VOL. 2 - PALESTINA LIBERA TUTT*
CHI (NON) HA PAURA - bea forlini
TW: violenza razziale e coloniale, violenza di genere, genocidio, morte
lo stillicidio delle morti palestinesi non è iniziato il 7 ottobre 2023, nè mai è stato confinato solo a Gaza. nel Capodanno di quello stesso anno si chiudevano i conti di quello passato e lo si erigeva (il 2022) all’anno più sanguinoso dopo la seconda Intifada, conclusasi nel 2005: 167 palestinesi uccis* dall’esercito occupante. bene, prima dell’equinozio di primavera del ’23 l* martiri erano già 74 – e adesso in sei mesi di genocidio sono quasi 33mila, e quasi esclusivamente nella Striscia di Gaza.
la figura dell* martire è cardinale nella cultura palestinese, parte integrante e forse addirittura basale dell’architettura di ogni città occupata. l* martire è un volto che si palesa su un muro, lineamenti comuni che per un attimo si fanno eroici, poi si slavano. l* martire è un volto comune che si fa troppo comune, sia per i fucili che continuano a sparare sia per i santini che si continuano a spargere per le strade. nello spazio pubblico della città il volto dell* martire è iper-visibilizzato, soprattutto per lo sguardo straniero (che infatti lo vede e poi passa oltre e fraintende). ‘martire’ in arabo si dice شهيد / shahīd e vuol dire prima di tutto ‘testimone’, come anche lo voleva dire in greco antico μάρτυς / martys, da cui viene appunto il nostro termine italiano. ogni singol* martire diventa, con la sua morte, testimone di un’ingiustizia collettiva – e collettivo diventa allora anche il concetto di martirio, che nella società palestinese è più inclusivo di quanto invece non lo risulti nei giornali occidentali. uno: il martirio è trasversale alle diverse comunità religiose che compongono la società palestinese: l* martire può essere musulman*, cristian*, e perché no ebre*. semantica autoctona e analisi socio- antropologiche, quindi, contro l’imperante disinformazione eurocentrica e islamofoba: no, l* martire non muore per forza in un attentato suicida e no, nemmeno nei ranghi della resistenza armata. in effetti – due – la figura dell* martire in Palestina sfuma i confini tra civili e combattenti, ché riunisce sia l* bambin* uccis* dalle bombe mentre dormono sia l* manifestanti colpit* dai proiettili mentre tirano pietre ai carri armati israeliani; o ancora: chi all* soldat* cerca di sparare, chi risponde male al check-point, chi, semplicemente, si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato(1). la figura dell* martire in Palestina origina un vero e proprio culto, con la sua estetica la sua iconografia e i suoi rituali: immagini sacre e funerali(2). l* martire sublima il lutto di un popolo la cui la sofferenza è politica. e se ogni Stato ha bisogno delle sue narrazioni, dei suoi culti laici o trans-religiosi, forse uno Stato negato ancora di più.
e allora
qualcun* sovrapponga, vi prego, le pupille e le iridi di tutt* l* martiri - e dimostri che la Palestina non è un ologramma. quel qualcun* sarà una donna, è sicuro. una donna palestinese come quelle che durante l’Intifada quando veniva arrestat* un* bambin* (un* bambin* qualsiasi) andava dal soldato di turno a dire: « è figli* mi* »(3). qualcun* sovrapponga i lineamenti di tutt* l* martiri come una madre all’obitorio, vi prego
ma prima
nessun* dimentichi le donne martiri, le donne resistenti armate, le donne imprigionate nelle carceri israeliane. nessun* riduca le palestinesi a mogli figlie o sorelle di martiri.
però poi qualcun* sovrapponga le pupille di tutt* l* martiri, vi prego, e dimostri. perché se martire vuol dire prima di tutto ‘testimone’, allora chi sarà testimone dell* testimoni? noi con le nostre telecamere e le nostre testate non lo sappiamo fare. noi non possiamo testimoniare, possiamo solo raccogliere decibel di grida lontane - e ci proviamo, sì, a volte ci proviamo, ma sono talmente smorzati che non riescono a farci interferenza mentre brindiamo con l* amich*, e forse nemmeno mentre urliamo slogan in loro onore. mute. unmute. qualcun* faccia da testimone all* testimoni, vi prego, che noi non lo sappiamo fare. mute. l’ennesim* collega magistrat* rinnega Falcone, e nel quartiere dell’esplosione nessun* ha visto nulla. mute. Chiara denuncia il datore di lavoro e nessun* in ufficio le dice più nemmeno buongiorno. mute. unmute. vince il processo e Maddalena piange, poi si asciuga le lacrime e decide di denunciare anche lei (accompagnala). unmute. è maggio e a Palermo è lutto nazionale, le facce impomatate ai primi banchi sono tanto ipocrite, sì, ma la gente ha appeso ai balconi dei lenzuoli bianchi. unmute. (tira fuori il corredo di tua madre, sì, quella tovaglia in lino ricamata, mai usata). unmute. (fino ad oggi).
tu sei tutt*
nessun*
l’ennesim*,
tu sei il sistema.
ma a volte no.
sovrapponi ti prego le pupille e le iridi di tutt* l* martiri
e ricorda, ti prego, che la Palestina non è un ologramma.
(1) ‘martire’ in Palestina è prima di tutto un termine comune – poi umanitario quando viene usato dalla Mezzaluna Rossa, o politico quando i vari movimenti (compreso Fatah, il partito laico e moderato che controlla l’Autorità Palestinese) corrispondono pensioni alle famiglie dell* cadut*. dal 2018 Israele trattiene una parte delle tasse che raccoglie per conto dell’Autorità Palestinese come sanzione per questa pratica;
(2) «attraverso i funerali e altre attività sociali e immagini commemorative, la formazione della memoria satura lo spazio condiviso, la narrazione storica e il discorso politico. il rituale della commemorazione dei martiri viene eseguito con una performance, espresso nella cultura materiale, nella pratica e nella geografia. istituzioni e organizzazioni, dagli ospedali alle squadre di calcio, vengono chiamate col nome di singoli martiri. a questi continui riferimenti visivi e alle etichette che fissano il ricordo del martire in una forma fisica, per esempio nel nome degli edifici, sono emerse forme più fluide come il racconto di storie, poesie e canzoni». (antropologa Lori A. Allen, SOAS Londra);
(3) da un intervento di Laila Hassan del 16 maggio 2024 all’acampada studentesca dell’Università di Milano
