Perché del Coachella non interessa più a nessuno

Il festival musicale nella valle californiana omonima avrà luogo questo weekend. I media, però, ne parlano sempre meno, anche se sicuramente a breve il nostro feed sarà invaso da foto di influencer e celebrities in outfit culturalmente inappropriati. Cosa può insegnarci tutta questa (triste) storia.
Quando, nel 1999, agli organizzatori del Coachella Valley Music and Arts Festival – il pomposo titolo esteso – venne in testa l’idea di organizzare un weekend di musica nel terreno dell’Empire Polo Club (400 ettari di area verde), la scelta ricadde su quel luogo perché qualche anno prima, nel 1993, i Pearl Jam ci avevano fatto un concerto. Eddie Vedder e soci avevano opzionato lo spazio in protesta con Ticketmaster, che voleva proporre la band nelle venue di Los Angeles con prezzi rincarati all’impossibile (certe abitudini (Si apre in una nuova finestra), insomma, dalle parti di Ticketmaster le hanno sempre avute). Paul Tollett e Rick Van Santen, i due responsabili dell’invasione dei nostri feed, ogni maledetto aprile, guardavano ai grandi eventi europei (il Glastonbury Festival su tutti) e volevano ricrearne l’atmosfera di ritrovo artistico, togliendovi la melma nella quale abbiamo visto affondare gli Hunter boots di Kate Moss così tante volte, e aggiungendovi il sole e il clima californiano, molto più gradevoli. La gestazione fu complessa, ma di successo: alla prima edizione si esibirono Beck, i Tool, i Race against the machine, gli Underworld, i Chemical Brothers e Morrissey tra gli altri.
Nello stesso anno, era andato in scena il concerto commemorativo di Woodstock, che invece era finito molto peggio, tra incidenti, atti di violenza, furti, addirittura stupri. L’epiteto di festival “anti-Woodstock” affiliato al Coachella – ovviamente, un complimento – non fu dovuto al fatto che gli organizzatori misero a disposizione gratuita dei partecipanti fontane di acqua, bagni ampi puliti diverse volte durante la giornata, o tende con sistema di nebulizzazione dove potersi rinfrescare, ma sopratutto al fatto che i musicisti presenti in cartellone fossero stati espressamente scelti per la loro caratura artistica, più che per la loro popolarità radiofonica. Prezzo dell’ammissione: 50 dollari al giorno.
https://www.youtube.com/watch?v=_I0zYHil4D8 (Si apre in una nuova finestra)Fast forward a 26 anni dopo: l’evento così nato è divenuto un cartellone pantagruelico che abbraccia Lady Gaga e i Green Day, Post Malone e Charlie XCX, il biglietto base parte da 549 euro, fino ad arrivare ai 1069 per il Vip pass, con accesso ad aree esclusive, e la moda, manco a dirlo, presidia la valle in maniera diretta e indiretta. Diretta perché sono in molti i brand che al Coachella dispongono di un loro stand, o realizzano capsule o eventi dedicati, da Levi’s a Guess passando per Revolve (Si apre in una nuova finestra), e-commerce statunitense con una propria line-up all’interno degli spazi del festival, con aree a cui si accede solo su invito (ovviamente a essere invitati sono spesso solo gli influencer che saranno pagati per realizzare i contenuti). Il risultato è tramutare un evento nato con ben altro scopo, cioè quello di incontrare gente con gli stessi gusti musicali, sperando di ampliarne la portata con la scoperta di nuove band o cantanti da seguire, in una sorta di “Olimpiadi per influencer”: le ha chiamate così la podcaster Linda Cuadros sul Time (Si apre in una nuova finestra), sottolineando come la musica sia il contorno, e non più il piatto principale dell’evento.
In maniera indiretta, la moda è comunque presente: secondo qualche strano ragionamento, la giuria popolare ha deciso che per andare al Coachella ci si veste come se si fosse appena uscite dallo Spahn Ranch di Charles Manson nel 1969, senza gli intenti omicidi. Fiori tra i capelli, gilet con le frange, stivali texani in suede con una temperatura di 25 gradi, cardigan floreali ricamati che ricordano le presine per le pentole a casa della nonna, insomma boho-chic (lo chic è discutibile ma non ci soffermeremo qui sull’onomastica del termine). Folkloristico, quando non proprio offensivo: questo articolo della CNN (Si apre in una nuova finestra)del 2022 mette in lista tutti gli outfit e gli accessori considerabili a pieno titolo come appropriazione culturale, negli anni. Ci sono i bindi di Vanessa Hudgens, gli anelli da naso con catena (tipici dell’Asia del Sud e dell’India) di Kendall Jenner, i copricapo di piume dei Nativi Americani sfoggiati da Alessandra Ambrosio nel 2014. Certo, la sensibilità rispetto all’utilizzo improprio di accessori nati in altre culture, con altri valori – culture storicamente dominate dal colonialismo europeo, quando non proprio eradicate, come con i Nativi Americani – si è sviluppata negli ultimi anni in maniera più consistente.
https://www.youtube.com/shorts/4xuLb2wBgJg (Si apre in una nuova finestra)E però se già dal 2014 il Glastonbury festival ha vietato la vendita di accessori del genere negli stand dell’evento, ci è voluto molto di più perché quel senso minimo del decoro divenisse elemento condiviso anche dal Coachella. I problemi col Coachella però, hanno a che fare non solo con gli influencer e la moda, che pure hanno colonizzato l’evento, ma anche con una generica perdita d’identità, sacrificata sull’altare del successo commerciale.Non è un peccato capitale di per sé scegliere artisti pop o meno di nicchia (l’anno scorso c’era Lana Del Rey, è arrivata a bordo di un chopper, ha fatto un duetto con Billie Eilish ed è stato tutto sensazionale). Certo, lo spirito originale non c’è più, ma è in fondo comprensibile dal punto di vista economico, anche se discutibile. Il problema è che tramutare l’evento in un’occasione alla quale recarsi “per moda” più che per passione – atteggiamento trans-generazionale che nulla ha a che fare con l’età dei partecipanti quanto con i valori del singolo – si traduce in un minore interesse per gli artisti che su quel palco saliranno. L’anno scorso, quando tra gli invitati c’erano i Blur, Damon Albarn non è riuscito a far cantare al pubblico – che, evidentemente, lo ignorava – il ritornello di Boys and girls, forse una delle canzoni più note della band, tanto da spazientirsi sul finale ed erompere in un “Non ci rivedrete mai più quindi potreste sforzarvi di cantarla, cazzo” (è il video sopra).
L’accusa di elitismo e prezzi fuori dalla portata dei comuni mortali – altra dolente caratteristica che differisce dalle origini – è stata parzialmente superata dal fatto che i concerti possono essere seguiti in diretta su YouTube, anche se i problemi tecnici a volte hanno reso la visione spiacevole a livello acustico: si ricordano tutti dell’esibizione molto sponsorizzata di Frank Ocean del 2023 che finì in un disastro (Si apre in una nuova finestra) , mentre lo scorso anno Grimes ha dovuto più volte interrompere il dj set per problemi tecnici. Un’epopea triste di un evento “nato incendiario e morto pompiere”, che rassomiglia molto alla parabola che il sistema della moda e dei conglomerati stanno vivendo negli ultimi anni. Appropriarsi (o acquistare) un brand, che nasce con un pubblico specifico, per quanto limitato, e liquefarne i significati – con lo scopo ovvio di moltiplicarne i fatturati –può di certo portare nel breve termine a raggiungere un pubblico maggiore (che però non è garantito abbia le capacità economiche per possederlo) ma ne sgretola dolorosamente il capitale di rilevanza culturale - sempre lei, ne sono evidentemente ossessionata–, che magari quel brand ha costruito in 50,70, 100 anni di storia. A sopravvivere, sarà un account Instagram di certo molto seguito e commentato, nel bene e nel male, dei prodotti senz’anima pensati da merchandiser che inseguono le tendenze di TikTok e un brand di cui nessuno ricorda più il senso d’esistere. E allora, a cosa sarà servito divenire (solo un po’) più ricchi? Anche perché con quei soldi e dividendi, nessuno potrà ricomprare la reputazione perduta. E il conto finale sarà molto più salato del previsto.
We are the fashion pack
La London fashion week di giugno è stata ufficialmente cancellata (Si apre in una nuova finestra). Tutti a Parigi per la prossima.
Una volta gli stilisti “senza portafoglio” facevano consulenze per il fast fashion facendo ben attenzione a non farlo sapere. Oggi, ci fanno su i comunicati. Era necessario? (Si apre in una nuova finestra)
Nella sezione “era necessario” è obbligatorio inserire anche Adam Selman, nominato direttore creativo di Victoria’s Secrets (Si apre in una nuova finestra). A latere farei una bella riflessione sul perché, anche quando si tratta di disegnare mutande e balconcini da donna, si riescano a scegliere degli uomini, ma non vorrei sembrare polemica
Stilisti che si dimettono presso loro stessi: leggere alla voce Alexandre Vauthier (Si apre in una nuova finestra)
In Cina la Gen Z si fa fare servizi fotografici a tema maternità, (Si apre in una nuova finestra) pur senza essere “in dolce attesa”. Okkeii…
Il Fashion Trust US, la fondazione che concede premi ai brand operativi negli Stati Uniti, ha riconosciuto il talento di (Si apre in una nuova finestra) Nana Kwame Adusei di Kwame Adusei e di Rachel Scott, fondatrice del brand Diotima, della quale avevo già parlato in passato e che era presente come finalista ai Woolmark Prize. Un talento da sostenere assolutamente.
The tortured audio visivo’s department
Zendaya sarà Ronnie Spector (Si apre in una nuova finestra) nel biopic dedicato alle Ronettes, il trio al femminile anni ‘60 di Be my baby. Ci riserviamo il giudizio sul casting dopo aver visto il film
Un sequel che invece non vedo l’ora di vedere: quello di C’era una volta a…Hollywood (Si apre in una nuova finestra), scritto dal regista dell’originale, Quentin Tarantino, e diretto da David Fincher ( e certo, ci sarà anche Brad Pitt)
Una seconda serie che invece aspettavo da tanto: quella di Taboo, (Si apre in una nuova finestra) nella quale Tom Hardy interpreta un avventuriero inglese che torna a casa dall’Africa nel 1814, dopo che tutti lo credevano morto. E torna avvolto da mille voci che lo vogliono stregone, cannibale, selvaggio etc etc. Tom Hardy può vendermi tutto, e questa serie era di per sé davvero notevole
Oltre a Da rockstar a assassino: il caso Cantat, del quale ho già parlato sui social per la sua capacità di colpirmi, per la serie comedy special che mi fanno deprimere perché penso a ciò che abbiamo in Italia, su Netflix ho visto il crowd work special di Matt Rife: Lucid. Una tipologia di stand up Comedy per la quale il protagonista interagisce col pubblico e con lui costruisce lo show. Come prevedibile, ne sono uscita depressa
Dall’11 aprile Normal People torna su Rai Play (Si apre in una nuova finestra). Non è un’esercitazione, ripeto, non è un’esercitazione
Official soundtrack della settimana
https://www.youtube.com/watch?v=6Kjz89xYmS4 (Si apre in una nuova finestra)La mia battaglia per contrastare il predominio mediatico delle Haim, considerate universalmente come l’unico gruppo femminile meritevole di attenzione (Si apre in una nuova finestra), continua anche questa settimana. Le Wet Leg sono un duo, formato da Rhian Teasdale e Hester Chambers, nato sull’isola di Wight (iconicità già dalla fondazione) nel 2019. Le loro influenze passano dai White Stripes – si sente tutto, lo garantisco – a Pj Harvey passando per gli Strokes, fanno post-punk, e non gli interessa minimamente di divenire la vostra “girl crush” con abiti a fiorellini, vendendovi sfighe sentimentali che difficilmente sono loro capitate ( sì, sorelle Haim, sto parlando di voi) perché, semplicemente, sono nate già attrezzate dai geni e dalla “cazzimma”. Nel singolo appena uscito Catch these fists, che anticipa il prossimo album Moisturizer, in arrivo a luglio, cantano“I don’t want your love, I just wanna fight” che è una frase del testo ma potrebbe anche essere serenamente il riassunto della mia vita sentimentale. Per questo e altri motivi meno opinabili, mi sento di dire che le Wet Leg hanno il mio voto, ora e per sempre.
E per oggi ci salutiamo, ci rivediamo presto dal vivo a Front Row con Veronica Leoni e poi, nuove e scoppiettanti novità ancora da annunciare. A presto, G.