cotugno, “la paura sperimentata collettivamente è una delle più grandi forze politiche che esistono”. Quando ti accorgi di non essere il solo a sperimentare queste emozioni, le cose cambiano. L’ultimo punto per comprendere da dove nasce l’attivismo climatico contemporaneo è il desiderio di ricomporre la frattura che si è creata all’interno delle nostre comunità. Per affrontare la condizione di vulnerabilità generalizzata non resta che far fronte comune. Una generazione di giovani attivisti che è cresciuta nell’epoca del tramonto delle grandi utopie, si riaffaccia prepotentemente alla vita politica. E per la prima volta lo fa secondo ideali che hanno la pretesa di creare un vero e proprio movimento mondiale, da Kathmandu a Beirut, da Johannesburg a Buenos Aires. L’obiettivo è creare i presupposti per “una sollevazione globale contro l’estinzione, per trasformare il capitale culturale degli ultimi cinque anni in capitale politico”.

Certo, le sfide culturali sono ancora molte, di cui alcune sono al principio e ne riusciamo a vedere solamente le implicazioni più immediate. Il lavoro critico da fare è lungo. Però è innegabile che l’evoluzione dei movimenti climatici contemporanei va verso una direzione ben precisa. “Serve un gigantesco atto creativo” dice Cotugno, e l'angoscia, la paura e il desiderio di comunità che quotidianamente sperimentiamo sono proprio il carburante adatto. Sentimenti individuali che tuttavia, a causa di coincidenze storiche, riguardano tutti noi. E non è capitato così spesso, durante la breve storia degli esseri umani su questo pianeta, che un sentire particolare divenisse sentimento di una collettività così variegata. Che l'individualità si mescolasse con l'universalità. Sintesi: non possiamo permetterci il lusso di perdere quest'occasione.

Rispondiamo alle vostre domande

Per questo mese è tutto. Noi ci risentiamo il mese prossimo, che sarà quasi primavera. E primavera è sinonimo di rinascita. Nel frattempo puoi dirmi tu, invece, cosa ne pensi dell’attivismo climatico. Semmai raccontarmi la tua esperienza, dirmi come è iniziata la tua storia di coscienza climatica. Se anche tu hai avuto paura, per cosa, in quale circostanza, e cosa hai fatto per affrontarla. Fammelo sapere inviando una mail alla solita redazione@duegradi.eu (Si apre in una nuova finestra).

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Ci vediamo il mese prossimo!

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