The Shrouds - Libidine della tomba
C'è una vecchia vignetta di Leo Ortolani che ci ricorda che la fototessera di un qualunque documento potrebbe essere utilizzata per la nostra lapide e mai il contrario, conviene avere un aspetto decente allora, sarà quella la faccia che si troveranno di fronte i vivi, quelli che magari cambieranno i fiori al tuo vicino, al cimitero.
Eppure non è all'esistenza squisitamente corporea che pensiamo quando passeggiamo fra i sentieri dei cimiteri - luoghi sospesi e abitati da una profonda pace - ma a qualcosa di più imprendibile e sottile: una sorta di non esistenza che permane e che da secoli, più o meno simbolicamente, più o meno religiosamente, racchiudiamo in uno spazio ben delimitato.
Due anni fa ho trascorso il mio compleanno al Père-Lachaise di Parigi, a dire il vero quando in quella città ci vivevo ho passato molto tempo nei suoi cimiteri, ossessionata dalle tombe dei poeti e poi anche da quelle più antiche ed erose dal tempo di cui nulla era più possibile sapere, se non fantasticando sulle età, sulle date che coincidevano con alcuni eventi di portata storica: in entrambi i casi era un modo per placare l'ansia, per sospendere certi pensieri intrusivi. Funzionava sempre e funziona ancora oggi. Anche se, a dirla tutta, ha funzionato un po' meno quando a luglio dell'anno scorso nella piccola cappella della mia famiglia è successa una cosa strana, ma evocativa: la abitava un vivo, ovvero un topo che andava e veniva da una fessura quasi invisibile a lato della porta d'ingresso, gli escrementi che lasciava erano inconfondibili. Una fessura sgretolata che ha aperto il varco anche a una biscia che però lì in quella cappella ci è morta, è stato mio padre a trovarla casualmente una mattina. Rigida e secca. Quando me l'ha raccontato io ho cominciato a ripensare ai defunti nei loculi, ai corpi dei cari murati. Ho cominciato a chiedermi che aspetto avessero adesso, quale odore, in che stato fossero gli abiti agghindati a festa, gli oggetti lasciati dentro. Ho pensato al processo di decomposizione del corpo, un processo in qualche modo attivo, che ha le sue fasi, i suoi passaggi, ma che non rende parzialmente più viva la persona in questione. Poi ho lasciato perdere.
Qualche giorno fa sono andata a vedere The Shrouds, l'ultimo film di Cronenberg, uscito qui da noi forse un po' in sordina, ma poco importa, perché per il rapporto contorto e ossessivo che questo regista ha con la materia corpo, le mie aspettative quando si tratta di un suo film sono sempre piuttosto alte. Torna verticale il tema del cimitero, nel film un rivoluzionario (e costosissimo) campotech di lapidi digitali permette di osservare in presa diretta tutte quelle fasi di cui sopra.
Al posto dei ritratti incorniciati ci sono degli schermi e sottoterra ogni corpo è avvolto da uno speciale sudario, una controversa sindone che non ha nessuna utilità per il morto, ma che dà la possibilità, a chi è vivo, di diventare il privilegiato spettatore di un progressivo disfacimento tessutale che non rende più sostenibile il peso del lutto, anzi, è l'ennesima ossessione che non ti restituisce niente della persona che amavi e che finisce per degenerare nella libidine del voyeurismo, un'attitudine che cede alla morbosità del dettaglio che ci vuole lì a vedere cosa succede, come si contorce, quali espressioni assume, quale forma, quanto profonde le occhiaie, quanto gonfi i piedi, il ventre, il volto. Una maschera profana della morte.
Il protagonista, Karsh, interpretato da Vincent Cassel, solo qualche anno prima ha visto la moglie ammalarsi, poi curarsi, poi perdere pezzi di quel corpo a cui non è concesso nemmeno il desiderio, e poi ancora la faccia di una stessa medaglia: vederla morire e poi vederla morta. Sono due momenti distinti ma cruciali quando lasci andare qualcuno, per Karsh, il secondo di questi, è una fase che si può dilatare, è una condizione che denaro e progresso tecnologico possono concedere.
È così che lui rinuncia, paradossalmente, all'immagine bellissima di lei ancora in vita, coi mesi contati certo, ma ancora salda sulle proprie gambe, rinuncia a quella visione per abbracciarne un'altra non meno effimera del concetto di anima, ovvero la scheletrizzazione di un corpo che può ancora rivelare qualcosa, forse un complotto oncologico, forse la semplice naturale finitudine con la quale ognuno di noi deve fare i conti.
In filigrana c'è sempre Cronenberg e quel body is reality già racchiuso in Crimes of the future, un corpo che muore, che è tutto ciò che abbiamo e tutto ciò che ci resta.
Alle teorie del complotto si alternano altri temi cari al regista, come le anomalie della mente e della morale, la tecnologia, le distopie. The Shrouds in fondo tenta di raccontare un mondo che non è così lontano dal possibile, un mondo in cui l'unico vero modo per profanare una sepoltura è hackerarla, una realtà all'interno della quale è tutto sommato normale interagire con l'avatar cartoonesco di un defunto, con tutte le ripercussioni psicologiche del caso perché il protagonista, nonostante i suoi investimenti apparentemente all'avanguardia, non ha risolto nessuno dei problemi che gli invadono i sogni, gli incubi e le relazioni.
L'ennesima app che monitora un corpo in una bara è un'estensione estrema di una curiosità morbosa e audace che ci spinge già a osservare le vite (o le performance?) degli altri. Lo facciamo ogni giorno. Ma per Karsh, quella quotidiana, mirata e compulsiva ossessione dell’osservazione digitale della condizione post mortem di un’altra persona scava un solco profondo, che si trasforma in una voragine economico-politica, in una guerra di dati sensibili, digitali e ideologici.
Sono uscita dal cinema con non pochi dubbi rispetto alla trama in sé del film, distratta dal sovraccarico di informazioni tutte un po' volutamente indistricabili e indistinguibili fra loro, turbata però da quella versione hi-tech del camposanto che ne scardina la fruizione classica ma molto più vicina a noi rispetto ai plasticofagi del film precedente, anche se di plastica ormai ne ingeriamo indirettamente ogni giorno.
Sono uscita dal cinema con non pochi dubbi e una domanda per la persona che mi ha accompagnata: Tu lo faresti con il mio corpo?.
Giulia Bocchio

Salvatore Fiume © Ricordo di charleston Courtesy Pananti (Opens in a new window).
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