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Sostenere i giovani, oggi

Spoiler: servono i soldi e l’esposizione mediatica, e funziona come ieri, quando i giovani si chiamavano Saint Laurent e Lagerfeld.

Quando presentò la sua candidatura all’International Woolmark Prize, corredata da un bozzetto di vestito da realizzare con l’omonima lana australiana, Yves Saint Laurent aveva 16 anni, e viveva ancora a Orano, nell’Algeria Francese dove era nato. Era il 1953, e quel premio si chiamava ancora International Wool Secretariat’s design competition (che poi era il nome originale, con il quale la competizione era stata battezzata nel 1936). L’obiettivo era sponsorizzare l’utilizzo della fibra presso i giovani talenti, capaci di vedere oltre il semplice tessile, e produrre creazioni immaginifiche: di base, permettere alla lana di accedere nell’empireo delle maison, mostrandone in una competizione per giovani designer, le capacità di adattabilità. Della giuria di quell’anno, facevano parte nomi poi divenuti leggendari, sopravvissuti alla loro morte terrena, traslati su maison tra le più importanti al mondo: Christian Dior e Hubert de Givenchy.

Stupiti dal talento precoce del giovane Saint Laurent, gli attribuirono il terzo premio, che gli fu consegnato a Parigi. Fu per questo motivo che il designer si recò per la prima volta nella Cité lumière, iniziando la più lunga storia d’amore della sua vita, quella con un luogo del cui stile è divenuto simbolo. L’anno successivo quando Saint Laurent inoltrò di nuovo la sua candidatura, aveva un anno in più e uno sfidante con il quale poi avrebbe battagliato in maniere diverse –per la gloria, per l’amore– per tutta la vita: aveva 21 anni e si chiamava Karl Lagerfeld (se non conoscete i dettagli della loro storia parallela, il consiglio è di recuperare subito il bellissimo libro The Beautiful fall (Si apre in una nuova finestra)di Alicia Drake, che non è mai stato tradotto in italiano). La competizione però trovò il modo di riconoscere il talento di entrambi: a Karl Lagerfeld andò il premio per il miglior cappotto in lana, a Saint Laurent quello per il miglior vestito. Quella competizione non fu solo un primo tentativo di immaginarsi stilisti, ma anche una vera occasione capace, come nelle Sliding Doors del film omonimo, di cambiare la vita: Christian Dior, che aveva già notato il giovane Saint Laurent l’anno prima, gli chiese di andare a lavorare da lui. Il giovane aveva appena 18 anni, e la sua vita di lì a breve sarebbe per sempre cambiata. Una convergenza quasi parallela che toccò anche a Karl Lagerfeld: dopo averne visto le capacità, uno dei giudici, Pierre Balmain, lo assunse, e addirittura ne mise in produzione il cappotto oggetto della competizione.

Yves Saint Laurent nel 1954 con il vestito che gli fece vincere il premio dell'International Wool Secretariat Design competition, courtesy: The Woolmark Company

Il Woolmark International Prize , negli anni precedenti, aveva intravisto per primo anche il talento di un altro che poi, nelle decadi successive, sarebbe stato considerato un “venerato maestro”: era un Valentino Garavani ancora adolescente quello che vinse il primo premio. Nel 1950, a seguito di quel riconoscimento, fu la maison de couture di Jean Dessès a proporgli un lavoro, e dare formalmente inizio alla sua carriera. Scrivo tutto questo all’alba della finale del Woolmark International Prize alla quale sono stata invitata stasera (ieri sera, per voi che leggerete domani), che si terrà a Milano, al Palazzo del Ghiaccio. I giornalisti, designer e alcuni ospiti avranno modo di vedere le collezioni dei finalisti – tra quelli di quest’anno c’è anche il nostro Luca Lin con il suo brand Act N°1, oltre a nomi già noti tra gli addetti ai lavori, da Duran Lantink a Diotima, passando per Luar, LGN Louis Gabriel Enouchi, Ester Manas, Meryll Rogge e Standing Ground (le foto delle creazioni dei finalisti saranno inviate ai giornalisti alla fine della serata, quindi purtroppo al momento nel quale scrivo non sono ancora in mio possesso, ndr) Il vincitore, selezionato da una compagine di giudici che non ha nulla da invidiare a quella degli Anni 50 – c’é Donatella Versace come presidente, ma anche il giornalista Tim Blanks, gli stylist delle stelle Ib Kamara e Law Roach, o il direttore creativo di Zegna, Alessandro Sartori, tra gli altri – si aggiudicherà 300 mila dollari australiani, che verranno utilizzati per lo sviluppo del business. L’evento è un perfetto esempio di come sia possibile, nel pratico, per gli enti che organizzano questi eventi, utilizzare i proventi dei propri rigogliosi affari (così come fa Lvmh con il suo LVMH Prize) investendoli sul futuro, garantendo una certa autorevolezza, e anche una rilevanza mediatica non solo ai selezionati finalisti, ma anche al proprio prodotto, in questo caso, la lana merino. Inoltre, mettere a contatto i finalisti con una giuria di rilievo, fatta di addetti ai lavori, stilisti, giornalisti, vuol dire esporli a un pubblico d’eccezione, a una “rete” che ha i mezzi e le capacità di offrir loro delle opportunità capaci di cambiare la vita, come è successo a Karl Lagerfeld, Yves Saint Laurent e Valentino Garavani.

In Italia, purtroppo ci sono pochi esempi del genere ( il Who’s on Next, voluto fortemente da Franca Sozzani, è stato sospeso poco dopo la sua scomparsa): in generale, anche quando le istituzioni vogliono premiare o mettere in mostra i giovani talenti del settore, i premi monetari hanno un ammontare abbastanza ridicolo se paragonati alle necessità di un giovane brand, che ha bisogno di investire per strutturarsi, nella comunicazione e nella catena di produzione. Ed è un peccato, perché sostenere i propri talenti – che in Italia abbondano, non abbiamo bisogno di importare giovani designer dall’estero, come quando Trussardi ebbe la “geniale” idea di far guidare il brand al duo dei GMBH, dando il colpo di grazia a un brand che economicamente era già in difficoltà – vuol dire pensare a un futuro nel quale i grandi creativi che hanno fondato l’idea del made in Italy, non saranno più qui, e dovranno essere sostituiti da qualcuno. E quel qualcuno, verosimilmente, non dovrà essere solo dotato di evidente talento, così come della conoscenza del territorio italiano, ma dovrà aver avuto anche l’opportunità di capire come, nella pratica, si gestisce un brand, per poi giocare ad armi pari con tutti i merchandiser e i marketing manager che tenteranno di soverchiarne il ruolo. Se ci si pensa, Giorgio Armani ha fondato il suo brand a 40 anni, dopo aver fatto per anni esperienza di gestione altrove, e aver sviluppato la maturità per poter guidare un progetto da solista.

Karl Lagerfeld e il capotto con il quale vinse l'edizione del 1954, courtesy: The Woolmark Company

Per questo, da giornalista, è necessario promuovere questi eventi, metterli all’attenzione del pubblico: non si tratta di notizie come altre volte a riempire una pagina, ma sono il barometro dei tempi che viviamo (come in passato, il Prize di LVMH ha portato all’attenzione del mondo nomi come quelli di Setchu, Magliano e Veronica Leoni, che poi sono stati notati dai brand e dal resto del fashion system). Un caposaldo che per me è fondamentale da sempre, e che mi ha concesso, dal mio osservatorio di certo privilegiato – in quanto giornalista con delle comunicazioni stampa che arrivano prima che altrove, sul mio account di posta – di vedere con un certo anticipo ciò che sarebbe successo poi, e portarmi avanti. Mentre scriviamo, proprio l’ LVMH Prize ha annunciato che tra i suoi finalisti (Si apre in una nuova finestra)ci sarà l’italiano Francesco Murano. Il mio ruolo è quello quindi di riportare certe realtà, e di conseguenza, senza scendere nella partigianeria, fare la mia parte nel sostenerli (sempre per quel discorso della rilevanza culturale della scorsa newsletter).

Molti giornalisti stranieri sono assai meno equilibrati, e da tempo si impegnano in questa lotta senza quartiere per sostenere i propri connazionali, altrimenti non si spiegherebbe l’acrimonia con la quale la compagine anglo-americana ha cassato ogni collezione di Sabato De Sarno da Gucci, non mancando mai invece di trovare parole di elogio per l’altrimenti incomprensibile lavoro fatto da Kim Jones da Fendi ( e che evidentemente non funzionava, sennò la partnership non sarebbe finita dopo 4 anni). Qui, insomma, si fa la nostra parte verso il sostegno delle nuove generazioni di italiani, senza tradire l’obiettivo primo: informare i lettori. Pensando al futuro, ché, in fondo, ci metterà davvero poco ad arrivare, è sarà meglio farsi trovare pronti.

We are the fashion pack

The tortured audiovisivo’s department

  • Ma di che cosa parla Careless people, (Si apre in una nuova finestra) il libro al terzo posto di vendite su Amazon negli States, di cui Meta cerca di bloccare la diffusione?

  • Adolescence ha attratto l’attenzione anche di Elon Musk, che, ovviamente, sta cercando di fare disinformazione anche su quello. Wow. (Si apre in una nuova finestra)

  • Ogni tanto cerco qualche special di stand up comedy su Netflix per deprimermi pensando ai comici medi italiani. Ho scelto The feeling, l’ultimo di Chelsea Handler. E mi sono tremendamente depressa. Ovviamente

  • Su Prime video ho noleggiato The room next door di Pedro Almodovar con Tilda Swinton e Julianne Moore (è l’ultimo lungometraggio del regista). Si percepisce subito l’avvicinamento di Almodovar al mondo delle maison ( Julianne Moore è un cartellone pubblicitario vivente di Bottega Veneta):la fotografia e l’uso dei colori sono i suoi, seppur educati a un gusto meno camp. Il resto, semplicemente non c’è più, e nonostante le grandi performance delle protagoniste, sembra che il regista che faceva tremare la Spagna degli Anni 80 con i suoi film scandalosi e controversi, si sia, semplicemente, imborghesito

  • Film di cui forse non abbiamo bisogno: l’annunciata tetralogia di Sam Mendes sui Beatles, (Si apre in una nuova finestra)coi 4 protagonisti scelti non certo tra le giovani promesse sconosciute, ma tra gli attori più pop-sensation del momento: Harris Dickinson ( John Lennon), Barry Keoghan (Ringo Starr), Paul Mescal ( Paul McCartney) e, unica eccezione, l’adorabile Joseph Quinn (chi non ricorda il suo leggendario Eddie Munson in Stranger Things è sulla newsletter sbagliata)

Official soundtrack della settimana

https://www.youtube.com/watch?v=486uBfNPkQw (Si apre in una nuova finestra)

Il genere musicale che odio più di tutti è la canzone neomelodica. Non perché mi senta migliore di qualcuno o sia una radical chic, ma perché credo che quella tipologia di musica sia il sottoprodotto liofilizzato di una tradizione, quella del folklore, molto più complessa e storicamente stratificata di una canzone di Geolier sulla quale pure la gente si accapiglia. Il napoletano secondo molti linguisti (io non sono linguista, ma sono d’accordo, se interessa) ha la stessa dignità dell’italiano. E se però lo vogliamo usare, recuperiamone anche i temi ancestrali, le influenze e le commistioni mediorientali, l’immaginario mistico: è esattamente quello che fa la mia nuova crush musicale, La Niña, che ha pubblicato il 21 marzo il suo secondo album, Furesta. La Niña, al secolo Carola Moccia, classe 1991, è la dimostrazione che per cantare in dialetto non devi necessariamente avere un casellario penale noto alle forze dell’ordine, non devi fingere una street credibility: devi semplicemente aver studiato il posto dal quale vieni, aver incrociato i tuoi sentimenti e il tuo vissuto con fonti altre (Carola Moccia non ha frequentato l’università della vita, ma si è laureata in filosofia alla Federico II di Napoli), e possibilmente aver studiato anche musica. Il risultato è un’artista rivoluzionaria, con un impatto estetico fortissimo, una direzione artistica assai precisa, che, sinceramente, mi aspetto di vedere ovunque da qui a sei mesi. E se lo meriterebbe anche.

Per oggi abbiamo concluso qui, ci vediamo la prossima settimana. Nel frattempo ci teniamo aggiornati su Instagram, e tra le pagine de Linkiesta Etc. A presto.

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