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Albedo Newsletter - N°10

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e informazioni sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque, come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction. E lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza, insieme alla redazione di Duegradi, cercheremo di rispondere ai dubbi e alle tue perplessità (scrivi qualsiasi cosa che ti salta in mente a redazione@duegradi.eu);

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Impara l’arte e mettila da parte

Il mio rapporto con il mondo vegetale è cominciato da poco, con un potos. Considerata la mia scarsa capacità a prendermi cura delle cose, e delle piante in particolare, ho deciso di iniziare con una di quelle meno esigenti in quanto ad attenzioni e cure (mi ha convinto il fatto che la chiamano anche la pianta degli smemorati). Il potos è una pianta generosa che chiede molto poco e restituisce tantissimo, sia in termini di bellezza delle sue foglie lanceolate, sia in termini di colori: la screziatura delle foglie può andare dal verde intenso al giallo. Originaria del sud-est asiatico, si è acclimatata molto bene in Europa, ed è per questo che abbonda praticamente ovunque, tanto in case private quanto negli spazi pubblici. Il giorno in cui l’ho introdotta nella mia camera da letto è esattamente lo stesso in cui ho consegnato lo scorso numero di Albedo al caporedattore di Duegradi per il consueto lavoro di editing. 

A un certo punto, in questo numero di Albedo c’è scritto che uno degli argomenti principali usato dagli scienziati di Los Alamos per avallare l’utilizzo militare della bomba atomica è che la scienza è un’acquisizione collettiva, per cui qualcuno prima o poi sarebbe arrivato alla scoperta dell’atomica. In pratica si dice che l’avanzamento della ricerca in materia atomica è arrivato a un punto tale che, se non l’avessero creata gli americani, la bomba sarebbe stata messa a punto da qualcun altro, in qualche altra parte del globo, con rischi perfino maggiori. E in fondo gli scienziati non avevano tutti i torti: lo spauracchio erano i nazisti, di fatto invece ci stava arrivando l’Unione Sovietica. 


Pochi giorni dopo la pubblicazione di Albedo ho innaffiato il potos per la prima volta. Dopodiché nell’accomodare i suoi rami ho commesso un errore che commettono tutti con questa pianta: invece di dare un senso ascendente ai suoi rami rampicanti, li ho lasciati pendere all’ingiù. E ho lasciato il potos così, a prendere quel po’ di luce che filtrava dalla finestra non molto distante.


Pochi giorni dopo mi è venuto a mente che, tralasciando le conseguenze etiche di cui si è parlato lo scorso mese, non è una stranezza che gli scienziati di Los Alamos abbiano usato l’argomento di sopra. Di solito la cultura scientifica fa fatica ad attribuire i meriti di una scoperta a un singolo individuo. Me ne sono accorto parlando di meccanica quantistica con un amico che insegna fisica in un liceo, e appassionato della materia. Mentre per me la paternità di questa disciplina è legata agli studi di Heisenberg e Schrödinger, per lui è stato molto più difficile individuare dei nomi specifici. Sosteneva che l’origine della meccanica quantistica è più che altro rintracciabile in quel clima effervescente di ricerche e di condivisione di scoperte e idee che contraddistinse una folta schiera di studiosi e di studiose che a inizio secolo scorso ha partecipato alle conferenze di Solvay. 


Fotografia dei partecipanti della prima Conferenza di Solvay, Fonte: Wikipedia


Aveva sicuramente ragione lui. Di esempi se ne potrebbero fare altri. Sarebbe arduo scegliere tra Newton o Leibniz per comprendere l’origine del calcolo differenziale, così come è storica la diatriba tra Marconi e Tesla per determinare l’inventore della radio. Perfino Einstein, uno dei più famosi fisici della storia dell’umanità, non sarebbe arrivato molto lontano senza l’apporto degli studi precedenti di Hendrik Lorentz e Max Planck. 


Spesso nel mondo scientifico la nozione di ‘nuovo’ ha una connotazione storica ineliminabile: ogni scoperta è il risultato di un determinato clima culturale, e ogni autore, nel perfezionare le proprie teorie, si è avvalso del contributo fondamentale della somma delle scoperte precedenti. “Se sono riuscito a vedere più lontano è perché mi sono seduto sulle spalle dei Giganti” scrisse Newton in una famosa lettera diretta a Robert Hooke.


Bene, questo approccio è presente nel mondo della ricerca scientifica, ma non potrei dire altrettanto nel mondo dell’arte. In un breve saggio intitolato L’originalità della specie (Invito alla meraviglia, Einaudi) lo scrittore Ian McEwan parla della differente interpretazione del concetto di originalità nell’arte e nella scienza. Nell’ambito artistico “l’originalità è inseparabile da un forte senso dell’individuo” scrive McEwan. Di norma, al di fuori degli ambienti accademici, un’opera artistica è considerata il parto espressivo esclusivo del suo autore. 


Per capirci, solo Flaubert potrebbe scrivere un romanzo come Madame Bovary. Allo stesso tempo sarebbe insolito, se non addirittura impensabile, credere che Le metamorfosi siano potute uscire da una penna che non sia quella di Kafka. Dietro queste affermazioni c’è la profonda convinzione che è nella vita, nelle idiosincrasie e nei demoni di Kafka, e di quelli di Flaubert, ovvero degli autori, che rintracciamo le coordinate esistenziali dei personaggi di Gregor Samsa e di Emma Bovary. 


Questa simbiosi tra opera e autore è sinonimo di come, in un certo periodo storico, si è intesa l’individualità artistica. I fattori che hanno generato questo modo di vedere il prodotto artistico sono vari, e hanno forse a che fare, sostiene McEwan, con “il capitalismo, una crescente classe agiata, la fede protestante, il movimento romantico, le nuove tecnologie della comunicazione, l’emanazione di leggi sui brevetti in seguito alla Rivoluzione industriale”. Tutto ciò, per lo scrittore inglese, ha portato all'identificazione “ormai totale, automatica e indiscutibile” tra l’individuo e il frutto della sua creatività. Ne è un’ulteriore prova il culto smisurato della figura dell’artista (molto più raramente capita con chi si occupa di scienza).


Eppure esiste una concezione diversa secondo cui “nulla sfugge alla storia”, “niente emerge dal nulla”, “e anche un genio è condizionato dai vincoli e dalle opportunità delle circostanze in cui si trova.” Insomma anche “l’artista non è che lo strumento con cui la storia e la cultura si esprimono”; “che operi all'interno della propria tradizione o contro di essa, l’artista non può che esserne il prodotto” continua McEwan. 


L’adozione di un approccio di questo tipo, non solo assottiglia la forbice che esiste tra arte e scienza, ma ha l’ulteriore conseguenza di porre le opere d’arte in una giusta cornice di senso, una cornice meno egocentrata e capace di rispondere meglio alle sfide che l’Antropocene ci presenta. “Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…” ha scritto (Si apre in una nuova finestra) Calvino. 

Mentre termino di scrivere l’Albedo di ottobre, il potos continua a stare immobile sulla mensola. ‘Immobile’ in realtà è una parola imprecisa, un occhio attento noterebbe che le sue radici aeree si sono mosse nei giorni che ci sono voluti per scrivere questo editoriale. Uno spostamento verso il basso quasi impercettibile, nell’ordine del millimetro, forse anche meno, ma presente. Cosa significa essere una specie vivente sessile, che non fa del movimento il proprio modo di stare al mondo, per uno come me che cammina 8 km al giorno (a detta della mia app di Fitness) è molto difficile da comprendere. Non è solo che io faccio difficoltà a prendermi cura delle piante, è che fatico proprio a immaginarmi la loro condizione, faccio fatica a immaginare come ci si sente a essere una pianta, ad avere radici salde nel terreno, a dipendere dalla luce del sole. E non credo di essere l’unico. 


Per trovare un ponte che mi avvicini a questa individualità così diversa è necessario, se possibile, mettere da parte la mia di individualità. Cambiare il rapporto con le piante e con l’ambiente circostante significa questo: spogliarci per un attimo di quello che ci rende homo sapiens per compenetrare unicità diverse dalla nostra. Probabilmente questo gesto al potos, e ai suoi simili, viene fuori in maniera più naturale, visto che le piante sono sul pianeta da milioni di anni prima di noi. Per quanto ci riguarda, invece, le cose da comprendere sono tante, visto che queste condizioni le stiamo stravolgendo (in peggio, compreso per noi stessi). Albedo cerca ogni mese di dare un nome ad alcune di queste cose da comprendere. Il modo con cui consideriamo l’arte, e l’eccessivo peso che attribuiamo all’individualità degli artisti, è forse una di esse.

Rispondiamo alle vostre domande

Come le radici rampicanti del mio potos, nel prossimo numero probabilmente ci muoveremo verso un’altra piattaforma per accogliere tantissimi nuovi iscritti, e magari poter allargare questa newsletter partecipativa con lo sguardo di nuove persone. Un ringraziamento, intanto, va a chi ha dato il via a questo viaggio che è iniziato ormai quasi un anno fa. Se non fosse stato per il contributo di chi si è iscritto all’abbonamento Balena di Duegradi, Albedo, come progetto editoriale, probabilmente non sarebbe mai nato. Per cui grazie di nuovo. L’appuntamento ce lo diamo alla prossima tappa del viaggio, il prossimo 20 novembre. Un abbraccio.

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Riflessi: qualche numero dal pianeta Terra

2.2°C

l’aumento della temperatura media in Europa rispetto all’era pre-industriale. L’Europa si sta riscaldando più velocemente della media globale. La temperatura media del continente questa estate era di 19,63°C, 0,83°C sopra la media, rendendola la quinta estate più calda per la stagione estiva.

Ci vediamo il mese prossimo!

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