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Albedo Newsletter - N°7

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e informazioni sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque, come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction. E lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza, insieme alla redazione di Duegradi, cercheremo di rispondere ai dubbi e alle tue perplessità (scrivi qualsiasi cosa che ti salta in mente a redazione@duegradi.eu);

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Un’idea di paesaggio per stare al mondo

Pierre-Auguste Renoir - The Rocks of L’Estaque [1882]

Lo scorso maggio ho fatto una chiacchierata con Annalisa Metta, architetta e professoressa associata in architettura del paesaggio dell’Università di Roma Tre. Seduti in un’aula dell’università, nella struttura dell’ex mattatoio di Testaccio, abbiamo parlato di molte cose. Ma soprattutto abbiamo parlato dell’oggetto della sua ricerca: il paesaggio. 


Il paesaggio, secondo Metta, è qualcosa di dinamico, cangiante, e indipendente alle nostre aspettative; è il frutto di una negoziazione dilatata - nello spazio e nel tempo - tra una pluralità di soggetti. A coesistere e dare forma al paesaggio sono azioni diverse: insieme all’intenzione umana ci sono, ad esempio, il soffio del vento, la forza modellatrice dei corsi d’acqua, il proliferare delle piante, le conseguenze dell’abitare di altre specie viventi, eccetera eccetera. 


Me ne sono ricordato quando a inizio giugno, su uno di quei gruppi Facebook di quartiere in cui sono iscritto, un utente ha pubblicato un post dal titolo Il parco o quel che ne rimane…. In allegato vi è una foto in cui si può osservare, da una visione panoramica, un ampio spazio aperto costellato da alti pini e un fitto reticolato di piante più basse. Il testo è una lunga filippica sullo stato di trascuratezza in cui versa il parco comunale, e sull’incuria delle varie amministrazioni colpevoli di anni di completo disinteresse.


L’utente paragona il parco a uno scenario post apocalittico “dove la natura ha preso il sopravvento su tutto ciò che l’uomo ha costruito”. Gli stati d’animo di fronte a tutto ciò oscillano “dalla rabbia all’indignazione, dalla rassegnazione allo schifo”. La chiosa finale recita: “Non so perché pubblico questa foto, forse perché avendo due bambine piccole mi preme tanto che loro stiano il più possibile a contatto con la natura”.

Ora, non so se sia utile calare la visione di Metta nella fattispecie concreta del parco del mio quartiere: bisognerebbe di certo conoscere meglio il luogo in questione. “Un progetto deve porsi di volta in volta la questione se sta assecondando o meno la vocazione che i luoghi possiedono” spiega la paesaggista. Ma il post del mio vicino potrebbe essere rivelatore di un certo modo di pensare, un tic mentale ricorrente, che vuole l’uomo, e la sua capacità progettuale, padroni assoluti dello spazio pubblico e del paesaggio, quando invece “si è sempre dentro una dimensione corale” afferma Metta. 


Insomma, in materia paesaggistica l’autorialità è un concetto da rivedere: “Credo che ormai siamo pronti ad ammettere che gli autori non sono mai singolari - continua la professoressa - Non vale più l'idea che ci sia un unico artefice. Si è sempre dentro una dimensione condivisa. E questo non toglie nulla al nostro valore, alle nostre competenze, alle nostre intenzioni, semmai le arricchisce”. 


Il cambio di prospettiva “sta nell’ammettere che ciò che comunemente si chiama natura ha capacità e volontà configurativa, attributi che spesso ci si ostina, a torto, a considerare esclusiva umana”, si legge nell’ultimo libro di Metta, Il paesaggio è un mostro, pubblicato nel 2022 dalla casa editrice DeriveApprodi. 


Tutto ciò potrebbe sembrare qualcosa di meramente teorico, senonché nel libro sono elencate una serie di opere pubbliche dove la natura viene intesa, da architetti e paesaggisti, non come un fondale su cui applicare d’imperio la visione antropica, ma come un campionario di comportamenti da studiare e interpretare, e con cui collaborare in maniera orizzontale. Per capirci meglio, un esempio concreto è il Parco André-Citroën di Parigi. 


Nel 1985, a ridosso della Senna, in un’area precedentemente occupata da uno stabilimento dell’azienda automobilistica Citroën, l’amministrazione parigina indice un concorso internazionale col fine di riqualificare l’area. Uno dei due team vincitori è composto dall’architetto Patrick Berger e dall’agronomo e paesaggista Gilles Clément. La circostanza diventa un'opportunità, soprattutto per Clément, per mettere in pratica una serie di tecniche sperimentali che prendono le mosse da due semplici regole: l’abbandono volontario e il non fare, intese “come azioni costruttive intenzionali”. 


La scelta di un bioma boreale che nulla ha a che fare con la vegetazione del luogo; la geometria del parco che segue gli allineamenti delle strade limitrofe; la vegetazione fitta e lussureggiante che, in alcune aree del parco, priva di appigli e disorienta il visitatore; la comparsa spontanea di nuove specie vegetali che ha fatto perdere, sotto l’effetto di un’incessante metamorfosi, l’impianto iniziale del giardino; il ruolo inconsapevole dei visitatori (le zone in cui sono presenti determinati fiori è il risultato, non solo di una scelta consapevole da parte dei manutentori dell’area, ma anche dell’abitudine dei visitatori di camminare in alcune zone piuttosto che in altre); tutto ciò sovverte la prassi secondo cui la coltivazione, la cura e la conduzione dei luoghi sono obblighi morali di chi progetta un paesaggio. 


Oggi il Parco André-Citroën si presenta come una struttura vivente a sé stante, dotata di regole e manifestazioni autonome in cui - tramite la collaborazione tra l’azione umana e quella della vegetazione, dell’acqua della Senna, del vento e del suolo - si manifestano cambiamenti ed evoluzioni continue. 


Certo, questa perdita di controllo sul risultato finale può generare sgomento. Non è un caso il titolo del libro, Il paesaggio è un mostro. “Sento con urgenza la necessità di sottrarre il paesaggio alla visione pacificata e tranquillizzante che spesso prevale nelle narrazioni - ha detto (Si apre in una nuova finestra) Metta in un’intervista alla rivista minima&moralia - secondo cui il paesaggio sia necessariamente bello-buono-e-giusto, uno scrigno di virtù e valori positivi, che curi le nostre nevrosi e ponga riparo ai mali del nostro corpo e del nostro spirito”. “Amo pensare al paesaggio come a un mostro, ma non nell’accezione negativa che spesso si associa a questo termine, quanto perché i mostri sono creature ibride, sono l’incarnazione del doppio” ha ribadito.


Bisogna però tener presente che, in tutto ciò, “non c'è nessun fatalismo”. “Non è un ‘liberiamo il caos’ - spiega la paesaggista - Assolutamente. Questo allentare il controllo vuol dire comunque esercitare un'intenzione, però un'intenzione che non ha nessuna ansia predittiva definitiva, ma che al contrario è accogliente nei confronti di avvenimenti non necessariamente previsti. Cioè non è un principio anarchico, ma un principio, mi permetto di dire, forse più democratico”.


Si capisce che un’idea di questo tipo supera i ristretti confini della disciplina, e configura un vero e proprio “modo di stare al mondo”. Ed ecco il motivo per cui il libro ha riscontrato molto seguito tra i non addetti ai lavori. “Ho ricevuto moltissime attestazioni di persone che provengono dalla letteratura, dalla danza, dalla filosofia addirittura da giuristi, cioè persone lontanissime dal mio mondo” rivela l’autrice. “Ancora, a un anno di distanza dalla pubblicazione, mi chiamano in giro per fare presentazioni, presso le associazioni, nei club di lettori, nelle librerie, nei festival, piuttosto che nelle scuole di architettura”. 


“I paesaggi non sono altro che la nostra autobiografia collettiva, con cui incessantemente scriviamo le nostre storie e le nostre proiezioni di futuro” scrive Metta. Quello tratteggiato è un modo di stare al mondo che cerca di tenere insieme l’essere umano e gli esseri non umani, l’intenzione creatrice e il dialogo tra esistenze diverse, il singolo istante e le ere geologiche, “i moti millimetrici e le migrazioni transoceaniche, la polvere e le placche continentali”. 


A chiacchierata conclusa, attraversando il Tevere per tornare a casa, ho ricordato un brano di Iperoggetti in cui Timothy Morton, citando Freud, scrive che la complessità dei cambiamenti climatici sembra alimentare “la grande umiliazione dell’uomo”. Guardando a ritroso nella storia dell’umanità, alcune idee hanno inferto alla percezione di sé della nostra specie ferite impossibili da rimarginare. La prima si deve a Copernico, il quale ha mostrato che è la Terra a ruotare intorno al sole e non viceversa: in questo modo ci ha reso consapevoli di non essere al centro dell'universo. Poi è venuto Darwin, che ci ha rivelato che condividiamo un antenato comune con tutti gli altri esseri viventi, e dunque non siamo così unici e speciali come credevamo. Poi c’è Freud stesso, che ha spodestato l’uomo dal centro dell’attività psichica. Poi ci sono Marx, Heidegger, Derrida e Nietzsche.


E poi ho pensato che su questa scia ci fossero anche Clément, Metta e tutta la schiera di paesaggisti e paesaggiste che hanno iniziato a vedere la natura, non come uno scenario in cui iscrivere la propria volontà progettuale, ma “un repertorio di comportamenti da interpretare e con cui collaborare in termini dialogici”, senza coltivare alcuna ambizione di controllo o di dominio. 

Rispondiamo alle vostre domande

Per questo mese è tutto. Albedo di giugno finisce qui. Domani nell’emisfero boreale ci sarà il solstizio d’estate: il giorno con più ore di luce di tutto l’anno. Sono millenni che l’uomo celebra questa ricorrenza. Siamo passati dai falò rituali del passato, ai festival musicali contemporanei. Se hai voglia di scrivermi come passerai questo giorno la mail solita è redazione@duegradi.eu (Si apre in una nuova finestra), o quella personale: sebastiano.santoro@duegradi.eu (Si apre in una nuova finestra). Se hai voglia invece di suggerirmi una lettura per l’estate, va bene lo stesso. Mi sa che io, con l’Albedo di questo mese, un piccolo suggerimento l’abbia già dato. Noi ci sentiamo il prossimo mese. A presto! 

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