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LA NEWSLETTER DEL GIOVEDÌ DI ANDREA BATILLA
PARIGI FASHION WEEK UOMO GENNAIO 2025
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Dire che lo streetwear è morto è un pò come dire che è morto il cinema o è morta la poesia. Sono cose che si dicono quando non si riesce a spiegare un fenomeno, un cambiamento. O meglio, quando ci si rifiuta di capire le ragioni profonde di un cambiamento. Lo streetwear non può morire perché è un modo di concepire l’abbigliamento radicato da un secolo nella nostra società. E non solo.
Ormai è anche difficile mantenere una separazione netta tra formale classico e streetwear o sportswear o workwear. Per quanto alcuni ancora tentino di mantenerli divisi, il meccanismo della loro fusione è qualcosa di inarrestabile.
È innegabile che il fenomeno dello streetwear abbia avuto una bolla in termini commerciali e che siano emerse figure, come quella di Virgil Abloh, con una capacità comunicativa tale da oscurare tutto il prima e parte del dopo. Ma è anche vero che in questo momento le cose hanno ripreso un corso regolare e il confronto sano tra alto e basso, tra abbigliamento formale e da tempo libero, è rientrato in una forma di bilanciamento dinamico.
Questo dinamismo è soprattutto visibile tra l’approccio al design europeo e quello giapponese. Mentre i designer occidentali, come abbiamo visto a Milano, stanno cercando di dinamizzare il formale maschile, rendendolo più adatto ai tempi per trasportarlo lontano dall’esibizione del machismo, i brand giapponesi, storicamente vicini allo streetwear stanno facendo un viaggio a ritroso nell’autenticità.
La moda giapponese lavora da sempre sulla relazione che nel corso dei decenni la cultura nipponica ha costruito con quella occidentale. La storia è lunga e complessa e se ne volete sapere di più leggetevi l’incredibile libro Ametora di David Marx che la racconta nel dettaglio.
In generale si può dire che per una serie di ragioni storiche, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, il Giappone è diventato un osservatorio privilegiato dell’estetica occidentale, in modo particolare di quella della moda. L’insularità e la distanza fisica e culturale dei designer giapponesi hanno permesso di avere uno sguardo ad un tempo estremamente rispettoso e critico della storia della moda occidentale.
Se Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo hanno dissezionato il vestire femminile, smontandolo e ricostruendolo, gente come Jun Takahashi con Undercover o Nigo con A Bathing Ape hanno esplorato l’abbigliamento maschile nella sua interezza, dal formale allo sportswear tecnico, passando ovviamente per il gigantesco mondo dello streetwear.
Storicamente fanno riferimento a due diversi sistemi di abbigliamento, l’Ivy League e l’Heavy Duty che oggi chiameremmo formale e workwear ma che in Giappone non esistevano prima di essere importati dagli Stati Uniti. Quello che vediamo oggi è il risultato di un’elaborazione lunga e approfondita di un modo di vestire e di vivere che è stato affrontato come uno studio ornitologico: a distanza, in silenzio, con amore e grande attenzione.
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