Come sparire completamente (da un social network).
Questa è la storia di come sono finito per settimane a salvare immagini per liberarmi del fardello emotivo di Facebook, affrontando un labirinto di riflessioni interiori forse più condivise di quanto sembri.
Non prendiamola troppo da vicino.
Nell’estate del 2002, nei miei vent’anni tragici come quelli di ogni altro ventenne della mia generazione in cerca del suo posto nel mondo, ho iniziato a collaborare in remoto su IRC con alcune persone conosciute nei canali di scrittura e viaggi. Il web era ancora quello della prima banda larga, non esisteva YouTube, niente social, Napster e il mondo dell’editoria musicale erano in guerra aperta, il blogging era una roba da nerd e i più nerd usavano Splinder, che poi ha chiuso, ma fa ancora troppo male per parlarne. In questi gruppi IRC ci scambiavamo spesso link a siti - siti statici, siti vecchi a tre colonne, fatti in PHP - in particolare francesi e svedesi. Al tempo venivano chiamati con il termine generico di communities e quelli che interessavano a noi erano, nello specifico, comunità di lettori con una vita interna particolare. Il prototipo a matita dei moderni social network. Volevamo crearne uno tutto nostro, ed è ciò che abbiamo fatto. Una quindicina di ventenni sparsi in tutta Italia che, tolti gli impegni universitari, collaboravano e discutevano ogni giorno in remoto, per mettere su una community di lettori e viaggiatori.
Quando abbiamo rilasciato in rete il nostro piccolo esperimento, ogni utente aveva a disposizione il suo feed, i messaggi privati, la bacheca, un diario tematico simile ad un blog integrato, un sistema di notifiche. Soprattutto, c’erano le foto e gli album. Al tempo c’era questa idea, nelle community scandinave che seguivamo, di creare delle arene in cui le foto (quasi esclusivamente artistiche) venivano messe in fila e votate dagli utenti, una dopo l’altra, senza scrupoli. Un modo per tenere vivo l’engagement. Lo avevamo aggiunto anche noi e, per quanto oggi possa sembrare una cosa strana, funzionava. Insomma, non c’era guerra tra bande, né troppo shitposting, ma avevamo un proto social network, che al suo culmine cresceva di svariate centinaia di utenti al mese. Un’esperienza travolgente, che ha accompagnato un bel momento della mia vita e, sostanzialmente, mi ha spinto verso quello che so fare oggi per professione. Finché non è finito. Eravamo giovani, non avevamo soldi per assicurare al sistema una scalabilità, soprattutto, non avevamo mai avuto l’intuizione di renderlo un business, e onestamente, pur volendo, non avremmo saputo farlo da soli. Finì come era iniziata.
Guerra di Poke
Nel giro di un paio di anni arrivò Facebook. Una mia amica svedese mi parlò di questa comunità abbastanza popolare negli Stati Uniti, che iniziava a diffondersi anche in Europa. Precisò che non si poteva fare granché, ma che sembrava interessante. Mi mandò un invito - era il 2007 - e fu l’inizio di una storia lunga e strana. Soprattutto strana. Diciamocela tutta, all’inizio quasi nessuno aveva le idee chiare su cosa farci con quello spazio: non avevi amici che lo conoscessero, scrivevi cose, senza che nessuno le leggesse. Ti arrivavano dei poke, li ricambiavi, le giornate trascorrevano un po’ così.

Improvvisamente siamo passati da uno sparuto gruppo di early adopters ad una più ampia platea. E abbiamo iniziato ad usare applicazioni senza senso in grado di soddisfare le nostre curiosità più recondite e oscure, tipo sapere che animale fossimo nella vita precedente. Se vi domandate chi diavolo continua a chiamarvi ogni giorno per installare un sistema di filtraggio dell’acqua, la risposta probabilmente, è che quel maledetto gufo notturno della tua vita precedente ha spifferato i tuoi dati sensibili per denaro.
Le cose hanno iniziato a muoversi in fretta. Da quel clima di imbarazzo, come quando arrivi ad una festa e non conosci nessuno, siamo passati al momento in cui partono i balli di gruppo. Io, vi confesso, ho uno stile più Morettiano, di solito mi scelgo una rientranza nelle pareti e bevo dal mio bicchiere osservando le persone fare cose divertenti che non saprei fare, aspettando che arrivi il tempo in cui cala l’adrenalina e ci si siede a parlare. Però sui social network tutto funziona diversamente. Avevo una band e partecipavo a un piccolo collettivo indipendente. Tradire Tom di Myspace per promuoverci su Facebook e Twitter ha iniziato a sembrarci sempre di più una cosa plausibile. Smettendo di stuzzicarci il braccio virtualmente tra sconosciuti, abbiamo iniziato a creare una rete di contatti. Ho conosciuto giornalisti, gestori di locali, ho scoperto piccoli editori, trovato contenuti di qualità, idee creative vitali. Ed è stato tutto bello, finché un giorno non abbiamo iniziato a domandarci se non avessimo fatto un catastrofico errore - e Tom, per quel che vale, mi sento in colpa ogni volta che ci penso.

Zuck, sono tuo padre
Quello che conteneva già gran parte delle mie foto e pensieri leggeri, si è trasformato in un contenitore diverso, con una funzione diversa. La musica continuava a rappresentare il centro del mio universo di interessi, ma il tipo di comunicazione tutto intorno, aveva iniziato a giocare altri schemi. Sotto la piena torrenziale di pagine e pagine che si proponevano di aprire nuovi orizzonti sociopolitici, togliendo di mezzo quelli consolidati, abbiamo iniziato a ritenere che la nostra opinione fosse necessaria affinché tutto restasse in piedi. Non che esprimere un’opinione non sia importante, ma avete presente John Locke che se ne sta seduto alla scrivania fissando l’orologio per premere il bottone ogni 108 minuti scongiurando l’implosione dell’isola? Ecco, più o meno ci siamo passati tutti. Se non fosse che invece, proprio come in Lost, premere quel bottone non era affatto così cruciale. Non sui social.

C’era una cosa che ci ripetevamo nel nostro innocente tentativo di costruire una community, davanti al problema che molti strumenti venissero utilizzati, spesso involontariamente, ma molto spesso volontariamente, in maniera inappropriata: non puoi prendertela con l’utente, dipende tutto da come costruisci le cose, dalla tua capacità di progettare interfacce, impostare linee guida e stabilire contrappesi. Dopo il caso Cambridge Analytica sappiamo che qualcuno aveva trovato un trucchetto per sfruttare una vulnerabilità del sistema. Che, ad una scala inimmaginabile fino ad allora, promuovere argomenti innalzando la temperatura dello scontro rientrava in un preciso quadro di utilità. Ed effettivamente, rileggendo alcuni vecchi post mi sono reso conto di aver usato spesso una nettezza, e di conseguenza un pressappochismo, che difficilmente rispecchiavano l’intento positivo con cui mi ero interessato ai social. La cultura, lo scambio, il dibattito erano quanto meno messi in difficoltà da questo fervore distruttivo. Nel clima disastroso del decennio 2010-2020 era diventato impossibile per chiunque non esprimere opinioni forti su qualsiasi cosa passasse in rete, anche la più insignificante - anzi, soprattutto la più insignificante. Più leggevamo commenti violenti e assurdi, più sentivamo di dover agire istintivamente controbattendo con l’ironia e il sarcasmo. Sembrava che la modalità elettiva dello scontro dialettico stesse diventando un tipo di sarcasmo rivolto quasi esclusivamente verso le persone. Forse non esattamente il proposito nobile dell’ironia.

Mi sono venute in mente le parole di David Foster Wallace in E Unibus Pluram, ed è proprio lì che mi sono sentito profondamente stupido. Mi ero tradito da solo. Come avevo fatto a cadere nel tranello? Perché non mi sono mai fermato a domandarmi: “è davvero necessario?”. Mi sentivo profondamente in imbarazzo verso me stesso. Dopo una breve parentesi in cui postavo contenuti per poi quasi immediatamente cancellarli, ho smesso del tutto di pubblicare qualsiasi cosa, incluse le più innocue. Non sono scampate nemmeno le foto dei miei gatti. Sono diventato uno spettatore fantasma delle conversazioni altrui. Ero tornato di nuovo ad essere l’invitato alla festa, che dalla nicchia osserva tutti gli altri far casino.
E questo non ha che peggiorato la questione.
L’inferno dei viventi
Per un certo periodo della mia vita ho tentato di mantenere attivi tre blog. L’intestazione di uno di questi, recitava una frase di Calvino, che alla fine de Le Città invisibili scrive:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.
Dal mio posto di fantasma, nel tempo ho assistito a trasformazioni sempre più veloci. Ho visto amici e familiari, persone intelligenti, con una storia di impegno sociale e culturale che avevano sempre avuto un’idea aperta e ottimista del mondo, fiduciosa verso gli altri, iniziare a cadere lentamente e progressivamente nell’imbuto del populismo, contribuendo a propagare più o meno consapevolmente contenuti complottisti, arrivando sulla sponda del sedicente “libero pensiero” da contrapporre alla “dittatura del pensiero unico”. Il tutto senza porsi mai la questione se il fine di queste narrazioni ambigue non fosse piuttosto lo sdoganamento del linguaggio d’odio, e - una volta messi la profondità di ragionamento e il grado zero sullo stesso piano - se questo non decretasse semplicemente la cessazione di qualsiasi possibilità di riflessione. Mi spiego meglio. Queste narrazioni alternative, trasfigurate nel dogma delle verità alternative oggi dilaganti, beneficiano ampiamente di una certa qualità auto-assolutoria, non hanno bisogno di essere circostanziate da metodologie e processi strutturali della comprensione, ma possono essere ricondotte in funzione utilitaristica alla loro primitiva ambiguità interpretativa. Lo vediamo chiaramente nelle recenti derive della politica a livello globale, dove davanti a fatti o domande dirette, sempre più spesso basta un “questo lo dice lei, io non credo sia così” a chiudere la questione e, appunto, ogni dibattito.

Ce lo possiamo permettere? Di recente i principali player in campo social hanno rivisto le loro politiche in ambito di moderazione e fact checking, in un momento in cui la post verità sta facendo letteralmente a pezzi tutto. Una cosa può essere accertata secondo la legge, la medicina, la fisica, banalmente, i fatti, ma il punto viene pretestuosamente spostato sulla revisione della sua interpretabilità. E qui sarebbe utile capire come questo rientri non tanto nel quadro dell’esercizio di un sano pensiero critico, quanto piuttosto in quello di una violentissima turbativa sistemica del mondo del sapere, mirata a screditare paradossalmente proprio i meccanismi in cui la cultura può circolare e funzionare da contro potere. E’ il bazooka retorico dei troll in rete, e attecchisce facilmente nelle società sempre più frustrate. Il covid, la guerra, i vaccini, la scienza, ogni cosa ha iniziato a detonare fortissimo in vere e proprie faide dialettiche, in cui scrittori, ricercatori, professori universitari, giornalisti, subiscono strumentalmente lo stigma delle élite insensibili. In un momento come questo, alcune piattaforme hanno accettato di aprire la diga, sostituendo il fact checking con lo strumento delle community notes. Questo può essere un problema, nel momento in cui la percezione della comunità digitale viene così pesantemente influenzata dalla disinformazione e dalla presenza crescente di bot. Dando un’occhiata a come questa contromisura funziona in quello che una volta era Twitter, ci rendiamo conto che rischia di essere come raccogliere il mare con una paletta. E a proposito di mare, qualche settimana fa mi è capitato di inciampare in un video generato con l’intelligenza artificiale, in cui una nave ONG spazzolava via crostacei dal dorso di una balena, creato probabilmente per ottenere engagement e reazioni forti, ma che ha anche la pesantissima responsabilità di inquinare il dibattito e riorientare l’opinione pubblica in merito alle tematiche sensibili. La sezione commenti era a surreale. Posso ancora resistere? Posso ancora assistere allo spettacolo di amici a cui voglio bene che si innamorano di qualcosa di drammatico che sta dilaniando le nostre società? Calvino prosegue:
“Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
E’ proprio in questo momento che decido di cancellare tutto. Per andarmene in cerca di altro, e trovargli spazio e tempo. Per autodifesa.
Come cancellarsi da un social network.
E’ il pomeriggio di Natale di circa sette anni fa, sono sul divano a guardare il Grinch, come ogni anno. Mi arriva una notifica, poi altre, a raffica - che diavolo succede? Cerco il telecomando per mettere in pausa il film: una delle mie band preferite ha appena ripostato sul suo Twitter ufficiale una cover registrata dalla mia band. Il giorno in cui ho deciso di cancellare i due account (quello personale, e quello della band) da X, ho pensato soprattutto a quel Natale: come si rinuncia per sempre a qualcosa di estremamente bello che certifica che sì, ti è successo davvero? Più ci rimuginavo, più mi veniva in mente la foto del nuovo proprietario della piattaforma, che porta in grembo un lavandino per comunicarci di farcene una ragione. Se ci pensate, quell’immagine è, però, stupefacente soprattutto per essere la sintesi simbolica di un sottotesto involontario: tolto il lavandino, sarebbe rimasta solo la tazza del water. Quanto basta per cancellare definitivamente la mia presenza su quello che una volta era il luogo in cui David Lynch ci parlava degli uccelli e degli alberi.
Senza rendermene conto, avevo permesso a questa piccola catarsi di sbloccarmi nei confronti di un dilemma ben più grande.
Di recente, un mio amico ha commentato così la mia decisione: “quello della memoria collettiva affidata ai social è un enorme problema”. Niente di più vero. Su Facebook abbiamo ricordi nostri, foto in cui siamo taggati di cui non conserviamo una copia altrove, commenti di persone speciali, messaggi. Non è uno scherzo. Ad essere silenziosamente sepolte sotto una nevicata continua di post, ci sono le nostre vite e le nostre emozioni, per cui non puoi saltare sullo spazzaneve e spianare tutto. Se non sei disposto a rinunciarvi senza rimpianti, devi fare a mano, con calma. Dovendo iniziare a sondare quasi vent’anni di memoria social, la cosa più facile è stata cominciare da quei post di minore interesse: repost di eventi, foto che sei certo di avere salvato su almeno tre hard disk, tutti quei post assurdi che ti mettono in imbarazzo: puoi cancellarli senza mantenerne traccia, è veloce. Fin qui, tutto bene. Poi arrivano le foto a cui tieni, magari quelle che ti hanno scattato gli amici, e che perderesti se non le salvi. Inizi a scaricarle, ma hai bisogno di un metodo: devi rinominarle per giorno, anno, autore dello scatto, magari uno sbrigativo cenno alla situazione. Il terzo girone è quello dei post in cui, rileggendoti, non ti sembri completamente scemo. In quel caso apri le note, copiando e incollando via via in ordine cronologico come in un grande blog offline. Di alcuni commenti sentirai la necessità di conservare degli screenshot da inserire nelle note stesse. Ora tocca ai video in cui sei taggato, e dei quali, come già visto per le foto, non hai copia: posto che non potrai chiedere ad ogni persona l’originale, se vuoi uscirne in tempi ragionevoli accetterai il compromesso della registrazione dello schermo. In fine, ci sono le pagine che eventualmente gestisci. Nel mio caso, quella della mia band, e se cancellassi il mio account sparirebbe. Ricordati di rendere admin qualcuno al tuo posto.
Altrove.
Lo avete capito anche voi, è un processo lunghissimo, che ti costringe fare i conti con parti della tua vita che sono lì, potenzialmente eternate nella bacheca, ma che di fatto esistono solo nel brevissimo arco di tempo prima che altro le ricopra. Mi sono reso conto che quella che consideriamo ormai irreversibilmente e per certi versi irreparabilmente la nostra memoria digitale personale, è molto simile all’accettare la parte di Truman Burbank in un riadattamento ambientato in un documentario sull’accumulazione seriale. Ci sono cose ammassate una sopra l’altra. Cose a cui vuoi bene, ma che ad un certo punto smetti di vedere. Cose che dimentichi, che si seppelliscono a vicenda. Cose tra cui ti fai faticosamente strada. Cose di cui ti ricordi solo quando inizi a smistarle per disfartene. Cancellarsi da un social network non è solo imparare pratiche di decluttering dei ricordi: è un lungo viaggio in un labirinto emotivo, che serve soprattutto a conoscersi meglio e ad esplorare possibilità. Io, ad esempio, prima di pensare di scriverne analizzandola, non avevo mai del tutto realizzato quanto la mia reazione alle dinamiche del mezzo mi avesse condotto al silenzio. Questo naturalmente non vale come regola universale, molto dipende da come stai alle feste, se sei di quelli che ballano o di quelli che aspettano il momento di conversare. Da come gestisci le tua aspettativa di convivialità in un after hour.
Il mio divorzio dai social di vecchia generazione, non è funzionale al togliere completamente di mezzo il concetto di social. E’ stato piuttosto il percorso per trovare il mio habitat nell’internet decentralizzato e a capire che in un momento in cui la tecnologia avanza a velocità mai viste prima, le persone devono poter partecipare al dibattito pubblico, senza che tuttavia la dimensione in cui questo possa avvenire intenda la tecnologia stessa come entità neutrale o peggio, desideri per essa un vuoto regolamentatorio e di autorevolezza. Seguendo alcuni incontri della prima conferenza sull’ATprotocol (Opens in a new window), mi ha colpito la citazione di un’osservazione che la fisica Ursula Franklin rilasciò nel 1989 in occasione delle CBC Massey lectures (Opens in a new window) dal nome “The Real World of Technology (Opens in a new window)“:
“Il corretto funzionamento della tecnologia, come la democrazia, dipende in ultima analisi dalla pratica della giustizia e dall’applicazione dei limiti al potere”.
Quanto mai oggi è necessario riscoprire il senso profondo dell’avere cura del proprio significato sociale, anche imparando a decostruire una staticità ferocemente garantita dall’idea verticale che tutto possa avvenire solamente in determinati contesti, entro determinate regole e meccanismi che hanno un impatto su larghissima scala, per il solo motivo che è lì che sono i numeri, e che - per questo - sia lì che si debba per forza stare. Il racconto di come ho definitivamente cancellato i miei account di Facebook, X e Threads, è soprattutto un invito a non smettere di cercare posti e modi migliori di ricominciare.
E’ stato un viaggio strano, pieno di caos, ma anche di persone spesso meravigliose. Persone che, per fortuna, saranno sempre anche lì fuori, ovunque altrove.
https://archive.org/details/the-end-of-the-world-by-skeeter-davis-stereo-uhd-4-k (Opens in a new window)