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Albedo Newsletter - N°23

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e storie sull’Antropocene e sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque. Come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction, e lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza c’è un piccolo promemoria sugli ultimi articoli pubblicati da Duegradi;

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Il diritto di una rana a esistere

L’etimologia della parola persona deriva dall’esperienza teatrale. Per i latini ‘persona’ era la maschera che indossava l’attore, e quindi per estensione anche la parte recitata davanti agli spettatori. Alla base del concetto occidentale di persona c’è quindi un processo di separazione, e di finzione, tra l’uomo e la sua maschera. Nella tensione tra essere e dover essere, ovvero tra ciò che è e ciò che la norma prevede, anche il diritto in certa misura ha inglobato questa separazione e ha usato lo strumento della finzione per creare i suoi istituti più importanti. 

Gli ordinamenti giuridici attuali prevedono a grandi linee due tipi di persone, quelle fisiche e quelle giuridiche. Chi nell'Ottocento ha cominciato a pensare all’esistenza delle persone giuridiche, ovvero le società, le associazioni, eccetera eccetera, ha avuto bisogno di immaginazione: immaginare che queste aggregazioni immateriali di individui possano essere titolari di diritti e obblighi e capaci di agire in maniera giuridicamente rilevante, così come avviene per i singoli esseri umani.


Dall’altra parte dell’oceano, secoli e secoli fa, la capacità immaginativa è stata usata con risultati diversi. Nella regione andina che va dal Perù alla parte settentrionale dell’Ecuador, i colonizzatori spagnoli usavano il termine waka (o anche huacas o guacas) per indicare alcuni esseri “sacri” venerati dalle comunità precolombiane. Sto parlando di montagne, colline, laghi, grotte, rocce e sorgenti, ma anche di esseri straordinari, alberi giganteschi, piante magiche e corpi vegetali dalle forme più strane. Per le comunità andine, i waka configurano una soggettività diversa, ma sotto alcuni aspetti alla stregua di quello che i romani chiamavano persona. Ancora oggi i waka andini sono considerati dalle società indigene come esseri generativi ma allo stesso tempo inquietanti, proteggono, guariscono, ingannano e puniscono. Insomma sono esseri complessi, ma vivi, esistenti, con ricadute pratiche nel mondo, come l’azione delle persone umane.


È sulla base di queste cosmovisioni, e soprattutto sull’apporto politico della Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador, che nel 2008 la nuova Assemblea costituente ecuadoriana ha introdotto nella propria Costituzione (Abre numa nova janela) i cosiddetti diritti della natura: il nuovo articolo 71 prevede che la PachaMama, l’espressione per “Madre Terra” in lingua quechua, ha diritto di esistere, di essere conservata e di essere rigenerata e che ogni cittadino o comunità ecuadoriana può chiedere alle autorità pubbliche di rispettare i suoi diritti. 


Da quando si sono stati affermati i diritti della natura, i tribunali dell’Ecuador li hanno applicati in decine di sentenze su casi riguardanti questioni ambientali, riconoscendo a entità naturali, come fiumi, scimmie o boschi, lo status di “persone” in senso giuridico, titolari quindi ad esistere e ad essere rispettate. 


La cosa significativa è che la produzione di diritto da parte dei tribunali è avvenuta in contemporanea all’adozione di una strategia politica di sfruttamento minerario da parte del governo ecuadoriano, in particolare dell’ex presidente socialista Rafael Correa - lo stesso sotto cui è avvenuta la riforma costituzionale. 


Dopo essere stato un paese esportatore di cacao, banane, fiori, gamberetti e petrolio, quando le riserve petrolifere sono diminuite, lo Stato ecuadoriano ha aperto la porta alla mega-estrazione mineraria. 


Una delle pronunce più importanti sui diritti della natura è quella della valle di Intag. In questa estesa valle nel nord dell'Ecuador si incontrano due ecosistemi: da una parte, el Chocó andino ecuadoriano, un'area protetta riconosciuta a livello mondiale, dall’altra, le Ande tropicali (Cordigliera del Toisán), uno degli hotspot con la maggiore biodiversità del pianeta. Prima contro aziende giapponesi, poi canadesi, da quasi trent’anni gli abitanti di questa valle si battono per evitare l'estrazione mineraria in questo oasi verde, a ridosso delle proprie case. Dopo le imprese private, dal 2011 il nemico è diventato lo Stato ecuadoriano, in particolare il progetto di estrazione di rame Llurimagua (Abre numa nova janela) dell’Azienda Nazionale Mineraria dell’Ecuador (ENAMI) e, soprattutto, dell’azienda mineraria cilena CODELCO . 


Per comprendere cosa sia successo a Intag, e perché la sentenza che ne è emersa è così importante, sono andato a Quito, nel Centro Jambatu, dove lavora la biologa Andrea Terán Valdez, una delle persone protagoniste di questa storia.


Ingresso del Centro Jambatu.


Due donne sono sedute su un prato, un gruppo di bambini vestiti con uniformi scolastiche le circonda in cerchio. Parlano di insetti, descrivono la loro importanza per l’ecosistema in cui viviamo. Supero il gruppo di persone e arrivo all’ingresso del centro. Il nome completo è Centro Jambatu de Investigación y Conservación de Anfibios, un centro di ricerca nato in Ecuador nel 2011 dall'esigenza di proteggere le specie anfibie che si stavano estinguendo. L’Ecuador è infatti il quarto paese al mondo (Abre numa nova janela) col maggior numero di specie anfibie. “Culturalmente qui c'è sempre stato un forte legame con le rane” spiega la biologa Andrea Terán. Tuttavia, verso la fine degli anni '80, migliaia di anfibi cominciarono a scomparire. 


“Il fenomeno ha attirato molta attenzione perché non è stato un processo graduale, piuttosto  una cosa molto improvvisa. Non c'era un motivo unico. Le cause sono state i cambiamenti climatici in atto e gli agenti patogeni, in questo caso un fungo” racconta la biologa. Da questo stato di cose la chiamata all’azione è stata immediata. Così presso l’Università Cattolica di Quito si è allestito il primo laboratorio; poi nel 2011, nella periferia della capitale ecuadoriana, è stato aperto il Centro Jambatu per portarvi le rane parentali di specie minacciate e poi riprodurle, con l’obiettivo di conservare e salvaguardare la popolazione anfibia in pericolo.


“La scienza è il nostro fondamento, tutte le decisioni che prendiamo sono sempre basate sulla scienza. Abbiamo una banca dati della vita, che è la collezione scientifica, e anche una banca dati di tessuti e peptidi, che è come la nostra seconda linea di difesa: cioè se le rane si estinguono, almeno abbiamo il loro DNA. L’altra nostra componente è l’educazione, per molti anni siamo stati chiusi al pubblico, ma oggi sentiamo questa necessità di coinvolgere più persone. Gli ecuadoriani devono sapere che l’Ecuador è uno tra i paesi con più rane al mondo, e che queste rane però le stiamo perdendo”.



Ecco, questo è il contesto. Adesso puoi spiegarmi un po' cosa è successo a Intag con il progetto Llurimagua.

Le comunità che vivono a Intag hanno una delle più lunghe e storiche lotte di resistenza contro l'attività mineraria. Tuttavia con il progetto Llurimagua a partire dal 2011 c’è stato un forte sostegno statale all'attività mineraria, tanto che la polizia è intervenuta con la forza per eseguire le concessioni in luoghi a ridosso delle comunità. Da quando è cominciata l’esplorazione il tessuto sociale di queste aree si è rotto: hanno arrestato i leader della comunità, molta gente si è spaventata, altra gente invece ha deciso di cominciare a lavorare per loro. A questo punto siamo stati coinvolti noi, come Centro Jambatu. Nel 2016 lo scrittore e attivista Carlos Zorrilla, lo stratega della battaglia contro la miniera a Intag, ha capito che doveva appoggiarsi ad altri attori e così ci ha chiamato per iniziare a monitorare gli anfibi presenti in zona e raccogliere dati sulla biodiversità sperando che potesse essere un sostegno nella lotta. In realtà non avevamo molte aspettative, non ci aspettavamo di trovare nulla di straordinario. Ma all’improvviso è apparsa l'Atelopus longirostris, la rana arlecchino, una specie dichiarata estinta dall'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN). 


Un esemplare di rana arlecchino conservato nei laboratori del Centro Jambatu.



Quando ho letto per la prima volta lo studio di impatto ambientale redatto dal Ministero dell’Ambiente per la concessione mineraria, mi sono accorta che la rana arlecchino non era stata riportata. Allora abbiamo revisionato per bene lo studio e ci siamo accorti che molte specie a rischio di estinzione non erano state segnalate. Insomma lo studio era una porcheria: in uno dei monitoraggi effettuati abbiamo accertato la presenza di 22 specie, l'80% delle quali minacciate, mentre lo studio ne riportava solo 10, di cui nessuna minacciata. Capisci? Per giustificare la concessione mineraria il Ministero dell’Ambiente ha fatto uno studio di impatto ambientale che non rileva nessuna biodiversità, e quando andiamo noi, invece, troviamo un’incredibile foresta matura con una rana che sembrava estinta e invece è resuscitata, e un’altra di cui non si sapeva nemmeno l’esistenza [in tutto il mondo la rana cohete resistencia (Abre numa nova janela) esiste, al momento, solo nell’area di Intag]. Davanti a tutte queste informazioni ci siamo detti che bisognava mettersi in gioco. Così nel 2020 in collaborazione con alcuni gruppi ambientalisti e con la comunità di Junín abbiamo elaborato una strategia giuridica per promuovere i diritti della natura. Quello che volevamo dimostrare è che nel progetto minerario non erano state rispettate misure di protezione per le specie endemiche in pericolo di estinzione presenti nella zona. Devi sapere che al momento dell’inizio del giudizio non c'erano precedenti al riguardo, la sentenza del Bosque Los Cedros è arrivata dopo [una delle sentenze miliari sui diritti della natura]. Per fortuna però abbiamo avuto un giudice che ha capito tutto. È stato incredibile: non solo ha riconosciuto la violazione, ma ha approvato un’azione di protezione perché ha accertato che con il progetto Llurimagua il Ministero dell’Ambiente non ha valutato correttamente i rischi e i danni ambientali generati dalla miniera, e non ha protetto adeguatamente le specie messe a rischio dalla concessione. Cioè i diritti di queste rane hanno improvvisamente fermato una miniera di rame, una delle più grandi del paese!

Andrea Terán Valdez nel laboratorio di conservazione del Centro Jambatu.


Ovviamente il Ministero ha fatto appello alla Corte Provinciale. E sono entrate in causa anche CODELCO ed ENAMI [le aziende titolari delle attività di esplorazione e sfruttamento previste dal progetto]. Nel ricorso alla Corte Provinciale abbiamo perso, ma era chiaramente una questione molto politica. Non avevamo intenzione di continuare il giudizio perché non c’erano molte speranze. Ma poi l’Atelopus longirostris e l’Ectopoglossus confusus [altra specie minacciata scoperta e presente a Intag] hanno cominciato ad avere visibilità propria, ed è stato bellissimo perché abbiamo avuto anche il supporto di Re:wild, la Fondazione di Leonardo Di Caprio [un tweet (Abre numa nova janela) pubblicato dall’attore californiano]. Così abbiamo iniziato una fantastica collaborazione tra organizzazioni ambientaliste, società civile e scienziati. Si sono verificati processi molto interessanti. I diritti della natura ci hanno fatto ripensare la dinamica tra scienza e comunità: prima era come se ci fosse un grande divario, poi all'improvviso c’è stata una collaborazione che ha portato a frutti incredibili. Nel processo d’appello quindi c'è stata una strategia molto più comunicativa, c'è stato un movimento di gente impressionante. È stato incredibile perché penso che i momenti più frustranti della mia vita siano stati in quelle prove di tribunale. Noi eravamo un manipolo di gente comune, e avevamo contro il Ministero dell'Ambiente, i Ministeri dell'Energia e delle Miniere, la Procura Generale dello Stato, CODELCO, ENAMI, con i migliori studi legali, con i migliori salari del paese. I nostri poveri avvocati invece, non so quanto sono stati pagati, comunque non molto, alcuni mi dicevano che hanno scelto di curare questa causa perché questo caso giuridico gli procurava un entusiasmo eccezionale, molto di più dei casi che seguivano normalmente. E poi vincere è stato incredibile perché si è avuto tutto questo coinvolgimento della scienza, che in Ecuador non è mai stato molto forte: gli scienziati non sono mai stati molto impegnati, anzi, il nostro è un paese estrattivo, abbiamo iniziato con il legno, poi con il petrolio la stessa storia, c'è stata una certa complicità della scienza; perché su questi temi arrivavano i finanziamenti per gli studi, cosa che comunque non biasimo, in questo Paese non ci sono soldi per la ricerca. Ma, diciamo, gli scienziati erano complici di tutto questo, oppure semplicemente vedevano cosa stava succedendo, vedevano la distruzione ambientale, e non facevano nulla. Quindi è estremamente interessante come i diritti della natura aprano porte affinché la scienza inizi a partecipare attivamente alla democrazia. 


Quanta consapevolezza hanno i giuristi ecuadoriani delle questioni ambientali e scientifiche?

C’è molta ignoranza sulla natura dal punto di vista giuridico, cioè i giudici devono pronunciarsi per i diritti della natura ma non c’è conoscenza della natura. C’è stato uno sforzo da parte degli scienziati che hanno preso parte nelle udienze affinché le questioni fossero presentate in termini molto semplici, in modo da essere comprese da tutti. Per scrivere la sentenza del Bosque Los Cedros, in cui la Corte Costituzionale ha fornito le linee guida su come i giudici possono applicare i diritti della natura, i giudici della Corte Costituzionale hanno dovuto leggere molti articoli scientifici, e si sono presi la briga di farlo con un biologo come traduttore. C'è voluto molto lavoro, che i giudici di allora hanno fatto. Però non tutti i giudici hanno la stessa volontà. Quindi sì, ci sono delle lacune importanti. C'è un’enorme mancanza di conoscenza che rende l’applicazione dei diritti della natura un po’ più complessa. Penso che, oltre a fornire i dati per poter prendere delle decisioni, sia compito nostro anche saper tradurre queste informazioni in termini comprensibili.


Queste lacune si sono riflesse anche nella valutazione di impatto ambientale che è stata emessa dal Ministero dell’Ambiente in sede di concessione mineraria?

No, penso che ciò che è stato presentato negli studi di impatto ambientale è un riflesso della mancanza di concetti e di comprensione da parte del Ministero dell'Ambiente. Ed è anche pazzesco pensare che chi raccoglie le informazioni per farti approvare o disapprovare una licenza sia lo stesso soggetto che quella licenza la chiede, cioè chiaramente non ti metti da solo il cappio al collo, non denunci specie protette sapendo che potrebbe essere più problematico. Quindi penso che l'informazione molto lassista che c'è stata negli studi di impatto ambientale sia il riflesso di diverse cose, tra cui la mancanza di conoscenza, ma anche di questioni politiche ed economiche legate al progetto minerario.


E dalla parte scientifica invece, manca una conoscenza completa di ciò che realmente esiste in questi ecosistemi?

Sì, c'è sicuramente una mancanza di conoscenza, ma nel caso del Ministero è una mancanza di conoscenza consapevole. Ti dico questo perché quando noi del Centro Jambatu presentiamo i resoconti delle ricerche che facciamo, portiamo al Ministero dell'Ambiente gli elenchi delle specie riscontrate con coordinate e dettagli precisi. Parte della nostra banca dati è gratuita, e anche l'accesso alla banca dati dell'Università Cattolica è gratuito. In altre parole, lo Stato ha molte informazioni da cui attingere, per questo dico che è una mancanza consapevole di conoscenza. Da parte loro esiste una sorta di ignoranza cosciente.


Nel caso di Intag, quali impatti sul territorio hai riscontrato? Cioè, al di là della scoperta della rana, quali sono gli altri impatti ambientali del progetto minerario?

Il problema è che non possiamo saperlo. Perché noi siamo entrati in un momento in cui c'era già stato un impatto, in cui una delle cascate della zona era già stata contaminata a seguito dell'esplorazioni. Le perforazioni che sono state fatte hanno aperto le falde acquifere, e queste acque che erano confinate sono venute in superficie e anche questo è un fattore di inquinamento: cambia la temperatura, cambia la durezza dell'acqua, i metalli che erano confinati ora escono fuori.  Abbiamo avuto un'evidente contaminazione delle acque superficiali e non possiamo conoscerne gli impatti perché non è mai stato effettuato un serio studio di riferimento. Siamo entrati dopo che questo era già successo, quindi ci sono molte domande aperte: la popolazione di rane arlecchino era in realtà più abbondante? Quali altre specie c'erano? Non avendo una linea di base solida, non possiamo determinare se c’è stato un impatto o meno, quello che abbiamo ora è il presente post-impatto, ed è l’unica informazione che abbiamo.


E cosa ha generato per te personalmente tutto questo processo?

Uff... diverse cose... il momento della sentenza è stato uno dei più frustranti della mia vita. Ma anche uno dei più felici: quando hanno dato le sentenze a nostro favore, ho provato speranza, mi sono detta "c'è ancora uno strumento per cambiare le cose”. Dobbiamo interrogarci e iniziare a discutere se l'energia verde sia davvero così verde, se i bei progetti di cui si parla in Europa siano semplicemente dei trasferimenti di inquinamento ad altre aree del pianeta. Quindi penso che sia anche una speranza il fatto di avere uno strumento, i diritti della natura, che possa servire a spostare determinate dinamiche.


E come vedi il futuro?

È complesso. Un altro dei sentimenti che provo è molta paura, cioè ci troviamo ancora di fronte a poteri politici ed economici super forti. In fondo ti senti super vulnerabile, cioè sei lì a opporti a progetti di milioni di dollari. Ogni volta che cammino da sola in campagna hai questa piccola paura: “beh, spero che non succeda nulla”. Poi con l’estrazione mineraria illegale diventa tutto molto più complicato, perché non sei più di fronte a un’azienda precisa con un nome e dei cognomi, sei di fronte alle mafie. Quindi sì, penso che questa sia una delle sensazioni più brutte che si provano.


Quindi per il futuro dobbiamo avere speranza, e allo stesso tempo paura.

Sì, un mix di sentimenti. Ci sono tanti altri casi giurisprudenziali pendenti di diritti della natura che hanno tutte le prove scientifiche per impedire di concedere l’autorizzazione per un'estrazione mineraria. Poi ci sono altri casi che invece sono andati perduti, e tu sai che spesso è per ragioni politiche. Quindi, da un lato, c’è la speranza che con i diritti della natura si abbia uno strumento e che sempre più persone siano chiamate a impegnarsi in questo, ma dall’altro ci sono anche queste forze di stati autoritari dove è più complicato farlo; credo che a Intag non si è vinto perché siamo venuti lì con la scienza per dare informazioni ai giudici, si è vinto perché c’era una comunità organizzata che si opponeva e resisteva da 30 anni. Uno Stato autoritario inizia a smantellare le strutture sociali, inizia a spaventare la gente, i leader della comunità vengono imprigionati o sono costretti ad andarsene. Il tessuto sociale si spezza – questo è il modus operandi delle compagnie minerarie. Ci sono pochissime persone che possono davvero continuare a opporsi, ed è per questo che i principali attori sono le comunità. Scientificamente abbiamo tutte le prove che questi luoghi non dovrebbero essere sfruttati, sono luoghi unici, ma se le comunità non sono organizzate per opporsi alle compagnie minerarie c’è ben poco da fare. Quindi penso che ci sia ancora il compito, non solo di continuare a raccogliere informazioni, ma anche di recuperare quei tessuti sociali che sono stati spezzati con le strategie perverse delle imprese.


Grazie, non voglio rubarti altro tempo…

Oh, solo un’ultima cosa. È stato fantastico quello che è successo a Intag perché si sono generati altri processi, altre persone sono state coinvolte. In questo momento c'è la Eco-forensic Foundation (Abre numa nova janela) con cui collaboriamo per formare ecologisti nelle aree minacciate dalle miniere. L’obiettivo è che siano le stesse persone della comunità a iniziare a raccogliere informazioni sui propri territori: insomma che non ci sia questa dipendenza da fondi economici che permettono ai centri di ricerca di andare sul campo, ma che la gente stessa sia addestrata e possa raccogliere informazioni scientifiche per identificare le specie viventi. Ed è qualcosa di fantastico: possiamo cambiare questa dinamica di conoscenza in modo che le comunità stesse possano generare quelle informazioni utili a difendere i propri territori. 



Da Quito è tutto. Albedo sta per finire. Ma prima di salutarti voglio riportare le parole del giornalista Alessandro Ferrari, che segue e legge Albedo, e che ha risposto a uno degli ultimi numeri (Abre numa nova janela) in cui si sosteneva che nella letteratura c’è in atto una crisi di immaginazione. Alessandro scrive: "Ciò che mi preoccupa, più della difficoltà della letteratura, è l'incapacità della filosofia nel pensare e nell'analizzare la crisi climatica che ha molteplici aspetti. Da osservatore saltuario, fatico a vedere pensatori che riescano a tenere insieme questi aspetti, che costruiscano un sistema filosofico realmente in grado di affrontare la crisi climatica, che si può tranquillamente definire un iperoggetto talmente grande che nessun pensiero riesco ad inquadrarlo completamente. È la crisi della filosofia che mi preoccupa, poiché questa dovrebbe fornire un orizzonte di senso, un modello politico-sociale alternativo, avrebbe o dovrebbe essere in grado di incidere sulla realtà più della letteratura.” 


Nulla da eccepire. Alessandro ha toccato un altro nervo scoperto di Albedo, che meriterebbe ampio spazio. Non so se il numero di questo mese, il numero 23, possa essere un tentativo di risposta - d’altronde attribuire personalità a un bosco e a una rana metterebbe in crisi secoli e secoli di pensiero occidentale su volontà, individuo, capacità di agire, eccetera. Magari se anche tu hai idee, suggestioni, consigli, da aggiungere alla faccenda, scrivi alla solita mail sebastiano.santoro@duegradi.eu (Abre numa nova janela). Ci lasciamo con questo grande punto interrogativo. E ci facciamo anche gli auguri di buone feste e di buona fine e buon inizio, sperando che il 2025 ci porti un po’ di speranza in più, e un po’ di paura in meno. Al prossimo gennaio!!

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