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Albedo Newsletter - N°16

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e storie sull’Antropocene e sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque. Come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction, e lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza c’è un piccolo promemoria sugli ultimi articoli pubblicati da Duegradi;

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Docufilm ai tempi del cambiamento climatico

Hai già visto Food for Profit? Se sì, bene, perché ora ne parliamo (e mi piacerebbe conoscere anche il tuo parere, scrivimi a sebastiano.santoro@duegradi.eu (Abre numa nova janela)). Se la risposta invece è no, mi riferisco al recente docufilm realizzato dalla giornalista Giulia Innocenzi e dal filmmaker Paolo D’Ambrosi, che racconta come parte dei soldi pubblici dell’Unione Europea vengono destinati a finanziare allevamenti intensivi che violano norme di trattamento degli animali, e diritti di chi ci lavora. 

Tutto il filmato ruota attorno alle immagini registrate da infiltrati, attraverso telecamere nascoste, che sono riusciti a entrare in allevamenti intensivi e all’interno di uffici di importanti politici europei in materia di politica agricola comune (PAC).

Lo scorso 22 febbraio il docufilm è stato proiettato al Parlamento europeo e da allora sta avendo un successo inaspettato. Nonostante nessuna piattaforma importante abbia voluto distribuirlo (gli stessi creatori hanno dovuto investire risorse di tasca propria), al momento in cui scrivo questa newsletter, cioè il 10 aprile, Food for profit ha incassato più di 300mila euro (Abre numa nova janela), e sono circa 40 le sale in Italia che hanno scelto autonomamente di proiettarlo. In tempo di crisi delle sale cinematografiche, non è una cosa da poco.

Il merito del docufilm è quello di evidenziare i legami che esistono tra maltrattamento degli animali e dei lavoratori, e inoltre i conflitti di interesse di cui sono portatori alcuni politici europei che hanno il potere di decidere su questi temi. La produzione della carne è una grande terreno di scontro all’interno dei dibattiti sul cambiamento climatico. È un tema di cui si parla poco, estremamente identitario e divisivo, sebbene sia evidente che l’industria in questione, così come funziona oggi, è insostenibile per il nostro pianeta (ne abbiamo parlato qualche anno fa su Duegradi (Abre numa nova janela)). 

Quando sono andato al cinema, gran parte del pubblico alla fine della proiezione si è lasciato andare a un applauso lungo interi minuti. Si è poi animato un dibattito, e la gente che prendeva la parola aveva la voce rotta dalla rabbia e dall’emozione. Molti di essi, uscendo dalla sala, hanno deciso di firmare la petizione proposta dai realizzatori del docufilm per fermare i sussidi europei agli allevamenti intensivi. Il merito del documentario è senza dubbio quello di spingere chi lo vede all’azione. Ma le cose positive finiscono qui. 

Mentre l’ora e mezzo di girato si srotolava davanti ai miei occhi pensavo a una sola cosa. Il populismo antieuropeo; il tono complessivo del documentario; la musica di sottofondo; le parole evidenziate in primo piano; i messaggi sparati sullo schermo a caratteri cubitali; ma ancora di più l’andamento convulso delle scene, il clima da thriller cinematografico, le vesti da “eroina” incarnate dalla giornalista. Insomma quello a cui stavo assistendo era una sorta di servizio delle Iene allungato (Innocenzi viene da lì), non molto dissimile a un normale contenuto acchiappa click che possiamo trovare su un social. 

Su Rivista studio Ferdinando Cotugno ha parlato (Abre numa nova janela) del documentario, esprimendo mille volte meglio cose che stavo pensando e che avrei voluto esprimere io. Quindi ho deciso di riportare parte del suo ragionamento. 

Il documentario di Giulia Innocenzi può essere visto come una serie di giusti motivi per diventare vegani, ma anche come una serie di consigli su come non fare comunicazione politica nel 2024. [...] Food for Profit è un lungo servizio delle Iene spacciato per documentario, in cui i cattivi col volto oscurato vengono inseguiti sotto casa con la telecamera ed esposti alle loro malefatte, dentro una società in cui non esistono corpi intermedi, sfumature, modi adulti di articolare il discorso, niente, c’è solo la giornalista solitaria in missione contro le multinazionali e le istituzioni, che sono tutte corrotte, sempre, comunque. Per questo metodo di giornalismo, tutto il mondo è Gotham City. Buoni contro cattivi. Non esiste contesto, esistono solo giustizieri.” 

Ecco, come dice Cotugno, ciò che manca al docufilm è il contesto, il valore che contraddistingue il lavoro di ogni giornalista: inserire la notizia in un reticolo di senso più ampio. Il giornalismo serve a questo, a fornire strumenti a chi legge per interpretare la realtà; il lavoro di Innocenzi e D’Ambrosi non è giornalismo, perché Food for profit non vuole spiegarti la realtà, ma vuole solo cambiarla. Sempre più sale in tutta Italia ne acquistano i diritti, il docufilm arriva a sempre più persone, e questo è un bene per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle criticità dell’industria della carne. Ma ciò che si sta sacrificando sull’altare della call to action è una vittima importante: la comprensione. E l’era degli iperoggetti, della complessità, questa comprensione ce la impone. 

Titillare la nostra componente emotiva non è abbastanza. E non è detto nemmeno che sia utile. Pensiamo alle truculente immagini di sofferenza animale mostrate in Food for profit. Seguendo lo stesso ragionamento, anni e anni di fotogiornalismo di guerra dovrebbero bastare a mettere fine a qualsiasi conflitto, e invece non è così. Come si legge in Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag, pensare che mostrare immagini che si avvicinano a realtà così dolorose possa spingere gli osservatori a sentirsi maggiormente partecipi non è una cosa sempre scontata. È senz’altro vero che a volte immagini come quelle mostrate nel docufilm sono state il principio di una scelta etica vegetariana, o vegana, o comunque di riforme nel modo di mangiare; tuttavia, in un mondo dove le immagini sono anch’esse messe a servizio di manipolazioni consumistiche, non è qualcosa da dare per scontato. Non è un caso che, sempre nel caso del fotogiornalismo di guerra, molti fotografi si pongono il problema della strumentalizzazione dei sentimenti (indignazione, rabbia, pietà, compassione) che si provano davanti alle loro immagini. 

Insomma per terminare il supplizio che infliggiamo gratuitamente al mondo animale c’è bisogno di comprendere come funziona il modo con cui produciamo la carne, l’impronta di carbonio (Abre numa nova janela) di tutta la filiera produttiva, il consumo di suolo che ne consegue, l’inquinamento e il consumo di acqua potabile, comprenderne dunque le dinamiche nascoste al consumatore, valutare con dati le sue insostenibilità, ma pensare anche alternative praticabili, e fare tutto ciò con argomenti precisi, fattuali, concreti. E comunque non sarebbe finita qua, perché poi ci sarebbe anche da comprendere meglio la diversità e la somiglianza che abbiamo con gli animali, cambiare il rapporto culturale e biologico che abbiamo con loro, e più in là: con l’intero ecosistema in cui abitiamo. E infine c’è bisogno di tempo, tempo per metabolizzare e sedimentare tutto questo. 

Per il prossimo Albedo sto preparando un lavoro su Calvino (il numero scorso l’ho dedicato al “limite della scrittura (Abre numa nova janela)”, il prossimo lo voglio dedicare alle “risorse della scrittura”, e Calvino mi sembrava lo scrittore adatto per farlo). Nel lontano 1960, su una rivista letteraria curata insieme a Elio Vittorini, Calvino scrisse: “Non mi pare che ci siamo ancora resi conto della svolta che si è operata, negli ultimi sette o otto anni, nella letteratura, nell’arte, nelle attività conoscitive più varie e nel nostro atteggiamento verso il mondo. Da una cultura basata sul rapporto e contrasto tra due termini, da una parte la coscienza la volontà il giudizio individuali e dall’altra il mondo oggettivo, stiamo passando o siamo passati a una cultura in cui quel primo termine è sommerso dal mare dell’oggettività, dal flusso ininterrotto di ciò che esiste". 

Sono passati sessant’anni, ma ancora oggi, periodo di Antropocene e iperoggetti, di questo “mare di oggettività” di cui Calvino parlava nel 1960, ne abbiamo un maledetto bisogno. Ma questa è una storia che continua nel prossimo numero…

Albedo di aprile finisce qui. Come dicevo, mi piacerebbe parlare di Calvino per ribaltare qualcosa che ho scritto appena un mese fa. Quindi se hai qualcosa da dirmi su questo autore, sui suoi libri, un aneddoto o una teoria su questo scrittore, scrivi a sebastiano.santoro@duegradi.eu (Abre numa nova janela). Se invece vuoi parlare del rapporto che hai con gli animali, con il cibo, o se hai visto Food for profit e vuoi dirmi che non c’ho capito nulla, la mail è sempre la stessa. Tanto cambio idea molto facilmente. Ci risentiamo a maggio. Ciao!

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