Passa al contenuto principale

Albedo Newsletter - N°8

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e informazioni sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque, come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction. E lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza, insieme alla redazione di Duegradi, cercheremo di rispondere ai dubbi e alle tue perplessità (scrivi qualsiasi cosa che ti salta in mente a redazione@duegradi.eu);

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Grandi amnesie collettive

All’ingresso del museo dello sbarco di Anzio sono esposti resti di imbarcazioni utilizzate durante le operazioni di sbarco nel gennaio 1944.

Il museo dello sbarco di Anzio è stato inaugurato il 22 gennaio 1994 per commemorare lo sbarco che le truppe angloamericane fecero in questa area del litorale laziale. Sul finire della seconda guerra mondiale, a pochi mesi dall’armistizio dell’8 settembre, il fronte bellico in Italia si era impantanato sulla linea Gustav, a ridosso di Cassino. Per questo motivo gli Alleati - in particolare il primo ministro inglese Churchill - decisero di aggirarla e organizzare uno sbarco nelle città costiere di Anzio e Nettuno. I piani però non andarono come avrebbero voluto, e l’avanzata si fermò dopo pochi giorni dallo sbarco. Le settimane che seguirono furono un susseguirsi di cruenti combattimenti dove trovarono la morte migliaia di uomini in entrambi gli schieramenti. Solo tra gli Alleati ci furono più di quarantamila (Si apre in una nuova finestra) tra morti e feriti. Molti erano poco più che maggiorenni. In tutto si battagliò per 4 mesi. Soltanto verso la fine di maggio, le truppe Alleate sfondarono la linea del fronte e riuscirono a raggiungere Roma.

Lo sbarco Alleato avvenne il 22 gennaio 1944. Il museo, come detto, è stato aperto il 22 gennaio del 1994. Esattamente cinquant'anni dopo. Questa distanza temporale prolungata è già un indizio: parte dei cittadini di Anzio, in realtà, non ha avuto alcuna intenzione di ricordare questo avvenimento nefasto.

La distruzione che comportò lo sbarco per la città di Anzio è testimoniato dalle foto d’epoca esposte al museo.

Prima della guerra, Anzio era una città costiera che viveva di pesca, ma soprattutto di turismo. “Avevi strutture che nel Novecento non avevano in molti” racconta Patrizio Colantuono, direttore del museo dello sbarco. “C'era tutta la borghesia di Roma. Qui c’erano i Pamphili, gli Aldobrandini, i Borghesi. Venivano a inizio estate e rimanevano 5 mesi l'anno, da maggio a settembre. Insomma ad Anzio si viveva bene”. Poi ovviamente con l’arrivo del conflitto, e soprattutto dello sbarco, il quale ha convertito la città in una zona di bombardamenti e aspri scontri campali, tutto è cambiato. 

Già alcuni mesi prima dell’arrivo degli Alleati, un ordine tedesco costrinse i cittadini di Anzio e Nettuno ad abbandonare le proprie case; pena: la fucilazione per chiunque avesse violato l’ordine. Molti trovarono ospitalità presso parenti o amici, a Roma o nei comuni limitrofi. Ma la maggior parte della popolazione preferì invece fermarsi poco oltre la zona proibita dai tedeschi, sistemandosi presso la pineta della Campana, dove in breve tempo nacque un campo profughi fatto di baracche e capanne tirate su con lamiere, cartoni e cabine balneari, dove le condizioni igieniche e alimentari cominciarono presto a scarseggiare. “Con i bombardamenti il 70% di Anzio è stato distrutto. La popolazione è stata costretta a stare un anno fuori città” spiega il direttore. 

Nelle vetrine del museo sono esposte uniformi, armi, decorazioni, documenti, piani di battaglia, foto e altri oggetti d'uso quotidiano dei soldati. La maggior parte sono donazioni di reduci angloamericani o delle loro famiglie. “In realtà in mare ci sono ancora oltre 250 mezzi, e nessuno qui ad Anzio si è mai preoccupato di recuperarli” afferma Patrizio, che poi mi spiega che a svolgere il lavoro di documentazione e di raccolta del materiale è stato essenzialmente lui insieme ai soci del “Centro di ricerca e documentazione sullo sbarco e la battaglia di Anzio”. 

“La politica locale non ha avuto nessuna intenzione di ricordare lo sbarco perché qui da oltre 20-25 anni esiste sempre il centrodestra, quindi non è che siano entusiasti - racconta Patrizio - Ma anche la gente di Anzio ha cercato di dimenticare”. “Sono stato io a fare tutto, quando ero nell’azienda di soggiorno e del turismo di Anzio. Sono stato un po’ matto, perché è stato un lavoro volontario, nessuno mi ha dato uno stipendio, anzi, ci ho messo anche del mio. Un 20% è mio, personale. L'80% è dei veterani. Prima il comune mi dava 5 mila euro all’anno, ma sono 8 anni che me li hanno levati. Ho creato un’associazione, ma quando fai lavoro volontario, la gente alla lunga la perdi”. 

L’esigenza di dimenticare ha toccato Patrizio personalmente. Anche sua madre non ne ha voluto sapere del museo. "Mia madre il museo non l’ha mai voluto vedere. Ha trascorso sei mesi alla Campana e sei mesi a Sala Consilina. Prima della guerra aveva una casa, proprio qui, nel centro di Anzio, ma è stata distrutta dai bombardamenti americani. Ha dovuto vendere l’area perché avrebbe dovuto ricostruirla, ma i soldi non ce li aveva”.

Dopo un’ora di chiacchiera il clima si distende. Patrizio sentendosi a suo agio comincia a parlare in dialetto romano. Quando gli domando cosa lo ha spinto a sobbarcarsi quasi da solo il peso del museo, mi risponde: “Un poco ‘sta storia della casa de mi’ madre me dava er tormento. E poi è una storia di rispetto per ‘sti ragazzi (le truppe angloamericane). Da giovane andavo nei cimiteri, qui in zona ce ne sono vari, e mi dicevo ‘Ma questi so’ morti a 19 anni, a 20 anni’. Non è giusto che questi sono venuti a morire qua, da lontano, per darti una libertà, una democrazia. Non mi sembrava giusto che non ci fosse un loro ricordo”. 

Tra Anzio e Nettuno sono stati costruiti dei cimiteri dedicati, rispettivamente, alle vittime inglesi e statunitensi cadute durante la campagna italiana. In foto il cimitero statunitense di Nettuno.

Il disinteresse della cittadinanza è un indizio del fatto che lo sbarco, ma soprattutto le privazioni e la distruzione che lo hanno preceduto e che da esso ne sono derivati, sono stati un forte trauma che sembra rimasto in parte escluso dalla consapevolezza di sé di chi l’ha vissuto. Da un certo punto di vista, è un meccanismo di sopravvivenza. Per guardare avanti e pensare al futuro, la gente ha preferito insabbiare il ricordo delle violenze e delle atrocità subite. “Diciamo che ad Anzio da dopo la guerra hanno pensato soltanto a costruire, e l’hanno fatto pure male” afferma Patrizio.  

“Si è pensato a costruire. E poco a ricor…” cerco di aggiungere io, ma nemmeno riesco a terminare la frase che Patrizio mi risponde in maniera repentina, con il suo musicale dialetto romano, e un tono di voce sicuro, come se avesse aspettato una vita intera per poter dire a qualcuno questa cosa, e finalmente fosse arrivata l’occasione: “Ma si se perde la memoria, se perde tutto - poi fa una breve pausa, e conclude - Non si può andare avanti così”.

Patrizio Colantuono mostra la scheda di un cannone ferroviario tedesco usato nella battaglia di Anzio.

Quando ho letto, alcuni mesi dopo, Scritto nel ghiaccio del direttore dell’Istituto di Scienze Polari del CNR Carlo Barbante, ho ripensato a Patrizio. Il libro di Barbante è un viaggio nel tempo nella memoria del clima della Terra attraverso le informazioni archiviate in strati di ghiaccio antichissimi. Durante la sua attività di ricerca, Barbante ha analizzato numerose carote di ghiaccio, ovvero cilindri di ghiaccio estratti scavando dei fori profondissimi nei ghiacciai di mezzo mondo.

Qual è il suo obiettivo? Dalla formazione chimica, dalle bolle d’aria e dalle altre sostanze presenti all’interno del ghiaccio si possono scoprire informazioni su com’era l’atmosfera terrestre centinaia di migliaia di anni fa. In alcuni casi perfino milioni di anni fa, e con una precisione molto dettagliata. Da ciò è possibile interpretare i fenomeni climatici in atto, e prepararci quindi a quelli del futuro: è grazie al carotaggio, ad esempio, che abbiamo scoperto che le concentrazioni di CO² attuali sono quasi il 50% più elevate delle massime concentrazioni registrate negli ultimi 800.000 anni. 

Anche il lavoro di Barbante dunque, così come quello di Patrizio, ha a che fare con la memoria. Certo, una memoria diversa: non individuale, né collettiva, ma dell’intero pianeta. A conti fatti, seppur non è commovente come i nostri ricordi più intimi, anche questa è una memoria che ci riguarda direttamente. Ne va del nostro futuro. Sepolta sotto tonnellate e tonnellate di ghiaccio, esiste una memoria acquatica che è utile ricostruire per capire meglio il presente, e sperare quindi di immaginarsi con più esattezza il futuro. Non una cosa da poco in tempi così incerti. Il punto, però, è che questa memoria la stiamo perdendo, in quanto una delle conseguenze dei cambiamenti climatici è lo scioglimento dei ghiacciai. 

“La fusione di un ghiacciaio implica la distruzione del suo archivio naturale di informazioni preziose sul clima e sull’ambiente del passato - scrive Barbante - La storia delle nostre Alpi, delle nostre montagne e delle nostre genti è racchiusa nel ghiacciaio, come se i suoi cristalli costituissero le pagine di un antico manoscritto conservato in una biblioteca ghiacciata. E proprio come una biblioteca in fiamme, anche la scomparsa di un ghiacciaio è una perdita incalcolabile del nostro patrimonio culturale e delle nostre conoscenze”. 

Sebbene sia una delle conseguenze più sottovalutate, lo scioglimento dei ghiacciai provocherà la perdita di materiali importantissimi per ricostruire il passato del nostro pianeta. In un recente articolo uscito su Nautilus, il paleontologo Summer Praetorius definisce la scarsa attenzione che vi stiamo dedicando una “grande amnesia (Si apre in una nuova finestra)” collettiva.  

Più o meno consapevolmente, preferiamo che questo lento stillicidio si posizioni in una parte nascosta delle nostre coscienze, lontana dall’attenzione e dallo sguardo quotidiano. Andiamo avanti derubricandolo a semplice accidente, solo perché le sue conseguenze sono poco intuitive. Immersi in un sistema di produzione e consumo insostenibili, siamo letteralmente insensibili di fronte alla quantità di informazioni che stiamo perdendo ogni anno. 

Fortunatamente persone come Carlo Barbante e Patrizio Colantuono cercano di prendersi cura del passato. Lavorano, con curiosità e amorevolezza, affinché certi ricordi si conservino. “È nelle carote di ghiaccio, scritta tra le righe dei loro strati, che possiamo leggere la storia climatica e ambientale del nostro pianeta e delle sue interazioni con l’uomo - scrive Barbante nelle ultime righe del libro - Una sorta di libro antico, redatto in una lingua non sempre accessibile, celato in un preziosissimo scrigno congelato”. Ed è questo scrigno prezioso che, se non agiamo subito, perderemo per sempre.

Rispondiamo alle vostre domande

Albedo di luglio finisce qui. Devo dire la verità, scrivere l’ultima parte di questo numero, e quindi parlare di ghiaccio e di ghiacciai, avvolto dal calore torrido di Roma, pochi giorni dopo l’annuncio del giorno più caldo (Si apre in una nuova finestra) mai registrato a livello globale da quando sono iniziate le rilevazioni, mi ha fatto più che bene. Mi sono immaginato di essere in una stazione polare in Antartide insieme a Barbante e al suo team di ricercatori.

L’immaginazione è uno strumento molto potente, peccato che è durato solo per poco. Il caldo è tornato, e il testo di Albedo è finito. Ma voi, invece, come state resistendo al caldo di questa estate? Scrivetemi sempre al solito indirizzo mail, redazione@duegradi.eu (Si apre in una nuova finestra) oppure quello mio personale sebastiano.santoro@duegradi.eu (Si apre in una nuova finestra). Noi ci risentiamo il prossimo mese. Nel frattempo buona estate, idratatevi e state all’ombra. Ciao!

Consigli di lettura

Lavoro e formazione

Riflessi: qualche numero dal pianeta Terra

42%

del territorio dei 27 paesi membri dell'UE è ormai prosciugato a causa della mancanza di pioggia, come rilevato dall'Osservatorio Europeo sulla Siccità (EDO). Questa percentuale è destinata a peggiorare in vista dell'ondata di calore che sta attualmente colpendo l'Europa.

Ci vediamo il mese prossimo!

0 commenti

Vuoi essere la prima persona a commentare?
Abbonati a Duegradi e avvia una conversazione.
Sostieni