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Bubbles out of time

Me ne stavo a gambe incrociate nella tuta, seduta sul pavimento morbido della bolla. La nostra nuova civiltà si espandeva a una velocità proporzionale a quella dei nostri movimenti: come astronauti nell’oceano vivevamo immersi a sud del Pacifico. Sott’acqua il tempo non era scandito in maniera uguale per tutti: ognuno sceglieva il suo ritmo e doveva passare al centro di contabilità dove lavoravo per comunicarlo almeno una volta al mese; in modo che lo stato potesse mantenere un controllo minimo sulla vita delle persone. Tutti tendevamo spesso ad allungarci la giornata, a velocizzare tempi di lavoro, di carriera, di trasporto, di crescita dei figli; acquisivamo sempre più contatti nelle nostre rubriche, imparavamo sempre più in fretta dalle intelligenze artificiali. Ogni giorno mi aspettava un programma fitto di riunioni virtuali, allenamenti e scambi di informazioni con gli organismi viventi. Cercavo di ottimizzare i server, di risolvere i problemi operativi, di studiare come moltiplicare le risorse marine per poterle sfruttare in maniera sostenibile.

Non aprivo bocca da anni, così come non toccavo un corpo di uomo dal giorno in cui mi ero inabissata. Nessuno mi chiedeva mai come stessi, cosa facessi o in cosa sperassi, tanto meno me lo domandavo io stessa: erano le bolle a occuparsi di noi, gli ambienti protetti, in cui dormivamo, con sistemi di check-up per la nostra salute fisica e per la circolazione. L’unico problema a volte non rilevato era l’ossigeno: due uomini erano morti quella mattina di isolamento aerobico, perché le tute che indossavamo, non erano testate a sufficienza per fornirlo a ritmi di vita estremi. Mia madre viveva sulla terra, probabilmente non conosceva più i lineamenti del mio volto, riceveva un mio messaggio automatico tutte le mattine con il mio buongiorno e il mio stato di salute aggiornato.

Sott’acqua comunicavamo a ultrasuoni, ci nutrivamo attraverso le fibre della tuta, il cibo si smaterializzava ed entrava direttamente in circolazione. Per riprodurci ci scambiavamo i geni, supervisionati da robot specializzati, che verificavano la possibilità di combinazioni per garantire l’evoluzione della specie.

I soldi che guadagnavamo lavorando andavano direttamente allo stato che ci permetteva di vivere in quell’ambiente protetto: la terra surriscaldata era troppo pericolosa, ormai, per poter sperare di poterci costruire una vita futura. Gli anni a venire sarebbero stati sempre più duri per chi viveva ancora lassù.  Fumai una sigaretta nella bolla, scorrendo svogliata le foto ricordo della galleria sulla parete, quelle delle vacanze al mare dell’infanzia, quelle della gita al lago, della mia festa di compleanno.

Mi sedetti di nuovo a gambe incrociate: ogni giorno appena sveglia, mi imponevo di stare seduta qualche minuto, per permettermi di ricordare il passato e non estraniarmi completamente dalla mia vecchia vita. Cercai di concentrarmi su me stessa, come sempre, ma sentii una scossa salirmi su per la colonna vertebrale, fino al collo, lungo tutta la schiena.  Aprii nuovamente la cartella dei ricordi terresti per distrarmi: subito provai una stanchezza forte e poco dopo un senso di tremore. Cercai di chiedere aiuto, iniziai a strapparmi i pezzi della tuta, cercai di vomitare. Nella bolla ero protetta da qualunque cosa potesse farmi del male ma mi venne l’istinto di urlare, speravo di risalire, di sentire un rumore, una voce, magari quella di mia madre.

Dieci anni prima, eravamo ancora sulla terra. Mio padre era arrivato a casa con due scatole vuote di cartone. Io correvo avanti e indietro per la stanza, sudata, sperando che nessuno aprisse la dispensa in cucina quella sera e vedesse che non era rimasto più nulla. Avevo cercato mettere due dita in gola per tutto il pomeriggio, ma non ero riuscita comunque a vomitare, così mi ero messa a correre, per non sentire il grasso correre su e giù nel mio corpo, ispessirsi su di me, sporcarmi dentro. Mio padre entrò in camera e mi prese per mano facendomi sedere, stravolta, sul tappeto accanto a sé: mi diede uno dei due scatoloni, l’altro iniziò a riempirlo. Mi disse di copiarlo, di metterci dentro tutti gli oggetti che non mi erano più necessari e di lasciar fuori solo le cose che mi rendevano felice. Ma io non ero felice. E nemmeno lo sarei stata eliminando due cianfrusaglie. Lui riempì il suo scatolone, mi diede un bacio, e lo portò via, lasciandomi lì a fissare il mio, ancora vuoto. Mentre se ne andava gli urlai che potevo metterci anche tutto ciò che avevo nella scatola. Non faceva differenza. E ripresi a correre, avanti e indietro.  Quello scatolone rimase lì per mesi, e io ogni tanto lo guardavo: potevo scegliere cosa metterci dentro, ma non ero più abituata a farlo. Iniziai a parlare con mio padre, iniziai a spiegargli cosa mi mancava, a raccontare che per me non esisteva la fame, né la sazietà, che la mattina mi alzavo, sperando che i giorni scorressero il più in fretta possibile. Non mi andava più di uscire con gli amici né di parlare con nessuno. Iniziai a dirgli che ero spesso in preda alla paura, che mi sentivo sempre piena o sempre vuota, sempre sola. Iniziai ad accoccolarmi vicino a lui la sera ogni tanto. A chiedergli di stringermi forte. Iniziai ad andare a correre solo se sentivo la rabbia crescermi dentro e mi volevo sfogare. Un giorno chiamai Carlotta che mi venne a trovare. Lei e Lucia continuarono a scrivermi. Ogni tanto suonavano alla porta, sapevo che erano loro. Iniziai ad andare ad aprire.

Avevo perso troppo tempo, o forse iniziavo solo ora, a scegliere come usarlo e cosa tenere. Iniziai a riempire lo scatolone. A scegliere cosa mangiare, quando. La questione era selezionare, non aggiungere né eliminare.  Scegliere di ascoltare: le cose troppo piene o troppo vuote, non fanno mai rumore. Dopo mesi c’era ancora un po’ di spazio nello scatolone.

Raccolsi le forze. Chiamai l’assistenza e firmai immediatamente il modulo virtuale per richiedere di risalire in superficie. Era parecchio pericoloso, sconsigliato: chi lo firmava era definito disagiato e inadatto alla vita futura. Mentre risalivo, ripresi a concentrarmi sul respiro, toccai i miei capelli, mossi pian piano le dita delle mani. Riguardai la foto di mia madre, ripensai a quando mi ero immersa nell’oceano felice di sfuggire al suo controllo.  Presi uno specchio, mi guardai in faccia e mi spaventai.  Intravidi un pesce, poi un raggio di luce, poi la superficie.

Quando rividi mia madre, le sue rughe, i suoi occhi sussultare ogni volta che incrociava i miei, tremai ancora. Un brivido lungo tutta la schiena. Ripensai  allo scatolone, a quello spazio vuoto che avevo lasciato anni prima, a mio padre che leggeva i libri di fantascienza e a quella volta in cui gli chiesi che cosa dovevo ancora metterci dentro  e mi rispose “tieni quello spazio vuoto per la noia,  per il tempo che non occuperai con niente, per quello che ti sembrerà di perdere ma tornerà  a risuonare”. Mossi le dita dei piedi, sperando di ricordarmi ancora come ballare.