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Albedo Newsletter - N°24

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e storie sull’Antropocene e sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque. Come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction, e lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza c’è un piccolo promemoria sugli ultimi articoli pubblicati da Duegradi;

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Una certa idea di casa

Vincent van Gogh - The Yellow House [1888]

Nelle ultime settimane mi sono ritrovato a leggere una raccolta di saggi di uno degli antropologi contemporanei più importanti, Timothy Ingold (Ecologia della cultura, Meltemi Editore 2016). Il pensiero di questo antropologo, che ho conosciuto anni fa durante una lezione tenuta all’Università di Roma Tre, è qualcosa che ha influenzato - direttamente e indirettamente - una serie di cose che si sono scritte qui su Albedo negli ultimi due anni. In questa raccolta, in particolare nel saggio che stavo leggendo (Abitare e costruire: come uomini e animali fanno del mondo la propria casa), si parla di casa, e di come gli esseri viventi abitano, pensano e costruiscono le proprie case. 

Esordendo, la prima cosa che Ingold fa è quello che fa ogni antropologo (ma mi permetterei di allargare il tiro a tutti gli accademici in generale), ovvero situare con precisione il proprio ragionamento all’interno di un contesto teorico preciso, cioè di un “discorso” preesistente che permette di circoscrivere le proprie teorie. Le idee di questo saggio sono dunque mutuate da tre fonti principali: un gruppo di biologi evolutivi che hanno criticato l’egemonia del pensiero neodarwinista; l’approccio di psicologia ecologica; ma soprattutto gli scritti filosofici di Heidegger. 

All’interno di questo solco, Ingold sostiene che, quando si parla di esseri viventi e di rispettive costruzioni, esistono a grandi linee due posizioni diverse: una che lui chiama del costruire, che è quella dominante, e un’altra opposta alla prima, più recente, che chiama dell’abitare. In pratica il piccolo saggio è una confutazione della tesi dominante, in favore di quella dell'abitare. Ma cominciamo con un esempio. 

In una foresta c’è una quercia. Dentro, o attorno a questa quercia, vi abitano una serie di animali. Una volpe si è costruita la tana tra le sue radici; una civetta rimane in equilibrio sulle diramazioni rigogliose dell’albero; l’intrico dei rami è un vero e proprio rifugio fatto di scale e trampolini per uno scoiattolo; nelle crepe del legno le formiche scavano cunicoli adunando segatura che poi trasportano giù nel formicaio. Insomma, ogni creatura sfrutta una determinata caratteristica dell’albero per una propria necessità: riparo per la volpe, sostegno per la civetta, strada per lo scoiattolo, materiale di costruzione per le formiche. Tuttavia, secondo la teoria del costruire, nessuno di essi considera l’albero in quanto albero, cioè nella rappresentazione più completa formata da tutte le caratteristiche di un albero, bensì solo da quelle che si legano con le proprie attività vitali specifiche. Pertanto, per gli esseri non umani, l’ambiente esiste solo se legato a esigenze evolutive proprie, poiché l’animale “non può distaccare la propria coscienza dalle proprie attività vitali”. Insomma a dettare i loro comportamenti è un mix di evoluzione e istinto. 

Nell’uomo invece è diverso. La nostra mente è capace di ‘costruire’ l’ambiente dove ci troviamo, rappresentando gli oggetti del mondo completi di tutte le loro potenziali funzioni, anche inventandone di nuove e poco immediate, e soprattutto indipendentemente dalle esigenze evolutive proprie di un essere umano. Esempio banale: spesso quando non ho un apribottiglia a portata di mano mi capita di utilizzare un accendino, seppure questa non sia la sua funzione precipua; in questo caso la mia mente si prefigura il risultato - bere la birra - e nel frattempo analizza gli oggetti che ha a disposizione per raggiungere il proprio scopo. E questa possibilità di manipolare le cose per soddisfare un proprio desiderio ha un solo limite, che è poi il motivo per cui riusciamo in questa capacità: la nostra immaginazione.

Esiste quindi nel pensiero dominante una differenza sostanziale tra la costruzione di un architetto e quella di un tana da parte di un castoro. Mentre il castoro è il mero esecutore della tana, in quanto essa non è altro che la traduzione di un progetto di tana che è iscritto nei geni e nel comportamento del castoro (il quale a sua volta è dato da un lungo processo di variazione e di selezione naturale), gli edifici delle nostre città, i grattacieli, e ogni altra costruzione umana, sono in realtà il risultato di un’idea, e in particolare di un progetto, che, attraverso un processo di decisione e di selezione intenzionale delle varie alternative, governa elementi naturali del mondo per la creazione di uno specifico risultato. Insomma il castoro costruisce certi tipi di tane perché millenni di evoluzione lo hanno portato a costruire certi tipi di tane, invece l'uomo costruisce grattacieli perché la propria mente immagina i modi con cui è possibile governare il cemento e piegarlo alla propria volontà. Quindi: l’essere umano è autore delle proprie costruzioni, il castoro invece ne è un mero esecutore. O per dirla con le parole dell’antropologo statunitense Clifford Geertz, l’essere umano è capace di “imporre un quadro di riferimento simbolico e arbitrario sulla realtà”, mentre un castoro no. O almeno questo in soldoni dice la postura del costruire. 

Quella dell’abitare è un tantino diversa, a partire già dai suoi presupposti: se la prima teoria sostiene una separazione netta tra natura e mente umana, la seconda non lo fa; se la prima postula una distanza tra scienze biologiche e quelle umane, tra evoluzione e Storia, tra processi temporali della natura e quelli della cultura, la seconda ribalta queste dicotomie, e le neutralizza. Per introdurre questo slittamento di prospettiva, Ingold descrive la capacità di costruzione delle società nomadi di cacciatori e raccoglitori, che per ragioni di spazio non sto qui a raccontare. Però l’antropologo inglese usa anche un altro piccolo espediente etimologico, più breve e forse più esemplificativo. 

Nel suo “Costruire abitare pensare” (1952) Martin Heidegger racconta che il termine tedesco corrente per "costruire" è bauen, il quale deriva dall’antico inglese e dall’alto tedesco buan. Questa parola si traduce con il significato di ‘prendersi cura’, ‘coltivare la terra’, ma anche ‘fare qualcosa’, ‘edificare una costruzione’, ‘costruire’ appunto. Ma la parola buan aveva in realtà anche un altro significato, che nel corso del tempo è poi caduto in disuso, il quale è ‘abitare’. Dunque “solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire” scrive il filosofo tedesco. Costruire non può essere compreso come un semplice processo di trascrizione sulla materia di un progetto preesistente. È vero che gli esseri umani sono forse l’unico animale che ha la capacità di immaginare forme prima ancora di realizzarle, però anche questo immaginare è in realtà il risultato di un'attività espletata da persone reali, che vivono in un ambiente reale; non è un intelletto incorporeo che si rappresenta le cose e i problemi da risolvere. Insomma le persone non partoriscono idee semplicemente dalle immagini mentali della propria mente, bensì dal mondo; è dal mondo che i progetti e le rappresentazioni vengono prese in prestito: come dire, solo perché noi esseri umani abitiamo il mondo che abitiamo, questo ci permette di avere i pensieri che pensiamo. Tra mondo fisico e mente umana non c’è separazione. Pertanto, così come avviene per gli esseri non umani, ciò che pensiamo e creiamo emerge dal nostro vivere in un determinato ambiente.


Ora torniamo alla quercia. Osserviamola più da vicino. Zoomiamo per bene. Ecco, guardando attentamente, la distinzione tra ciò che è costruito e ciò che non lo è si fa più confusa. In realtà sono tutti gli abitanti della quercia a dare forma alla quercia stessa: nel corso degli anni l’albero cresce e assume la sua particolare forma anche grazie alla volpe, che vi scava la sua tana tutt’intorno alle radici, e alla civetta che si appoggia sui suoi rami, e alle formiche che scavano labirinti inestricabili all’interno della corteccia, e allo scoiattolo che disegna con i suoi passi gli scivoli e i saliscendi della pianta. La forma della quercia non è data, come se fosse una rappresentazione definita della mente, ma è qualcosa di vivo, cambiante. Lo stesso accade nelle nostre case. La grondaia diventa una piccionaia per uccelli che cercano riposo, le fessure tra i mobili il riparo degli acari, le zone più umide, come la cesta della frutta, il luogo dove banchettano i moscerini. Tutti questi animali, a loro modo, contribuiscono a plasmare la forma delle nostre case, a volte decorandola, spesso arrecandoci fastidio (non è che noi esseri umani tolleriamo la condivisione dello spazio con altre specie viventi). 


Le case sono così organismi viventi, e il costruire è in realtà un processo che continua tutto il tempo che un ambiente viene abitato: non termina con la realizzazione di un’idea ben precisa, con un risultato definito. Insomma la forma finale delle nostre costruzioni non è che un processo passeggero (e noi, in fondo, per la maggior parte del tempo, non siamo dei veri architetti).


Albedo termina qui. Questo mese forse è stato influenzato dalle recenti festività, dal ritorno a casa del suo autore, che si è messo a riflettere sul fatto che durante gli scorsi anni, quando o era in viaggio o viveva lontano e le festività le trascorreva in “case” diverse da quella in cui era cresciuto, si sentiva altrettanto bene, altrettanto a casa. Sarà che anche questa di casa, fatta di relazioni e di affetti, è qualcosa che si modifica nel tempo, che non è mai uguale a ciò che era un anno prima, e che quindi per essere costruita ha bisogno di essere abitata, coltivata? Mah… Sicuro per questo numero è tutto. Noi ci risentiamo il prossimo febbraio. Se vuoi aggiungere qualcosa, parlarmi della tua casa, e scrivimi alla solita mail sebastiano.santoro@duegradi.eu (Si apre in una nuova finestra). A febbraio!

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