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Albedo Newsletter - N°21

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e storie sull’Antropocene e sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque. Come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction, e lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza c’è un piccolo promemoria sugli ultimi articoli pubblicati da Duegradi;

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

È possibile tradurre l’Antropocene in trame e personaggi?

Gustave Caillebotte - Portrait of the Bookseller E J Fontaine [1885]

Mosso da un dubbio che continua ancora oggi ad arrovellarmi, tre anni fa durante una presentazione romana di Contro l’impegno (Rizzoli, 2021), l’ultimo pamphlet di Walter Siti, ho posto all’autore la domanda che è il titolo di questo Albedo, cioè come è possibile tradurre l’Antropocene in trame e personaggi. Devo dire che la risposta, un po’, me l’aspettavo perché Siti vi aveva dedicato qualche riga nel suo pamphlet. Comunque Siti mi rispose così (pardon per la qualità dell’audio): 

(La risposta di Walter Siti)

Negli ultimi anni la domanda ha continuato ad assalirmi, lo ha fatto spesso. In parte ho cercato di rispondere con un pezzo pubblicato (Abre numa nova janela) due anni fa su Duegradi; in parte con lo scorso numero (Abre numa nova janela) dedicato a Calvino. La questione però non è per niente risolta e rimane ancora aperta.

 Il mese scorso sono stato al Festival internazionale del cinema verde a Roma. Ho visto alcuni film, assistito ad alcune conversazioni. Una in particolare ha rianimato la domanda. Si parlava di come viene narrata la crisi ecologica nelle opere di creatività. Tra i vari invitati al talk c’erano lo scrittore Edoardo Albinati (che, casualità, era il moderatore della presentazione di Siti) e la traduttrice Martina Testa. L’intenzione iniziale era di presentare la stessa domanda che tre anni prima avevo posto a Siti, questa volta ad Albinati. Ma dopo aver ascoltato gli interventi, mi sono ritrovato invece, qualche giorno dopo, a chiacchierare con Martina Testa. 

Traduttrice letteraria ed editor da quasi trent’anni, dal suo lavoro sono stati tradotti in Italia autori come David Foster Wallace, Kurt Vonnegut, Cormac McCarthy, Zadie Smith e Bernardine Evaristo. Al momento lavora come editor nella casa editrice indipendente Edizioni Sur. Secondo me le cose che Martina ha descritto durante la conversazione del festival, i suoi gusti letterari, aggiungono un tassello al mosaico. Il risultato di questa piacevole chiacchierata di circa mezz’ora ve lo lascio qui sotto.


Pronto. Ciao Martina, sono Sebastiano. Buon pomeriggio.

Ciao Sebastiano.

Ti ho già parlato della domanda che ho posto a Siti, del fatto che in sostanza anche lui come molti altri autori e autrici ha alzato bandiera bianca di fronte alla crisi ecologica. Devo dire però che il tuo intervento al talk del Festival mi ha dato fiducia, mi ha fatto pensare che in realtà, magari in ritardo rispetto ad altri saperi, però anche la letteratura può avere un ruolo nella comprensione di questo gran casino che è l’Antropo… 

Aspetta, aspetta, soltanto un secondo, arrivo subito, eh. Un secondo solo prendo un posacenere, un attimo. 

Sì, sì, certo.

Sì, dimmi, scusa. 

Dicevo, mi potresti parlare di questa letteratura come esplorazione dell'uomo inteso come sistema o come specie vivente che hai descritto nel talk del festival?

Il romanzo come forma nasce insieme alla borghesia nell'ottocento, non è una forma che è sempre esistita. Insomma il romanzo corrisponde a un'espressione di sé dell'uomo come individuo. Seneca non scriveva i romanzi, nell'antichità greco-romana non c'era il romanzo come forma. Il romanzo nasce quando l'uomo comincia a ragionare sulla propria individualità. Mi sembra che nella struttura socio-economica attuale tanta narrativa, tanti romanzi, abbiano a che fare con un rispecchiamento del sé molto forte. Sicuramente negli ultimi vent'anni della letteratura statunitense, ma anche forse in quella italiana. Dopo il Covid questa cosa è ancora più evidente. Insomma c'è tanta autofiction, tanti romanzi che sembrano mémoire, forme ibride in cui c'è sempre l’io dell’autore molto preponderante, o comunque un punto di vista che è di un singolo. A me sembra che oggi la literaly fiction sia meno capace di immaginare mondi, di immaginare sistemi, di immaginare strutture, di avere uno sguardo ad ampio raggio, come forse era stato in passato, ad esempio con il romanzo sociale. Queste ideazioni di contesti, di azioni di sistemi, di azioni di mondi è perlopiù lasciata alla letteratura di genere, storicamente lo ha sempre fatto molto la fantascienza, però oggi il romanzo in sé lo fa un po' meno, è meno capace di inventare mondi, trame e così via. Invece io sento il bisogno di uno sguardo più ampio che vada oltre l'identità individuale dell'autore o del protagonista. Per me, avere uno sguardo diverso, aprire delle prospettive diverse, sarebbe scrivere guardando gli esseri umani, non come dei singoli o delle categorie, ma come specie appunto. L’essere umano è anche una specie in relazione a tante altre specie, e guardare l'esperienza umana in profonda relazione con tutto ciò che la circonda, secondo me, è un punto di vista interessante. Soprattutto in un momento in cui ci concentriamo così ossessivamente, anche morbosamente, sull'io o sull'individuo, soprattutto con il sistema dei social media, la creazione del proprio Brand personale, l’autodefinizione di sé, la creazione di un'identità che deve essere pubblicamente curata, in continuazione. Invece percepirsi molto meno come un io e più come specie vivente, secondo me, aiuta, è liberatorio mentalmente. Uno strumento per fare questo sono sicuramente le droghe psichedeliche, che ti danno quell'impressione di esaurimento del confine tra te e il non-te. Infatti ci sono scrittori negli ultimi anni che hanno parlato di Rinascimento psichedelico. Ci sono stati alcuni scrittori in Italia, uno di questi è Vanni Santoni o Andrea Piva, che hanno raccontato storie di questo tipo. Insomma mi piace l'idea di una letteratura che riesca a fare una zoomata all'indietro invece di guardare la specificità della singola persona. Che ci guardi dall'alto come un sistema. Questo è un auspicio.

Mi chiedo se magari questa letteratura che, negli ultimi decenni e anche oggi, si è molto chiusa sul sé, sulla coscienza individuale del personaggio principale, del protagonista o comunque di chi scrive, cioè se questo tipo di letteratura non ha favorito tutta questa trasformazione capitalista e antropocentrica…

Sicuramente. Cioè io sono tendenzialmente marxista, considero che la cultura derivi dalle condizioni socio-economiche in cui si trovano le persone, dalla forma in cui si organizza economicamente la società. La società umana negli ultimi 50 anni è stata alimentata da un capitalismo dello sfruttamento che estrae risorse distribuendo malissimo la ricchezza; questo tipo di sistema economico per sopravvivere deve puntare sull'individualismo: più le persone sono sole, più comprano, perché in qualche modo sono mentalmente fragili e sono più facili da convincere. Insomma sono migliori clienti, e anche migliori lavoratori obbedienti, o membri della società che non si ribellano. 

Da poco ho finito di rileggere La montagna magica di Thomas Mann, e in questo romanzo di inizio novecento c'è un panorama di personaggi estremamente eterogenei, no? Quindi si tratta forse anche di riprendere, andare a pescare in forme letterarie che già sono state praticate?

Ovviamente. In passato ci sono stati tanti romanzi o romanzieri, tante storie che avevano uno spettro molto ampio che andava al di là della singola vicenda individuale e raccontavano magari un paese o un popolo o, non lo so, un’intera città. Penso anche a Balzac, Zola, il realismo, il romanzo sociale dell'Ottocento. E poi c’è da dire che non è che oggi non esiste più nessuno che sia capace di scrivere romanzi corali, romanzi che raccontano appunto la complessità del reale con punti di vista polifonici. Senz’altro però, se si parla di come si racconta oggi il rapporto con il mondo naturale, trovo che ci sia sempre una forma di racconto in cui il mondo naturale è concepito come altro dall'uomo; per cui, ad esempio, c’è una catastrofe che mette a dura prova la società umana, l’uomo che si deve reinventare, o una catastrofe contro la quale il singolo deve sopravvivere, come nel famoso La Strada di Cormac McCarthy. Invece sarebbe interessante vedere proprio un punto di vista ribaltato in cui non c'è differenza fra noi e il mondo naturale, insomma in cui noi ne siamo parte invece che controparte. E dicevo ci sono alcuni romanzi di scrittori piuttosto giovani che tentano di mettersi nei panni di un animale. Questa cosa la trovo interessante. Poi magari sono comunque romanzi che hanno una prospettiva singola, però già questo ribaltamento, uscire dalla propria specie, mi sembra una metafora interessante.

Ecco, per scrivere una cosa di questo tipo, per mettersi nella pelle di un altro completamente diverso da un essere umano, può aiutare trovare un modo per ibridare fiction e non fiction?

C'è un libro di narrative non-fiction inglese che si chiama Being a Beast (Profile Books Ltd, 2016) di Charles Foster. La premessa è che un signore cerca di vivere come un tasso, come una lontra, come una volpe, come un cervo, eccetera eccetera. In effetti uno che cerca di mettersi in altri panni in qualche modo mi incuriosisce. Questo non è un romanzo, ma un saggio. Insomma vedo che questo tentativo esiste nella saggistica.

Da quando hai iniziato a lavorare nell’editoria hai notato cambiamenti in questo senso?

Sono aumentate le storie che sono molto vicine al vissuto dell'autore, cioè ci sono meno storie di pura e libera invenzione e invece più storie che sono ispirate alle proprie esperienze, alle esperienze della famiglia, o cose così. Sicuramente tutti i romanzieri si sono sempre ispirati alla realtà che conoscono, non è che creano dal nulla, però venti o trenta anni fa mi sembra che le storie magari erano più variegate, con più inventiva. C'è al giorno d'oggi, specie negli Stati Uniti, quel pudore di dire ‘se io sono uno scrittore maschio non posso scrivere un personaggio che è una ragazzina di 16 anni, perché o non vengo creduto oppure mi fanno nero perché mi sono permesso di dare voce a una persona di cui io in quanto maschio non posso sapere niente o cose del genere’. C’è autocensura da parte degli autori, e con questa parlo specialmente negli Stati Uniti. 

Quindi un cambiamento peggiorativo in termini di conoscenza della realtà.

Sicuramente.

Diciamo che di solito sono pessimista anche io, adesso me lo stai confermando…

Credo anche che sia un processo quasi irreversibile, cioè non si torna indietro da questo sistema di costruzione della conoscenza collettiva che oggi passa quasi, o comunque massicciamente, attraverso i social media. Chi sta al di fuori di quel sistema veramente fa fatica, è difficile immaginare modi per diffondere conoscenze in maniera alternativa a questa, e sto parlando di conoscenza che si diffonde attraverso le piattaforme su base algoritmica, che siano i social, ma che siano anche scegliere un film su Netflix o comprarsi i libri o gli audiolibri su Audible eccetera: sono tutti i modi per far sì che la fruizione della conoscenza avvenga ottimizzandola sui gusti del compratore. Quindi io vedrò sempre più prodotti culturali che un algoritmo immagina o predice che mi piaceranno. Anche se un ragazzino di oggi ha a disposizione rispetto al passato una quantità di album musicali sterminata, si può sentire tutto il Jazz del mondo, tutto il reggae del mondo, tutti i rapper del mondo, si può sentire la musica bulgara come quella cinese, però di fatto, siccome lui accede alla musica tramite il cellulare, e ci sono app che guidano i suoi acquisti tramite meccanismi predittivi, il ragazzo andrà a fruire soltanto di musiche preselezionate per piacergli. E questo sicuramente fa sì che la cultura appassisca perché c'è meno contaminazione, c'è meno scambio, c'è meno apertura, c'è meno a disposizione e curiosità verso ciò che è diverso.

Quindi siamo belli incasinati.

Praticamente siamo proprio totalmente nella merda, per me.

E io che pensavo di trovare nelle tue parole un po' di ottimismo, visto che durante il talk me ne avevi dato!

Zero… (ride)…L’ottimismo per me è nella droga, è un modo per liberarsi la testa. Che ti devo dire, purtroppo le strutture attuali sembrano asfissianti per chi pensa che sia importante il libero sviluppo della creatività. È proprio un brutto momento. Sembra che questo Antropocene lo si possa raccontare solo a partire da sé e dalla propria voglia di realizzare se stessi, che è un punto di vista falso.

Che poi a sua volta, in realtà, alimenta il meccanismo antropocentrico e capitalista che c'è dietro…

Certo, serve a mandare avanti il mercato del lavoro, del capitale culturale, che si basa tutto su questa falsa promessa.

A me un po' di sollievo me l'ha dato leggere Calvino. In lui non c'era questo tentativo di stare solo nel proprio sé, Calvino tentava di partire da un'immagine per arrivare, attraverso tecniche narrative, a raccontare che cosa vuol dire essere una pietra, o, non so, l'esplosione di una Supernova, cioè cose che chiusi nel proprio sé è un po' difficile da percepire, o anche immaginare.

È vero. 

Certo che tu poi traduci principalmente letteratura statunitense o anglosassone, una letteratura che è bell’improntata su questi meccanismi del sé e dell'esplorazione della coscienza individuale.

Sì, negli ultimi anni specialmente. Io però le cose che scelgo di pubblicare per la casa editrice per cui lavoro sono soltanto pochissimi libri l’anno. Facciamo 10 titoli in traduzione dagli Stati Uniti, e non tutti sono novità. Quindi alla fine devo trovare, che ne so, quattro o cinque libri all’anno che non sono così e che vengono dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Quattro o cinque l'anno si trovano ancora. Devo dire però che forse ci sono più scrittori dell'area Europea ad avere una prospettiva meno individualista. Negli ultimi anni forse ho letto più di cose interessanti che vengono appunto dall'Inghilterra, dalla Scozia, dall'Irlanda.


La chiacchierata con Martina Testa si chiude più o meno così, con la mia richiesta a ricevere alcuni di questi romanzi che le sono parsi interessanti. Anche Albedo termina allo stesso modo, quindi se hai dei titoli da consigliare, dei romanzi, o anche dei saggi o di qualche genere diverso, insomma degli scritti che secondo te sono capaci di rispondere alla domanda fatidica, fammi sapere. Non dico che non ci dormo la notte, però un chiodo fisso sì lo è. Per scrivermi puoi farlo alla solita mail, sebastiano.santoro@duegradi.eu (Abre numa nova janela)


Prima di lasciarci però voglio inserire il testo di una mail che ho ricevuto da Verdiana Fronza, una scrittrice (Abre numa nova janela) di Duegradi. È un messaggio di risposta all’ultimo Albedo, che parlava di viaggi e di turismo. Verdiana ha trascorso l’ultimo anno in giro per l’America Latina, e quindi di cose da dire su viaggi ed esperienze di questo tipo ne aveva. Vi lascio le parole di Verdiana qui sotto. Noi per questo mese è tutto, ci sentiamo il mese prossimo. Ora parola a Verdiana.


“Mi sono ritrovata in questa ossessione di controllo: pianificare viaggi che ogni giorno includono 5-6 attrazioni e diventano veri e propri tour de force; controllare le recensioni su Google Maps; dover per forza sapere quali sono le "x cose da non perdere" - tutte esperienze che spesso fanno parte dei miei viaggi. Eppure questo approccio, almeno personalmente, alla fine genera ansia e frustrazione: è da un po' di anni che mi ritrovo a preferire vacanze in luoghi già conosciuti, così da non sentire questa pressione a “performare” anche sull'itinerario di viaggio.

E poi succede un'altra cosa: quando si esce dalla strada già scelta - per esempio, in Turchia, quando abbiamo fatto un road trip spontaneo in zone meno battute da turisti - si vivono forse i momenti migliori. Anche qui, è personale. Però forse l'assenza di aspettative aiuta a godersi il viaggio.

 In generale, quest'anno ho viaggiato tanto in Perù e in America Latina, e spesso mi sono sorti gli stessi quesiti posti dalla newsletter: privilegio, gentrificazione, impatti climatici e appropriazioni culturali. Non sono questioni risolte o risolvibili, soprattutto se si desidera continuare a viaggiare.

Però, avendo l'opportunità di esplorare un paese anche nei suoi angoli più remoti - e senza la presunzione di aver visto tutto e di essere andata poi così tanto “off the beaten track” - ho potuto perdere sempre di più “controllo, igiene e standardizzazione”, che sono un po' difficili da mantenere nel mezzo della foresta tropicale, dove sei in mano a chi ti guida e ti lavi nello stesso fiume da cui bevi l'acqua. Anche qui, forse uno stereotipo, ma va bene così.”

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