VOL. 2 - PALESTINA LIBERA TUTT*
IL CIELO SOPRA GAZA - bea forlini
TW: violenza razziale e coloniale, morte, genocidio
il polpastrello su quella rotella a premere e slittare mi era diventato un gesto familiare: lo facevo distratta e in automatico, senza tecnica, e tra tutti quei tentativi il tempo d'otturazione alla fine lo sceglieva la probabilità.
in Palestina anche quello scorrere si inceppava. scattavo poco per ascoltare, guardare la gente negli occhi, per qualcosa che mi sembrava assomigliasse al rispetto, oppure se me lo vietavano le comunità beduine o i cartelli israeliani ai check point. ma forse se non avessi avuto quel gesto nelle mani, se non ci avessi riposto quelle attenzioni sfilacciate ma pur sempre supplementari, ora non saprei ricordarmi la luce.
a Betlemme per esempio era satura come uno sciopero da prorogare. i confini d'ombre che stagliava sul muro erano così netti che interrompevano il flusso dei graffiti degli internazionali, che venivano lì a posarli e non rischiavano quasi mai di farsi arrestare. a Nabi Musa invece la luce avrebbe potuto bruciare tutto senza troppi ostacoli (era una distesa di terra sinuosa e calda), ma quel giorno non lo aveva fatto: mentre camminavamo sui tetti del comprensorio della tomba di Mosé lei risaltava l'intonaco acquamarina o bianco delle cupole, esaltava i sorrisi brillanti degli shebab* che dal basso mi chiedevano delle foto in posa. se Israele non lo aveva rivendicato come luogo sacro voleva dire forse che era tutto falso, ma quanto valeva la pena librarsi in quella luce fragile e delicata di miraggio. i raggi che si riflettevano sulle tessere della cupola della Roccia, invece, accecavano – e se anche in realtà preferivo le ceramiche azzurro-blu che c’erano sotto, la potenza di quell'oro l’avrei voluta inopinabile: oltre quelle contingenze spazio-temporali che la martoriavano, eterna come gli sfondi dei mosaici bizantini che si studiano nelle scuole occidentali.
delle sere invece ho ricordi più vaghi, chissà se è perché non avevo quel gesto nelle mani o solo perché c'è bisogno di più luce per farsi un'iconografia. eppure no, la stele della rotonda di Abu Dis era illuminata solo dai fanali delle auto in corsa, discontinui, ma io ce l'ho stampata in testa fissa: la base in cemento striato, le due bandiere laterali, lo stemma della brigata dei martiri di al-Aqsa con quei due fucili incrociati che – pure – non avevano saputo farci sentire in pericolo mai. ecco, forse delle scene in notturna ricordo di più le sensazioni - nel vedere Abid sbucare con un vassoio di shay** che nessuno gli aveva chiesto, per esempio / o Sameh fare inversione a U per non avvicinarsi troppo alla base israeliana. anche della volta in cui gli era scaduto il permesso ricordo quasi solo le sensazioni - e poi che dai finestrini di quei taxi abusivi la luna ci aveva messo un po' a sbucare, aveva aspettato arrivassimo in Cisgiordania per farsi guardare e farci sentire al sicuro
("now we are free", credo qualcuno avesse detto ad alta voce vedendola –
oppure era stato solo un respiro di sollievo collettivo,
e voi che potete immaginare la scena dalla vostra prospettiva a volo d'uccello potreste dirmi "caspita un tantino paradossale dirsi liberi in un territorio occupato",
ma vi giuro che da dentro la scena era suonata così, e forse proprio con la voce di Sameh - che poi era davvero l'unico ad esserci dentro fino in fondo).
come si vedeva bene invece (la luna) dal tetto piatto della casa della zia di Sameh: era a meno di dieci metri dal muro ma da quell'altezza riuscivamo a lanciargli lo sguardo al di là. in effetti anche in quel momento avevo giocato coi tempi di esposizione, sull'iphone di Davide come avevamo fatto l'estate prima in montagna da me, fuori dalla tenda sulla cresta ancora erbosa della Becca: far immagazzinare più luce possibile all'obiettivo per poter rivedere, un giorno, quell'infinita stellata.
a Gaza adesso fanno lo stesso, mentre muoiono riprendono tutto,
perché sanno che le stelle si stanno estinguendo,
che le telecamere degli altri non sanno guardarli.
