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Albedo Newsletter - N°19

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e storie sull’Antropocene e sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque. Come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction, e lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza c’è un piccolo promemoria sugli ultimi articoli pubblicati da Duegradi;

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Guerra all’ambiente

Ciao, come stai? Per questo mese vorrei ripartire da dove eravamo rimasti due numeri fa. Ripartiamo da Calvino. Una delle versioni che amo di più di questo scrittore è quella forse meno conosciuta di Calvino-viaggiatore, contenuta negli scritti di Collezioni di sabbia. Chi l’ha letto può essersi trovato in difficoltà. È un Calvino molto diverso da quello geometrico, combinatorio, delle opere di narrativa. L’esperienza di viaggio in paesi così lontani (Messico, Giappone, Iran) ottiene su di lui l’effetto tipico di ogni vero viaggio: uno straniamento capace di far vacillare le coordinate che rendono familiare il mondo.

E così succede che in Messico, a Oaxaca, davanti a un cipresso millenario pieno di ramificazioni, germinazioni, deviazioni, tronchi mozzati, biforcazioni improvvise, insolite protuberanze, gomiti e ginocchi gibbosi, insomma di fronte a un albero così stratificato e multiforme, Italo ha l’impressione che l’affannosa ricerca di uno stile nei suoi libri, di una forma ben precisa alla scrittura, insomma il lavoro di tutta una vita, non sia servito a nulla: l’albero millenario gli dimostra che “il segreto del durare è la ridondanza”. Non l’ho mai visto così in crisi come in queste pagine. Calvino allora si chiede “è attraverso lo spreco di forme che l’albero riesce a darsi una forma e mantenerla?” 

Oltre a questo testo, ce n’è un altro molto interessante che Calvino scrive in Giappone di fronte a delle armature esposte al Museo Nazionale di Tokyo. La prima impressione che ha di fronte agli elmi, le corazze, gli scudi, gli spadoni del Giappone antico, non è di materiali atti a colpire o a difendersi dagli avversari; più che altro le pinne, gli spunzoni, gli elmi sormontati da lunghe corna, le maschere di guerra, e tutto l’armamentario bellico, serviva a imporre un’immagine terrorizzante di sé. E quindi più che a offendere, questi arnesi servono a spaventare il nemico. 

Queste impressioni mi hanno fatto ricordare le lotte per il territorio del mio gatto domestico quando passavo l’estate alla casa di campagna. Non pensare che sia uscito pazzo, adesso spiego il salto logico. Quando incrociava i gatti “rivali”, il mio gatto cercava di spaventarli strillando come un ossesso e rizzando il pelo del dorso e gonfiando quelli della coda. Si trasformava in una maschera spaventosa di sé stesso, che non avevo mai visto. Le lotte per il territorio tra i felini erano spesso violente, i due gatti si inseguivano e si azzuffavano fino a che uno dei due non desisteva. Spesso entrambi ne venivano fuori con graffi sparsi per il muso e per il corpo. Il mio stava giorni a leccarsi le ferite. Ma l’obiettivo di quelle lotte feline non era mai l’annientamento del rivale, ci si accontentava di scacciarlo dal proprio giardino. L’assassinio non era contemplato come regola d’ingaggio.

Ecco, ora non voglio restituire una rappresentazione pacifica, né del Giappone antico né delle lotte per il territorio tra felini. Eppure sta di fatto che oggigiorno, con la strumentazione in dotazione degli esseri umani per farsi la guerra, qualcosa è cambiato. Con il miglioramento tecnologico è aumentato a dismisura anche l’impatto distruttivo delle “lotte per il territorio” umane, se così vogliamo chiamarle. 

Le immani conseguenze dei due conflitti mondiali del secolo scorso ci hanno messo di fronte al livello di brutalità (e disumanità) a cui può arrivare un guerra meccanizzata. Hiroshima e Nagasaki ci hanno fatto intravedere la distruzione assoluta e indiscriminata di un conflitto atomico. Grazie a questa cronologia di disastri si è arrivati a un consenso internazionale sul rigetto dell’utilizzo delle armi atomiche. Tuttavia meno condivise, e anche meno conosciute, sono le conseguenze dei conflitti umani sull’intero ecosistema in cui essi si verificano. 

L’ho pensato per la prima volta parlando con Davide De Lillis, coautore di Rhizophora (Opens in a new window), un “video-poem” in cui una serie di ragazzi vietnamiti, vittime delle conseguenze dell’agente arancio, sono ripresi mentre danzano. Il ritmo dei fotogrammi è onirico, i movimenti dei giovani leggeri e delicati. Oltre un’opera artistica, Rhizophora è anche un tentativo di sensibilizzare sulle conseguenze dell’uso bellico dell’agente arancio, un erbicida che ha causato l’insorgenza di numerose malattie tra soldati, abitanti e (come si vede) generazioni successive alla guerra. Gli Stati Uniti lo pensarono come strategia per far marcire la vegetazione dove si nascondevano i vietcong. Purtroppo però ancora oggi sono visibili, a distanza di quasi cinquant’anni dal conflitto, gli impatti sugli esseri umani e sugli ecosistemi terrestri dello sversamento di oltre 75 milioni di litri di agente arancio. 

(Opens in a new window)

Rhizophora - Trailer

È proprio a partire dalla diffusione delle immagini (Opens in a new window) della guerra in Vietnam che qualcosa cambia. L’opinione pubblica dei paesi occidentali inizia a pensare che le guerre generano anche disastri ambientali. Come spesso accade, le immagini sono state dunque il primo volano per farci porre delle domande. Insieme alla guerra in Vietnam, un’altra iconografia importante è quella legata all’apocalittico impatto ambientale della prima guerra del golfo. Alcune foto del fotoreporter Steve McCurry, con i pozzi di petrolio incendiati in Kuwait da Saddam Hussein, sono ormai entrate a far parte dell’immaginario collettivo. Si è calcolato (Opens in a new window) che lo sversamento di oltre 60 milioni di barili di petrolio abbia contaminato più di 50 km² di territorio, aumentando di tre volte i casi di tumori e aumentando l’incidenza di malattie neurologiche, asma e allergie.  

Camels and oil fire. Kuwait, 1991. Steve McCurry


Ma si stava solamente grattando la scorza di qualcosa di molto più vasto e sconosciuto. Ciò su cui queste fotografie cominciavano a far riflettere erano solamente conseguenze evidenti, lampanti, degli effetti delle guerre sull’ambiente. Sotto quella scorza c’era ben altro. 

Per prima cosa bisogna considerare il livello di emissioni di gas climalteranti, tanto del settore bellico in sé, quanto dei conflitti veri e propri. Nel primo caso alcuni studi suggeriscono che l’impatto del settore, a livello di emissioni, si aggira intorno a un cifra che va dall’1% al 5% (Opens in a new window) delle emissioni globali. Va poi tenuto conto che fin dall’approvazione del Protocollo di Kyoto nel ‘97, le emissioni militari sono state sistematicamente escluse da qualsiasi accordo che riguardi il clima (perfino nell’accordo di Parigi non viene fatta nessuna menzione). Ma anche l’impatto in termini di CO² dei conflitti non è da sottovalutare. Ad esempio quello menzionato della prima guerra del golfo fu responsabile del 2% delle emissioni di carbonio mondiali (Opens in a new window)

Superate le emissioni, c’è poi tutta la serie di effetti disastrosi sulla biodiversità. Riserve naturali, aree protette, foreste vergini: tra il 1950 e il 2000, oltre il 90% (Opens in a new window) dei conflitti armati ha avuto luogo in paesi che contengono luoghi fondamentali per la biodiversità del pianeta. L’80% di questi conflitti è avvenuto proprio all’interno di questi hotspot della vita. 

A causa di mine o bombe, numerosi animali o altri esseri viventi sono rimasti uccisi durante i combattimenti. Secondo una recente analisi (Opens in a new window), la decennale guerra civile che ha devastato l’Angola ha portato alla drastica diminuzione dei grandi mammiferi erbivori. Il conflitto è stato catastrofico soprattutto per le specie tipiche della savana: su 26 specie considerate, 20 hanno avuto una riduzione superiore all’80%.

Ma questo è solo un danno, per così dire, immediato. Non sempre è così facile individuare quelli più a lungo termine. Ad esempio un recente studio effettuato dall’Università dell’East Anglia ha verificato che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha generato delle deviazioni (Opens in a new window) nella rotta migratoria dell’aquila anatraia. Il pericolo di sorvolare zone di guerra ha allungato il percorso di migrazione di questa specie di aquila, diminuendone di conseguenza le soste e rendendo così i viaggi più pericolosi del passato (minacciando una specie che è già in pericolo di estinzione). 

Altro fattore importante è la perdita totale o la degradazione degli habitat. Foreste distrutte, aree naturali convertite in accampamenti militari o campi per ospitare rifugiati, le casistiche sono numerose. Pensando all’invasione degli statunitense in Iraq, secondo le stime dell’US General Accounting Office, in soli tre anni le forze americano avrebbero scaricato su suolo iracheno circa sei miliardi di proiettili (ovvero 250 mila per ogni singolo miliziano nemico…); uno sforzo bellico che ha contribuito a contaminare il territorio di sostanze come piombo, mercurio, uranio impoverito e vari metalli pesanti, in quantità e proporzioni geologiche (e cosa sta succedendo a Gaza con 79 mila (Opens in a new window) tonnellate di bombe israeliane?). 

Esiste poi tutta una sfilza di danni collaterali che possono realizzarsi anche molti anni dopo la fine delle ostilità. Si pensi che la diffusione delle armi semiautomatiche durante la guerra civile in Mozambico ha provocato (Opens in a new window), negli anni successivi al conflitto, il collasso della popolazione dei grandi erbivori della savana. Ma la complessità della questione è data anche dal fatto che, viceversa, in alcuni casi le guerre possono apportare anche conseguenze “positive”. La guerra civile in Zimbabwe, e la conseguente diminuzione dell’attività di caccia, hanno portato all’aumento (Opens in a new window) della popolazione di elefanti.

Queste difficoltà rendono molto complesso il tentativo di quantificare i danni ecologici delle guerre umane. Spesso gli impatti sono multiscala, non limitati alla zona del conflitto, e nemmeno al periodo in cui durano le ostilità. Anzi, spesso, le conseguenze vengono intuite successivamente, ad anni e anni di distanza (e quindi troppo tardi per intervenire). Di sicuro l’instabilità economica e politica non aiuta.

Una domanda allora sorge spontanea: è stato fatto qualcosa? Nì. Dagli anni 2000 ad oggi le Nazioni Unite hanno cercato in vari modi di sensibilizzare (Opens in a new window) l’opinione pubblica mondiale. È stata anche istituita una giornata internazionale dedicata allo sfruttamento dell’ambiente in tempo di guerra, il 6 novembre. Ma come dimostrano gli ultimi conflitti (Ucraina, Gaza) tutte queste enunciazioni di principio spesso rimangono lettera morta (come succede a larga parte del diritto internazionale). 

Cosa fare allora? Per prima cosa riconoscere e acquisire, culturalmente prima che giuridicamente, che le guerre, oltre a distruggere vite umane e interi paesi, generano enormi impatti ambientali ed ecologici. E non è antispecismo: è chiaro che ciò che più ci commuove è la notizia della perdita di vite umane, ma per decentrare lo sguardo che abbiamo sul mondo dobbiamo analizzare il fenomeno nella sua complessità. Soprattutto considerando che le guerre contemporanee non si fanno più con elmi appuntiti e spade affilate, come nel Giappone antico. Insomma nel 2024 fare la guerra non fa solo male ai popoli o alle comunità umane che la subiscono: fare la guerra fa male all’intero ecosistema-pianeta.



Per luglio è tutto. Come si è anticipato il mese scorso, ad agosto siamo in ferie. Ci rivedremo a settembre. Anche giugno è stato il mese più caldo mai registrato, siamo a 13 mesi di fila più caldi mai registrati nella storia dell’uomo. Non per altro, lo dico per esortarvi a stare al fresco e bere molta acqua. Noi ci rivediamo a settembre. La mail sebastiano.santoro@duegradi.eu (Opens in a new window), per quanto mi è possibile, non va in vacanza. Continuate a scrivere. A dirmi cosa ne pensate di Albedo. Magari consigliandomi i libri che leggerai durante questa calda e lunga estate. Ci sentiamo a settembre. Un “caloroso” saluto…

Consigli di lettura

Gli ultimi articoli di Duegradi

  • Un nuovo interessante e curioso articolo (Opens in a new window) di Virginia Mattioda, questa volta parla di come l’azione dei grandi erbivori può influenzare il clima.

  • Da qualche mese Giordano Zambelli, uno dei nostri scrittori, è diventato padre. In questo articolo (Opens in a new window) molto bello e autobiografico ci racconta cosa si prova a essere padre nel mezzo di una crisi climatica.

  • Tra difficoltà e prospettive future, Silvia Pugliese scrive sullo stato dell’arte della cattura del metano. (Opens in a new window)

  • Marta Abbà, giornalista scientifica e fisica dell’ambiente, ha cominciato a collaborare con Duegradi. Il suo primo articolo è su un “gemello digitale (Opens in a new window)” della Terra che potrebbe aiutarci ad affrontare la crisi climatica.

Lavoro e formazione

Riflessi: qualche numero dal pianeta Terra

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