VOL. 2 - PALESTINA LIBERA TUTT*
VOCI
TW: violenza razziale e coloniale, genocidio, morte
ENNE - N.O. e bea forlini
le parole di N.O. non hanno bisogno di argomentazioni legaliste. hanno una sorta di forza intrinseca, forse quella del vissuto di chi le pronuncia; sprigionano una logica semplice e potente, quella sottesa ad ogni lotta contro ogni oppressione. la giustizia oltre ogni legge. «io credo nei miei, di diritti, non nel diritto internazionale. e conosco i miei nemici: il sionismo, il colonialismo, il capitalismo». categorico, pronuncia quelli che quasi ci sembrano gli unici dogmi accettabili sulla faccia della terra. e ci fa ripensare tutto. «cosa vuol dire essere radicale? lottare per un diritto? opporsi a uno Stato violento con una resistenza armata?». ma N., come fai a stare in equilibrio tra una rabbia che tutto vorrebbe distruggere e la costruzione, invece, di un’alternativa? «vedi, sono stato arrestato la prima volta a 14 anni, la pazienza e la resilienza le ho imparate col tempo». e N. scusa, cosa possiamo fare noi? «vi dico una cosa che non potete fare, ed è rimpiazzarci nella nostra lotta qui. però vedi, per me quando si lotta si è tutt* sullo stesso piano. ovunque e per qualsiasi causa giusta».
Laylac, The Palestinian youth action center for community development, nasce nel 2010 nel campo profughi di Dheisheh, Betlemme. nasce dal basso e ai piani alti non si interessa poi tanto, convinta della necessità di mantenere la propria indipendenza. prima di tutto quella economica: nel 2021 infatti si rifiuta di firmare il controverso Framework Agreement, imposto dagli USA all’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dell* rifugiat* palestinesi nel Vicino Oriente): farlo le avrebbe permesso di ricevere fondi americani, ma al prezzo di assimilare altre forme di resistenza – in particolare quella armata – al terrorismo. sul terrazzino di Laylac convergono professionist* e militanti, palestinesi e internazionali: con gli strumenti dell’advocacy, del social work e dell’educazione popolare si impegnano tutt* per la stessa causa, convint* che lo sviluppo della comunità sia da portare avanti prima di tutto insieme alla comunità stessa.

LUBNAH - lubnah shomali e bea forlini
«non possiamo contare sulla comunità internazionale, aspettare faccia qualcosa per noi. sono 75 anni che aspettiamo». si riferisce alla nakba, Lubnah Shomali(1), a quando nel 1948 lo “Stato di Israele” si è autofondato ammazzando e deportando milioni di palestinesi autocton*. Shomali è advocacy manager per il centro ricerche BADIL, a Betlemme. la sua missione è quella di promuovere e difendere i diritti dell* palestinesi, soprattutto dell* rifugiat* o delle cosiddette internally displaced people (sfollate o deportate all’interno della Palestina stessa): queste due categorie inglobano quasi nove milioni di persone, sette palestinesi su dieci. è per assicurare loro prima di tutto il ‘diritto al ritorno’ che BADIL lotta ogni giorno. impugna da sé l’arma del diritto internazionale, oltre la sfiducia e la frustrazione, e lotta: per sapersi difendere, senza aspettare lo faccia l’ONU. in effetti il centro è nato nel 1998, e ha avuto come motore proprio l’ingiustizia degli accordi di Oslo(2). nonostante tutto, si serve di quegli stessi strumenti forgiati dai complici del suo oppressore: le Nazioni Unite, che continuano a chiudere gli occhi davanti alle violazioni di Israele. non accetta, però, di sottostare completamente alle loro regole. «il 4 luglio 2021 gli Stati Uniti hanno imposto all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente, di firmare un controverso Framework Agreement. per poter ottenere finanziamenti americani, ovviamente. ma il prezzo da pagare è alto: bisogna accettare, di fatto, la narrazione ormai egemone che assimila la resistenza palestinese al terrorismo. BADIL ovviamente non l’ha firmata, ma alcune associazioni sì. questo ha portato a un’ulteriore frammentazione della lotta, come se già non bastasse quella geografica dei muri, dei check-point, delle carte di identità con colori e diritti diversi». mentre ci parla Shomali ha una postura estremamente professionale, e quella rigidità data da una correttezza impeccabile. a partire dalle parole. «è fondamentale dare alle cose il loro nome, per poi poterle combattere. quello sionista è un regime coloniale di apartheid. ed è importante affermarlo: se prima non lo riconosciamo come colonialismo, poi non possiamo decolonizzare».
(1) nel maggio scorso (2023) Shomali ha accettato di partecipare al festival SUMUD, una settimana di sensibilizzazione e contro-narrazione in occasione del 75esimo dalla nakba; la sera del 15 maggio l’Arengo del Broletto e la sede di Badil a Betlemme hanno risuonato per qualche ora delle stesse parole;
(2) con Oslo I e Oslo II si indicano gli accordi stipulati tra governo israeliano e OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) nel 1993 e nel 1995. visti come un importante passo verso la pace (ché prevedevano una prima autonomia statale palestinese con la creazione dell’ANP – Autorità Nazionale Palestinese), furono inizialmente acclamati come un successo. non da tutt*, però: furono sicuramente molte le ‘cassandre’ all’interno del popolo palestinese, come quell* resistenti di Beit Sahour che si ritrovarono a passare giorni nel deserto e nei wadi per sfuggire agli ingenui festeggiamenti degli accordi, alla beffa dei clacson e dei canti nella notte (fonte: documentario The wanted 18). l’esito di Oslo, neanche a dirlo, fu in effetti controproducente - soprattutto a causa della sua conseguente divisione della Cisgiordania in tre diverse zone (A, B e C) con tre diversi gradi di occupazione. di autonomia pochissima, quindi, e molta frammentazione – più un’ANP spesso complice e connivente delle forze occupanti. è (anche) dal fallimento di Oslo che scoppierà, nel 2000, la seconda Intifada.

ATALLAH - atallah mazara’a e bea forlini
«le uniche due cose di cui abbiamo bisogno sono l’acqua e la terra», ci dice Atallah Mazara’a, enumerandocele con le dita. la terra la sta erodendo Israele: siamo in Cisgiordania, e per di più in Area C: la zona è sotto il diretto controllo, amministrativo e militare, israeliano. l’acqua invece la stanno prosciugando gli insediamenti sionisti adiacenti, illegali. «a volte sentiamo il rumore dell’acqua che scorre sotto i nostri piedi, ma raramente possiamo vederla, o berla», aggiunge Mazara’a. è uno dei responsabili della comunità beduina Jahalin che ancora risiede a Jabal al-Baba, la cosiddetta “montagna del Papa”. il nome è didascalico: negli anni ’60 era stata donata a Paolo VI da re Husseyn di Giordania, ed è ancora proprietà del Vaticano. questo sorprendente cavillo burocratico serve da scudo ultimo per la comunità, che Israele non può del tutto sradicare. eppure vorrebbe. «l’identità beduina è da sempre parte di quella palestinese. anzi, è sempre stata fondamentale per il sostentamento alimentare dell* palestinesi ‘sedentari*’. quell* beduin* sono invece seminomadi, originari* del Negev. nei primissimi anni ’50, subito dopo la fondazione dello “Stato di Israele”, sono iniziate le deportazioni di tali comunità. questa, nello specifico, si è ricostituita qui a Jabal al-Baba negli anni ’70. oggi comprende una settantina di famiglie, circa 450 persone». Mazara’a dà una profondità storica a quello che vediamo intorno a noi. materiali di costruzione: la “montagna del Papa” è, appunto, in Area C: così è stato stabilito dopo gli accordi di Oslo del 1993. qui ogni iniziativa edile, che sia per un’abitazione o una scuola, dev’essere autorizzata dal governo di Tel Aviv (e non serve specificare che le suddette autorizzazioni, ovviamente, non arrivano). peggio, quest’area rientra anche nel Piano E1 per i settlements sionisti, concepito per collegare, de facto, Gerusalemme “Est” alle colonie israeliane: “giudaizzare” la città santa; frammentare, ulteriormente, il popolo palestinese. un’altra cosa che in effetti vediamo da qui, dominanti su quest’altura, è l’insediamento illegale di Ma’ale Adumim: lo si è iniziato a costruire nel 1975, e conta ormai decine di migliaia di coloni. nel 1991 ha ottenuto lo status ufficiale di città, e da allora ha il suo sindaco e la sua giunta. lo guardiamo: un’ammucchiata di case bianche e ben fatte – ordinato, imponente. ai piedi della collina su cui è situato spicca una scritta in gigantografia, in pieno stile hollywoodiano: I LOVE M.A. il colonialismo sionista è sfacciato: con il diritto internazionale, con l* beduin* che resistono da qui. qualche anno fa hanno lanciato anche loro un messaggio a Ma’ale Adumim, scritto per terra con i sassi in modo che fosse leggibile dall’alto, da lontano: sanabqa huna, noi resteremo qui. la loro forma di resistenza è questa, il sumud: fermezza, resilienza. anche se, purtroppo, è dalle prime deportazioni degli anni ’50 che l* beduin* hanno perso il loro tradizionale stile di vita, i loro mezzi di sostentamento: oggi posseggono solo un terzo del loro bestiame e non riescono a produrre più nessuna eccedenza da vendere. qui a Jabal al-Baba la comunità è protetta, in ultima istanza, dal Papa: sempre, però, e instancabilmente, è bersagliata. fino al 2019 le forze occupanti israeliane arrivavano con le ruspe, distruggevano le semplici abitazioni presenti (magari finanziate dall’Unione Europea), e ci passavano sopra perché non fosse poi possibile ricostruirle. tre anni fa, invece, la strategia è cambiata: non si effettuano più demolizioni, ma smantellamenti. in più, dell* colon* (in teoria “civili”, quindi) accompagnano l’esercito nelle operazioni: per sottrarre materiale di costruzione, soprattutto. lo useranno per ampliare i settlements. tante altre cose possiamo vedere da qui, dalla “montagna del Papa”. per esempio due moncherini di muro, quello di separazione: «se li collegassero tra loro – e per farlo basterebbe un giorno di lavoro – questa comunità rimarrebbe definitivamente esclusa dalla West Bank». e poi una strada silenziosa, giù nella vallata, parallela a quella principale. è deserta, perché è ancora chiusa, ma l’ipotesi è che in futuro verrà aperta solo per l* palestinesi, in pieno stile segregazionista sionista. sarà funzionale: nascosta, sottrarrà l* autocton* agli occhi dell* colon*; stretta e dissestata, allungherà di 20 volte la via dell* palestinesi per Gerusalemme “Ovest”, quella occupata. tante altre cose, invece, non le vediamo: nessun presidio fisso di nessuna associazione, nessun ambulatorio medico. «arrivano cliniche mobili al massimo tre volte al mese. le donne per partorire devono andare fino a Betlemme o a Ramallah. attraversando i soliti check-point, ovviamente». eppure la forza di questa comunità resistente riesce a vivificare anche uno sfondo così depauperato. «tra noi e loro c’è una differenza sostanziale: noi lottiamo perché convint* di poter (e dover) restare, loro combattono perché timoros* di doversene andare».
