A cosa servono due anni di studio su Duolingo
Ottocento giorni fa ho cominciato a studiacchiare francese usando un’app molto nota. Poco, ma tutti i giorni. Sono piccoli esercizi, frasi da completare o da ripetere. L’app è gratis e qualche minuto al giorno - pensavo quando ho cominciato - lo trova davvero chiunque: in bus la mattina, in pausa pranzo o magari la sera tardi.
Di queste app per lo studio delle lingue ce ne sono tante, e con la diffusione dell’intelligenza artificiale ora si trovano anche dei veri e propri tutor: puoi fare delle “lezioni” con un personaggio piuttosto realistico che ti corregge quando sbagli e con cui puoi fare conversazione. Tu parli, quel coso risponde.
Ero curioso di vedere se questo metodo di economizzare e studiare nei ritagli di tempo portasse qualche risultato o meno. Dopo i primi mesi ero convinto che il risultato c’è, sì, ma è quello di allenare la propria costanza, più che di imparare una lingua. Ora che faccio questi dieci minuti al giorno da oltre due anni ho cambiato idea: i risultati ci sono anche nella lingua. Certo, niente di paragonabile a fare un corso o a passare due anni in un paese francofono, ma di recente ho fatto un’intera settimana a Parigi parlando solo francese; ho letto due romanzi arrivando alla fine e un test dice che avrei un B2.
Bisogna essere sinceri, nella settimana in cui ho parlato francese avrò fatto centinaia di errori al giorno, i romanzi che ho letto non scorrevano piacevolmente come se fossero stati in italiano. Anzi. E anche il test che ho fatto, per quanto in teoria sia “serio”, vale relativamente, perché conoscere una lingua significa più cose diverse; ognuna con difficoltà e tempi diversi di apprendimento. Capire un testo scritto è la cosa più facile, poi viene il capire qualcuno che parla. Il terzo passo è capire più persone che parlano insieme (come succede a un pranzo tra amici o ascoltando un programma in TV), solo molto dopo ci sono il saper parlare decentemente e infine il saper scrivere.
Nel mio caso il bicchiere, ho deciso, è mezzo pieno. Dopo due anni senza fatica né spese in corsi o lezioni di lingua so leggere - anche se non in modo spedito - posso vedere un film coi sottotitoli; posso avere conversazioni non troppo complicate e ho un abbozzo di vocabolario, anche se molto limitato. Il tutto ovviamente costa una certa fatica mentale in più: il libro, il film e la conversazione prosciugano velocemente la mia energia.
Quindi queste app funzionano? Secondo me, dovendo dare una risposta secca, sì. Funzionano perché ce ne sono di gratuite e anche i meccanismi che all’apparenza possono sembrare difettosi (come le stesse domande ripetute uguali più volte) sono in realtà motivati. Ripetere la stessa domanda spesso serve a fissare un termine o una regola grammaticale.
Queste app funzionano bene se si è capaci di una certa costanza, ma altrettanto importante è l’interesse. Se quei minuti di studio al giorno li si fa pensando ad altro, senza voglia, i risultati sono deludenti. Io per stimolare il mio, di interesse, ho deciso di ascoltare le notizie in francese al mattino, appena sveglio, ogni giorno. Occupandomi per lavoro proprio di notizie la mia mente, la mattina, ha per forza di cose un certo interesse per capire cosa succede nel mondo. Metto lo streaming di France24 e funziona molto bene, anche perché sui siti di notizie moltissime parole le si coglie per forza, “Donald Trump”, “l'État de Palestine” eccetera.
Ognuno per stimolare il proprio interesse può prendere un’abitudine simile: ti piace il basket e vuoi imparare l’inglese? Segui l’NBA in lingua originale. Vuoi imparare il giapponese e apprezzi i manga? Appena hai un livello sufficiente compra le edizioni che hai sempre desiderato, ma in lingua originale.
Studiare a lungo una lingua su un’app che usa la cosiddetta “gamification” (nel senso che rende l’apprendimento un giochino a punti) rischia di diventare un esercizio di logica fine a sé stesso, come quando si fanno i puzzle o si cerca la parola mancante in un cruciverba. Dopo un po’ diventa evidente che serve essere interessati alla cultura e alle persone che quella lingua la parlano.
Le lingue non sono codici vuoti, sono meccanismi per unire dei parlanti e quei parlanti hanno caratteristiche, idee, abitudini e caratteristiche specifiche. Romanzi norvegesi, musica islandese, film in spagnolo, filosofia tedesca, politica americana, vini e cucina francese. Se non ti interessa di quei parlanti e di cosa succede nelle loro vite la lingua la impari con enorme difficoltà.
Pensando a quanto stretta sia la connessione tra una lingua e la sua cultura riflettevo su alcune grandi lingue come russo, arabo e cinese. Sono lingue parlate da un gran numero di persone nel mondo, ma in pochi le studiano. Soprattutto del cinese si parla da decenni come la lingua della nuova superpotenza globale. Abbiamo sentito tutti parlare della Cina come di un’economia destinata a superare Stati Uniti ed Europa sia per la vivacità della sua economia che per lo sviluppo tecnologico. Ma la sua lingua?
Per conquistare l’immaginazione di mezzo mondo gli Stati Uniti hanno prodotto migliaia di romanzi, saggi, film, fumetti, programmi tv e altri prodotti culturali. Tutte cose che hanno stregato generazioni intere in decine di paesi. Anche prendendo solo una singola figura sportiva, Michael Jordan, si capisce l’enorme proiezione degli Stati Uniti sul resto del mondo. E tuttora questo soft-power è una delle più evidenti prove di “egemonia” americana e occidentale. Il cinese invece, appunto, per ora non ha nessun parlante famoso nel mondo come lo è Michael Jordan. In altre parole: il cinese affascina pochi perché è sospinto da un export culturale infinitamente minore.
Se questi equilibri linguistici non cambiano e non ci ritroveremo, a milioni, a studiare cinese, e a inserire parole cinesi nelle nostre frasi in italiano come avviene oggi con l’inglese, allora il famoso sorpasso cinese non ci sarà mai. Perché i prodotti tecnologici cinesi sono già ovunque, le comunità cinesi nel nostro paese hanno decenni e decenni di storia e migliaia di appartenenti, ma il cinese è ancora poco parlato dai non-cinesi. Almeno per ora, in futuro vedremo.
Ad ogni modo, la mia piccola dieta francofona composta da Duolingo e France24 è gratis. La può imitare chiunque. Questo, credo, è anche un buon esempio di come la tecnologia e l’interconnessione diano ottime chance di apprendimento anche per chi ha risorse economiche limitate. Bastano dieci minuti al giorno e la voglia di imparare qualcosa. Qualcosa che non dev’essere nemmeno per forza una lingua: ci sono app simili di matematica e di programmazione informatica, per esempio.
Poi però, sempre perché le lingue hanno un aspetto pratico imprescindibile, uno con le cose che ha imparato deve farci qualcosa. Continuare con un certo ritmo a leggere manga in giapponese, a vedere film in spagnolo o quel che è. Altrimenti molto rapidamente quelle conoscenze svaniscono. E’ come un elastico: fai tanta fatica ad allungarlo ma appena lasci la presa quello torna in un attimo alle dimensioni che aveva prima.
La nostra mente fa economia in modo duro, e conserva solo ciò che le serve nella quotidianità o in tempi brevi. Serve quindi uno sforzo iniziale per mettersi a imparare, ma subito dopo anche un piano di “mantenimento” di ciò che si è imparato. Per chi poi di energie ne ha tante si può scommettere in grande, pensare di fare un corso o un esame per prendere una certificazione, migliorare sempre di più, organizzare tandem linguistici con persone madrelingua, fare viaggi in cui quella lingua la si userà su base quotidiana.
Dallo studio di una lingua, ho pensato in questi mesi, uno può ottenere delle vere soddisfazioni, non solo qualche parola di vocabolario e un filo di disciplina personale. Il minimo indispensabile però è sempre quello: costanza e interesse.
Enrico Pitzianti
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Gerard Schneider, Senza titolo, 1968 Curtesy Pananti (Si apre in una nuova finestra).
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