Passa al contenuto principale

Albedo Newsletter - N°4

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e informazioni sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque, come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction. E lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza, insieme alla redazione di Duegradi, cercheremo di rispondere ai dubbi e alle tue perplessità (scrivi qualsiasi cosa che ti salta in mente a redazione@duegradi.eu);

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Una newsletter che non doveva essere una newsletter

Sono sincero: il numero di Albedo dello scorso febbraio non sarebbe dovuto uscire così come poi è stato pubblicato. Avrei voluto riscriverlo. Proprio nei giorni in cui stavo correggendo gli ultimi refusi e mettendo a posto le ultime virgole è successo qualcosa che mi ha turbato profondamente. Un avvenimento tragico ed enormemente drammatico che penso abbia sconvolto non solo me, ma molte altre persone, e immagino anche qualche lettore o lettrice di Albedo.

Da migliaia (Si apre in una nuova finestra) di anni tre grosse placche tettoniche (quella anatolica, quella araba e quella africana) si stanno spostando (Si apre in una nuova finestra), intersecandosi in un’area che si trova tra il sud della Turchia e il nord della Siria. Ogni piccolo movimento di queste tre placche genera forti tensioni, le quali poi vengono rilasciate sotto forma di movimenti tellurici. Durante le prime ore di lunedì 6 febbraio una scarica di energia potentissima, accumulata in anni e anni di pressioni e spostamenti, è stata rilasciata vicino Gaziantep, tra il sud della Turchia e il nord della Siria, generando un tremendo terremoto di magnitudo 7.8 (negli ultimi dieci anni solamente due (Si apre in una nuova finestra) terremoti sono stati più intensi). A dire il vero le scosse sono state varie, e a peggiorarne l’entità ci hanno pensato le caratteristiche dei luoghi colpiti, densamente popolati, e l’orario del sisma, che è avvenuto durante la notte, proprio quando la maggior parte delle persone è in casa a dormire. Fin dalle prime ore successive, le immagini e i video circolati online (alcuni opinabili, che mi sono chiesto se era davvero il caso di pubblicarli) hanno mostrato interi palazzi crollare come castelli di sabbia, e persone inermi ricoperte di polvere, sangue, macerie, ed estratte a fatica dai resti di quella che una volta era la loro casa.

La reale dimensione della catastrofe la conosceremo solo con il passare dei mesi, ma nel momento in cui scrivo si stima che circa 214mila edifici (Si apre in una nuova finestra) sono crollati, 51mila persone hanno perso la vita, 59 milioni sono rimaste senza casa, e un numero ancora imprecisato è ancora disperso.

Questi numeri servono poco a comprendere cosa sia successo per davvero. E non è solo una faccenda legata alla loro proverbiale freddezza. I media ci espongono quotidianamente a storie di sofferenze, e per una questione di sopravvivenza non possiamo dedicarci con la stessa empatia a ciascuna di essa. Il nostro corpo, e la nostra attenzione, effettuano inevitabilmente una selezione. Questo meccanismo è illustrato in un libro (Si apre in una nuova finestra) di Susan Sontag, una scrittrice statunitense che ha dedicato gran parte della sua vita ad analizzare gli effetti del dolore altrui sulle persone.

Ma il punto che qui mi interessa sottolineare è che la notizia di questo terremoto è arrivata proprio mentre stavo terminando di scrivere il numero di Albedo dello scorso febbraio. (Si apre in una nuova finestra) Le immagini e i video mi hanno ingombrato la mente per vari giorni, amalgamandosi con le parole di Ferdinando Cotugno citate nella newsletter, dove il giornalista sosteneva che l’origine di molte storie di attivismo climatico nasce da un sentimento di paura e di angoscia, a tal punto da indurmi a pensare di cestinare la newsletter già pronta per scriverne una nuova in fretta e furia. Avevo l’impellente esigenza, poi accantonata, di scrivere qualcosa. Perché? Da dove nasceva questa urgenza?

Me lo sono chiesto per un mese intero. Inizialmente ho pensato che il terremoto toccasse in qualche modo qualcosa di intimo, personale. E in effetti forse è così. Il 23 novembre 1980 una scossa di magnitudo 6.9 causò 2.743 vittime e cancellò dalla cartina geografica circa 400 comuni tra Campania e Basilicata. Nella piccola città in provincia di Salerno in cui sono cresciuto - colpita solo marginalmente dal terremoto - il ricordo di questa tragedia è però fortemente impresso nella memoria di chi l’ha vissuta, i quali tramandano il racconto di quel giorno nefasto a chiunque ne faccia richiesta (cioè me, nella fattispecie). Ma la memoria dell’avvenimento è conservata anche nel cemento di una palazzina che si trova di fronte casa di mia nonna, dove sono morte quattro persone seppellite dalle macerie. Su una parete è affissa una targa con i nomi delle vittime. Ricordo che da piccolo ero così suggestionato dai racconti del terremoto e da quella targa, che ogni volta che passavo di fianco alla palazzina mi veniva un sussulto.

Ho creduto quindi che l’urgenza di cestinare la newsletter di febbraio risalisse a questo vecchio sussulto. Qualcosa di personale in fondo, nulla di rilevante. Ma poi ho capito che l'elemento intimo non c’entrava, o almeno c’entrava solo in parte. C’era sicuramente dell’altro, qualcosa che dialogava proprio con la newsletter che avevo appena terminato di scrivere. E ancora oggi, a distanza di un mese, questo qualcosa saprei definirlo solo con una parola, e questa parola è vulnerabilità.

Vulnerabile mi sono sentito di fronte a quelle terribili immagini scattate in Turchia e in Siria subito dopo il sisma. Vulnerabile si sente qualsiasi essere umano quando si trova a vivere in prima persona grandi stravolgimenti naturali come terremoti o eventi meteorologici estremi.  Vulnerabile è anche l’islandese di un celebre dialogo di Leopardi, il quale dopo una vita di pellegrinaggi per il mondo confessa alla Natura di aver viaggiato solo ed esclusivamente per sfuggire ad essa, e alle sue imprevedibili storture.

Vulnerabilità (e smarrimento) è quello che si prova quando si riconosce l’esistenza di un tipo di agentività ulteriore alla nostra: quella dei fiumi che straripano, degli oceani che sommergono, e delle placche tettoniche che si scontrano, ossia degli esseri non umani in senso lato. Vulnerabilità non è debolezza, in quanto, come ha scritto (Si apre in una nuova finestra) lo psicologo Ugo Morelli, è la cifra stessa della vita e dell’essere umano, essere vivente che ha avuto per lungo tempo l’individualistica ambizione di ergersi a padrone del pianeta, mentre di fatto è tra gli animali sociali più dipendenti dai caregiver.

Insomma, se non si è capito, la vulnerabilità sarà uno dei fili che tesserermo anche nei prossimi numeri di Albedo. Non necessariamente però con un'accezione negativa, in quanto, come si è detto, essa è parte della vita, e diventa sinonimo di annientamento solo dal punto di vista del singolo individuo, considerato come monade isolata dal suo ecosistema. Per fare un esempio, l’acqua è sì un elemento che travolge e distrugge, con le inondazioni e gli allagamenti, ma è anche un preziosissimo strumento di conservazione e memoria. Raramente ci pensiamo però è grazie all’acqua, alle carote di ghiaccio estratte in Antartide, che siamo venuti a conoscenza del passato del pianeta, e quindi potremmo avere un’idea di come ne sarà il futuro (più giù, in Consigli di lettura, c’è un link per approfondire).

Dunque non dico altro, lo chiudo qui l’Albedo di marzo: con me, da un lato, che sento di essere un po’ meno in debito con le immagini di un sisma; e, dall’altro, con un frammento di un brano di W. G. Sebald tratto dal libro Gli Anelli di Saturno, in cui questo scrittore tedesco - una cultura, quella tedesca, che magistralmente ha saputo tradurre in parole il sentimento di vulnerabilità - è riuscito a rendere splendidamente, con un linguaggio sobrio ma ben cesellato, quell’agentività non umana di cui si parlava, e di cui si parlerà.

Per finire, nell’autunno del 1987, la regione fu devastata da una tempesta di inaudita violenza, a seguito della quale - secondo le stime ufficiali - perirono oltre quattordici milioni di alberi già adulti, per non parlare di arbusti e cespugli. Accadde nella notte tra il 16 e il 17 ottobre. Senza alcun segno premonitore la tempesta, partita dal golfo di Biscaglia, risalì la costa occidentale della Francia, attraversò la Manica e, passando per le regioni sud-orientali dell’Isola, si diresse verso il Mare del Nord. Mi svegliai verso le tre del mattino, non già per il fragore crescente, quanto piuttosto per l’insolita calura e la pressione dell’aria che nella mia camera stava aumentando [...] Ero alla finestra e, attraverso i vetri - sottoposti a una tale sollecitazione che sembravano sul punto di scoppiare - guardavo giù verso i margini del giardino, dove i grandi alberi dell'adiacente parco vescovile curvavano le loro chiome ondeggianti come piante acquatiche in una corrente immersa nell’oscurità. Nuvole bianche si rincorrevano nelle tenebre, e terribili guizzi luminosi solcavano il cielo [...] ricordo ancora che non credetti ai miei occhi quando guardai di nuovo fuori e là dove poco prima folate di vento agitavano ancora la massa nera degli alberi, vedevo adesso soltanto l’orizzonte vuoto nella sua fioca luce. Mi sembrava che qualcuno avesse tirato un sipario e che al mio sguardo impietrito si offrisse ora una scena informe e digradante verso il mondo infero. Nello stesso momento in cui percepii l’insolito chiarore notturno sospeso sul parco, ebbi la certezza che là sotto la distruzione era stata totale [...] Solo più tardi mi resi conto che gli alberi, tenuti saldi fino all’ultimo delle radici, erano caduti a terra a poco a poco [...] interi boschi si curvarono come le spighe in un campo di grano [...] Gli alberi pluricentenari, che prima bordavano il viale lungo il lato nord del parco, adesso erano tutti a terra, come fossero caduti in deliquio”.

Rispondiamo alle vostre domande

Albedo di marzo finisce qui. Domani è primavera, il che ci conferma che la vulnerabilità può essere un ponte per rinascere. Non so se anche tu ultimamente ti sei sentito o sentita vulnerabile, se sì, quando e perché, fammelo sapere sempre alla solita mail. Per tutto il resto, se hai domande o spunti, o qualcosa che vuoi aggiungere alla newsletter, scrivimi sempre a redazione@duegradi.eu (Si apre in una nuova finestra). Noi ci risentiamo ad aprile, buona primavera e buona rinascita.

Consigli di lettura

Lavoro e formazione

Riflessi: qualche numero dal pianeta Terra

15

il numero di dollari che, secondo le Nazioni Unite, si risparmierebbero per ogni ogni dollaro investito nella riduzione del rischio di disastri meteorologici dovuti al cambiamento climatico.

Ci vediamo il mese prossimo!

0 commenti

Vuoi essere la prima persona a commentare?
Abbonati a Duegradi e avvia una conversazione.
Sostieni