Calcerò #32 – La volta buona
Retropassaggi, 6/24 - Di un tedesco e un Europeo
Ciao a tutti, questo è il secondo numero di Retropassaggi, l’appuntamento passatista di Calcerò, quello del 20 del mese.
Sono reduce dalla prima settimana di Euro 2024, in loco, e allora tanto vale rispolverare un articolo del 2020 (uscito su QuattroTreTre, qui aggiornato) che, con un tedesco e un Europeo, ha qualcosa a che fare.
Buona lettura.
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Retropassaggi, 6/24
Wembley. Si è fatta la storia, lì dentro, e se c’è un’estetica in ogni concetto, quello di trionfo, nel calcio, forse si associa all’architettura di quell’ingresso solenne, alle torri che lo caratterizzavano. L’Inghilterra vi ha vinto un Mondiale, l’unico; il Milan di Altafini, il Manchester United di Best, (Öffnet in neuem Fenster) l’Ajax di Crujff, il Liverpool di Dalglish, il Barcellona di Stoichkov (Öffnet in neuem Fenster) con Crujff in panchina, vi hanno alzato la Coppa dei Campioni. E poi la Coppa delle Coppe del West Ham di Bobby Moore, quella del Parma di Scala, pure l’Europeo dell’Italia di Mancini, e tutte quelle altre partite che hanno meno eco mediatica, ma qui diventano epica. E i Pink Floyd, il Live Aid, gli U2, i Queen…
Wembley è una suggestione, sempre, e una volta ancora è una finale, un trofeo in palio. Fa effetto, a chi non ha mai sollevato una coppa vera se non a livello giovanile, e certo non su quel prato. Il ragazzo, che di anni ne fa 27 tra qualche settimana, si è giocato già una fetta di onestissima carriera. Senza infamia e senza lode, direbbe il cronista pigro, enfatizzando.
Gol sì, anche in buon numero, ma comunque poca cosa quando il livello si era alzato. Ma il tedescone biondo adesso è a Wembley, dove può vincere: quegli avversari li ha già incontrati all’inizio del torneo, li conosce. Vincere si può, e magari timbrare il successo con il proprio sigillo e cambiare le sorti di una carriera, chissà. Oliver, dopo tutto, non era ancora nato quando i suoi connazionali, a Wembley, avevano perso un Mondiale. Quel Mondiale.
È il tuo momento, Oliver Bierhoff.
No, non lo è. Segnano gli altri, quasi subito, un gol più irregolare ancora di quello del 1966, da rimessa laterale addirittura, ma i tuoi avversari sono sufficientemente furbi da far esultare l’attaccante che sottoporta, in realtà, non l’ha toccata.Tony Agana (Öffnet in neuem Fenster) il gol non l’ha segnato, ma l’ha segnato lo stesso.
Il Notts County che segna sveglia l’Ascoli che sogna: è il pomeriggio di domenica 19 marzo 1995, quella di Wembley è la finale della Coppa Anglo-Italiana, Bierhoff veste la maglia rossa da trasferta della squadra marchigiana, ha il numero 9 sulle spalle. Dall’1 all’11, con virgole e punto e virgola com’era d’uso allora: Bizzarri, Benetti, Mancuso; Marcato, Pascucci, Zanoncelli; Binotto, Bosi, Bierhoff, Favo, Mirabelli. Allenatore Albertino Bigon, che nemmeno troppo tempo addietro festeggiava lo Scudetto con il Napoli, mentre ad Ascoli aveva sostituito Orazi non tanto per mettere in bacheca l’Anglo-Italiano, quanto piuttosto per salvare una squadra sull’orlo della retrocessione.
Retrocessione in C1, per la precisione. Oliver Bierhoff, nel pieno della maturità agonistica, era lì; difficile pronosticargli un salto di carriera, a quel punto. Certo: gran fisico, ottima presenza aerea, professionista sgobbone, ragazzo serio; gli esordi in Bundesliga, ventenne o poco più, tra Bayer Uerdingen e Amburgo lasciavano ben sperare, ma prima il trasferimento a un Moenchengladbach ormai minore quindi quello in Austria al Salisburgo significavano essere scesi di un gradino.
Eccola lì la chiave, la scala: più in basso, Bierhoff segna a raffica. I 23 gol con l’Austria Salzburg lo portano a diventare vicecapocannoniere del torneo e gli spalancano le porte dell’Italia. Ascoli appunto: è l’estate del 1991. 17 presenze e 2 gol contro Foggia e Inter, retrocessione, e l’impressione di non essere nulla di che. Un gradino sotto, in B, i gol tornano: 20, ma l’Ascoli resta nel limbo. Poi è vero che qualcuno sembra volerlo riportare in Serie A, ma la cosa finisce lì.
Anche perché Bierhoff non si sa di chi sia.
27 giugno 1993, La Repubblica (Öffnet in neuem Fenster): «Tra i meandri del mercato c’è una storia che si scontra con le mai troppo sbandierate esigenze di trasparenza, tra proprietà-ombra e accordi sottobanco. Il protagonista non è un fuoriclasse ma un buon giocatore, Oliver Bierhoff (…). All’Ascoli dalla scorsa stagione, è letteralmente esploso in serie B realizzando 20 gol e sfiorando la promozione con i marchigiani. Ora lo vogliono in tanti, ma chi intende ingaggiarlo non si rivolga a Costantino Rozzi bensì a Pellegrini. Infatti il centravanti è stato portato in Italia proprio dall’Inter, però questo non risulta a nessun livello: si è trattato insomma di un acquisto privato, ufficialmente seguito dalla cessione a titolo definitivo all’Ascoli. Con una postilla: Bierhoff sarebbe tornato nerazzurro a fine stagione».
All’Inter Bierhoff non è mai tornato, ma del resto anche il termine è sbagliato: non c’era mai stato ufficialmente, all’Inter, logico che non ci sarebbe potuto tornare. Resta tra i bianconeri: 17 gol il secondo anno di B e terzo ad Ascoli, niente promozione nemmeno stavolta, e allora nuovo tentativo, eccoci finalmente al 1994-1995, l’anno di Wembley e di quella finale. Siamo sull’1-0 per il Notts ma arriva il pari ascolano: non Bierhoff, ma Walter Mirabelli da Cosenza, solo che poi il colpo di testa alla Bierhoff lo fa tale Devon White, il quale ora ride come un bambino, e non è una metafora: gli manca un incisivo, e l’incompletezza d’altri tempi della sua dentatura bianca splende sul viso di un 31enne che sta retrocedendo in terza divisione col Notts, ma con quel 2-1 sigilla un risultato che non cambierà più e gli consentirà di salire la scalinata più iconica del calcio per ricevere la coppa. Coppetta finché si vuole, ma White a Wembley ha vinto, e può raccontarlo ai nipotini.
Bierhoff no, e poche settimane dopo anche l’Ascoli retrocede. I suoi gol in campionato sono 9, gli almanacchi asetticamente dicono questo: quattro stagioni nel Piceno e 48 gol d’accordo, ma due retrocessioni. Lui ce l’ha messa tutta, colpe in fondo non ne ha. La B la può fare, dai, lo pensano tutti: l’età è quella giusta per fare la differenza in categoria, ma serve una squadra decente, perché avere Bierhoff è come in un vecchio spot: non basta, ma aiuta. Ma il mercato, e qualche intuizione, a volte modificano l’inerzia, e quell’estate lo prende l’Udinese neopromossa in Serie A. La scala, di nuovo, ma due gradini più in su: da quanto tempo non gli accadeva?
In Friuli i tifosi non è che facciano salti di gioia all’inizio: se il nostro centravanti per la salvezza tra i grandi è uno retrocesso con l’Ascoli, buona fortuna eh, che qui ce ne vuole. Debutto, gol decisivo contro il Cagliari. Terza giornata, doppietta contro la Cremonese e altri tre punti. Dopo 9 giornate, i gol del tedesco sono 7 – testa, destro, sinistro, calcio di rigore: ha segnato in tutti i modi – e i punti 15, l’Udinese ha pure sconfitto la Juventus con una sua rete, il tandem Poggi-Bierhoff si dimostra più che affidabile e, dalla destra, sono innumerevoli le volte in cui Ametrano gli piazza sulla capoccia cross che finiscono dentro, uno dopo l’altro.
Zaccheroni, l’allenatore, gongola, ha già capito tutto. Bierhoff, quello che era retrocesso con l’Ascoli solo pochi mesi prima, nel febbraio 1996 arriva pure a debuttare in nazionale. Lo chiama Berti Vogts e alla seconda partita Oliver firma una doppietta. L’Udinese, intanto, strabilia: altro che salvezza risicata, la posizione finale è il decimo posto – ma la squadra aveva raggiunto anche il sesto – e i gol del numero 20 alla fine sono 17, quanto basta per guadagnarsi la convocazione all’Europeo.
Perché sì, è l’anno di Euro 1996, in Inghilterra, football’s coming home (Öffnet in neuem Fenster) e lo sapete come si dice da quelle parti, vero? «Footballis a simple game. Twenty-two men chase a ballfor 90 minutes and at the end, the Germans win»; il calcio è un gioco semplice: ventidue uomini inseguono una palla per novanta minuti, e alla fine vincono i tedeschi. La frase l’ha scolpita nell’immaginario collettivo Gary Lineker, e fa più che ridere: ci azzecca.
Vogts lo convoca. La Germania debutta a Manchester battendo la Repubblica Ceca, Bierhoff gioca gli ultimi sette minuti più recupero. Poi supera 3-0 la Russia, e Oliver è titolare: segnano Sammer e capitan Klinsmann. Girone in ghiaccio, e lo 0-0 con l’Italia significa passaggio del turno. Bierhoff resta a guardare, e resta a guardare anche agli quarti, 2-1 alla Croazia, e pure in semifinale. Già, la semifinale. Inghilterra-Germania e, se avete letto con attenzione le righe precedenti, chi delle due raggiunge l’ultimo atto lo sapete già e non serve andare oltre.
30 giugno 1996. Il tedescone biondo adesso è a Wembley, di nuovo, e pazienza se sta in panchina: quegli avversari li ha già incontrati all’inizio del torneo, li conosce. Vincere si può, e magari timbrare il successo con il proprio sigillo e cambiare per davvero le sorti di una carriera, chissà. Oliver, dopo tutto, non era ancora nato quando i suoi connazionali, a Wembley, avevano perso un Mondiale. Quel Mondiale.
È il tuo momento, Oliver Bierhoff.
Ma questa è la volta buona.
(Öffnet in neuem Fenster)Triplice fischio.