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Quando abbiamo smesso di prestare attenzione?

L’audience italiano – e poi, meno comprensibilmente, i media – sono trasecolati di fronte a un musicista che è attivo da dieci anni. Ma come e perché gli artisti (di ogni campo, moda compresa) fuori dai “soliti circoli” restano a lungo sconosciuti al pubblico? Secondo l’Atlantic non è (solo) colpa nostra.

Questo non è un articolo dedicato a Lucio Corsi (anche se personalmente sono felicissima dell’accoglienza che il pubblico italiano gli ha riservato) ma alla nostra incapacità – come lettori, e più colpevolmente come giornalisti – di intercettare il presente.

La colpa, di certo, è dell’attention economy imposta dai social: nel tentativo di massimizzare il tempo che passiamo sulle piattaforme – un dato che poi si rivenderà a chi su quelle piattaforme vuole pubblicizzare il proprio prodotto – i proprietari dei social strutturano e premiano spesso uno specifico tipo di contenuti: più vacui e insignificanti sono, meglio è. Brevi, brevissimi, di modo da non farci annoiare mai. Nel 2020 la giornalista Lisa Iotti ci aveva scritto un libro edito dal Saggiatore, 8 secondi (Si apre in una nuova finestra). Il titolo era riferimento a una ricerca di Microsoft Canada del 2015 ( qui (Si apre in una nuova finestra) un pezzo dedicato alla questione dal Time) che stabiliva come, dall’inizio del 2000 il nostro tasso d’attenzione medio fosse sceso da 12 a 8 secondi (9 sono quelli impiegati dai pesci rossi, per fare un paragone). Abbiamo in tasca un rettangolo nel quale è disponibile tutto lo scibile umano, e però, siamo divenuti incapaci di scoprirlo, vagliarlo, contro-interrogarlo. Un dato che è divenuto lampante quando il pubblico italiano intero – insieme a una classe giornalistica/televisiva che pareva tirata fuori dalla naftalina per l’occasione – ha urlato all’apparizione mariana di fronte a un artista che è sicuramente eccezionale, ma che calca palchi e incide dischi da più di 10 anni.

Sicuramente, è lecito dire che siamo meno inclini ad approfondire, nell’ansia di accumulare quanti più reel inconsistenti possibili visti all’interno di una giornata. Nello stesso modo è possibile affermare che diventa più complesso scoprire artisti nuovi – in ogni campo – se i media non ne parlano a dovere. E se i media non ne parlano a dovere è spesso dovuto al fatto che l’artista non è arruolato da una qualche maison, vestito in un total look, opportunamente inoltrato per mail alla stampa.

Mahmood in Prada al Festival di Sanremo, credits: Prada.

Se si parla strettamente di musica però, che consumiamo molto spesso attraverso piattaforme come Spotify, l’Atlantic ha una risposta più approfondita. In un pezzo uscito qualche giorno fa The paradox of music discovery, the Spotify way (Si apre in una nuova finestra) (si legge su abbonamento, il migliore mai contratto nella mia vita) il giornalista Brad Shoup parte dal libro di recente uscita di Liz Pelly Mood machine: the rise of Spotify and the costs of the perfect playlist (disponibile solo in inglese) per analizzare il perché è sempre più difficile trovare nuovi artisti che ci piacciano, che non siano simili a quelli che ascoltiamo già. Senza andare nello specifico spiega che le playlist di Spotify, introdotte inizialmente nel 2015 e oggi moltiplicatesi in Discover Weekly, o i sei consigli personalizzati giornalieri che arrivano a tutti gli utenti, si sono trasformate già nel 2017, con un approccio che mescolava l’impronta umana – tramite curatori selezionati – a quella dell’algoritmo. E la presenza di algoritmi si è fatta sempre più importante nel tempo: la conseguenza è che la sezione “Creato per te” ci presenta principalmente artisti che conosciamo già, o artisti assai simili a quelli che conosciamo già. Nulla a che fare con la scoperta di nuove sonorità da noi distanti e che però, chissà, potrebbero aprirci a nuovi mondi inesplorati.

I Coma_Cose a Sanremo in un look Valentino della collezione Pavillon des Folies, credits: Valentino/SGP Italia

La colpa non è quindi solo dell’utente disattento o con una soglia dell’attenzione più bassa rispetto al passato, ma anche delle istituzioni tecnologiche a cui ci affidiamo per indirizzare al meglio i nostri gusti personali. Un problema che si ripresenta, in maniera ancora più critica, quando si parla di moda. Al netto del fatto che non esiste a oggi nel fashion system un succedaneo di Spotify, che immagazzini brand e collezioni e ci proponga, a seconda delle nostre scelte precedenti, altri brand e collezioni che possano incontrare la nostra approvazione ( se esiste fatemelo sapere, forse qui si è solo molto vecchi), gli utenti si trovano a dover fare affidamento ai media classici, e alle loro iterazioni social. E i media istituzionali sono oggi più in difficoltà che mai nel fare quello che dovrebbe essere il loro mestiere: la ricerca delle nuove tendenze, lo scouting dei nuovi talenti di cui sicuramente sentiremo parlare.

Un problema che nasce per motivi variegati: c’è l’assottigliamento degli organici delle redazioni di fronte a un carico di lavoro maggiorato, che viene diviso tra sempre meno persone; una pletora variegata di collaboratori esterni pagati pochissimo per produrre quanti più contenuti virali possibili, quindi pochi approfondimenti e molte micro news che lasciano il tempo che trovano; l’attenzione spesso centrata esclusivamente sui grossi brand, che investono in pagine pubblicitarie, a sfavore di chi è ancora troppo giovane per potersi permettere quel tipo di investimento. E così succede che nomi lontani dai radar dei mass media – che quegli stessi mass media hanno ignorato per ignavia, per burnout, per mancanza di tempo o curiosità – a un certo punto arrivano sul palcoscenico nazionale o internazionale, stupendo i lettori, che di loro non avevano mai letto da nessuna parte (non perché fossero attenti meno dei pesci rossi ma perché di loro nessuno o quasi si era mai dato la pena di scrivere con costanza, e in maniera approfondita, non limitandosi al trafiletto di cortesia).

https://www.youtube.com/watch?v=UmgT-rF-XKY (Si apre in una nuova finestra)

sopra: la sfilata Fall 2025 di Calvin Klein disegnata da Veronica Leoni, designer italiana nota per il suo brand Quira

Le cose stanno cambiando? La mia personale opinione – che vale pochissimo, ma è la mia newsletter quindi ve la dirò comunque – è che in Italia i giornali delle case editrici più note si stanno fortunatamente rendendo conto che la rilevanza culturale, anche nell’era disgraziata dei social media, poco ha a che fare con la popolarità, il numero dei follower o la viralità momentanea di un reel. Che scrivere degli stessi brand di cui scrivono anche tutti gli altri, ricopiando spesso il comunicato stampa con un facile copia e incolla, perché manca il tempo per fare un discorso qualitativamente valido, non è più in nessun modo una strategia visionaria. Che, a far come tutti gli altri, si rischia di diventare come tutti gli altri, indistinguibili da un altro settimanale, da un altro mensile. E però adesso toccherà fare uno sforzo comune: da una parte, ai giornali, toccherà ripensare la propria presenza e il loro ancoramento al presente (magari finalmente promuovendo a ruoli di rilievo i più giovani, che quel presente lo vivono tutti i giorni).

Ai lettori poco abituati a orientarsi nei dedali effettivamente perniciosi del web – i millennial sono stati l’ultima generazione che ha potuto imparare l’arte di ottenere informazioni difficili da recuperare, in un mondo nel quale non tutto era ancora a portata di smartphone – toccherà esercitare il dovere alla curiosità, non accontentarsi della prima informazione passata dal giornale dal nome altisonante, ma continuare a cercare, allontanandosi dal classico seminato e scandagliando i fondali inesplorati di riviste/account meno noti e però attenti a delineare i contorni dell’oggi.

La scoperta, e l’adrenalina che l’accompagna, è, in fondo, solo a qualche clic di distanza.

SPECIAL ANNOUNCEMENT

La seconda puntata di Front Row arriva lunedì prossimo ( il 24 febbraio) dal vivo al Teatro Franco Parenti, con Niccolò Pasqualetti e Sabrina Mandelli come ospiti: trovate i biglietti qui (Si apre in una nuova finestra)

Il 28 invece se siete sempre a Milano, potete venire in Marangoni, dove io e Andrea Batilla saremo presenti dalle 12:30 alle 13:30 per un talk di un’ora dal titolo From print to podcast: fashion commentary in the digital age. Il talk è aperto anche a chi non frequenta l’istituto, basta iscriversi qui (Si apre in una nuova finestra). Se invece non siete a Milano potete comunque seguire l’evento in streaming dal profilo di Istituto Marangoni Milano (Si apre in una nuova finestra)

We are the fashion pack

  • Il brand capace di far parlare di sé per tutto, meno che per i vestiti, ci riprova: Coperni sfilerà (Si apre in una nuova finestra) durante la fashion week di Parigi (il 9 marzo) all’interno dell’Adidas Arena di recente costruzione. Per 24 ore la location ospiterà un LAN (local area network) party, durante il quale diversi gamer si sfideranno dal vivo

  • Sara Moschini ha intervistato su Grazia.it (Si apre in una nuova finestra) Bella Freud, la conduttrice del podcast Fashion Neurosis, nel quale vanno a confessare le loro dicotomie e ossessioni tutti gli stilisti che contano

  • Gosha Rubchinskiy, direttore creativo di Yeezy, annuncia la sua dipartita dal brand (Si apre in una nuova finestra) : l’obiettivo è tornare a concentrarsi sulla sua linea eponima, la stessa che aveva subito una battuta d’arresto nel 2018, quando il designer era stato accusato di aver richiesto a un sedicenne delle sue foto in intimo via dm di Instagram (il legale che lo rappresentava all’epoca aveva comunque detto che gli street casting ormai si fanno su Ig ed è normale chiedere foto del genere, per “comprendere il volume dei fianchi”…okkei). Se vi foste persi questa storia, qui c’è un bel pezzo di GQ Usa (Si apre in una nuova finestra) che riflette sui valori morali a corrente alternata della moda

  • Tra i semifinalisti dell’Lvmh Prize c’è anche il nostro Francesco Murano (Si apre in una nuova finestra). Come lo scorso anno, si potrà votare per mandarlo in finale. Vi tengo aggiornati

  • Dopo l’addio di Benedetta Petruzzo, divenuta managing director di Dior, Miu Miu nomina il nuovo ceo: è sempre una donna e si tratta di Silvia Onofri (Si apre in una nuova finestra), che ha contributo al riposizionamento di Napapijri

Special section: Au bonheur des dames

Ndr: Sezione non fissa, il cui titolo è ispirato all’omonimo romanzo di Émile Zola, in italiano noto come Al paradiso delle signore ( giusto per fare un pò di show off culturale totalmente non richiesto), dove si segnaleranno eventuali, imperdibili, svendite

  • Il 23 febbraio a Milano, dalle 11 di mattina alle 7 di sera, all’interno di Alef Lab, si terrà la quarta edizione del Merca.tiamo, con una curata selezione di pezzi d’archivio e pre-loved. Trovate tutte le info qui (Si apre in una nuova finestra)

The tortured audiovisivo’s department

  • Su Prime video si può noleggiare Juror #2, ultimo film di Clint Eastwood, che arrivato a 94 anni ci regala una pellicola chiaroscurale, piena di interrogativi sulla giustizia e il senso del dovere. Insomma, un film di quelli che si facevano una volta, e oggi si vedono molto poco. Da recuperare

  • Sul profilo YouTube di SNL (Si apre in una nuova finestra)potete ritrovare tutti gli sketch andati in onda nello speciale dedicato ai 50 anni di Saturday Night Live. Il mio preferito rimane quello con protagonista Domingo (ci sono anche Pedro Pascal, Sabrina Carpenter e Bad Bunny, per dire due nomi a caso)

  • Al cinema Arlecchino a Milano ho recuperato il Nosferatu di Eggers, con Lily Rose, Nicholas Hoult etc etc. Si potrebbe scrivere un intero libro su tutto ciò che c’è di sbagliato in quel film a livello di “mostrificazione” (Nosferatu è il male, ma il male da sempre ci attrae e respinge, mentre il povero Skarskgard è talmente repellente che è difficile comprendere come la protagonista possa sentirsene attratta). Su Prime video però trovate Nosferatu - Il principe della notte firmato da Werner Herzog ( del 1979). Il protagonista non è Gary Oldman nel film di Coppola, ma è di certo un personaggio che vive con una certa malinconia e profondità il suo destino. Se ve la sentite, recuperatelo

  • Ho visto The apprentice – Alle origini di Trump, che si può noleggiare su Apple TV, Prime o Now Tv: nonostante i miei timori che la pellicola con Sebastian Stan umanizzasse l’inquietante inquilino della Casa Bianca, il film riesce a fare un lavoro dignitoso nel mostrare la sua famiglia disfunzionale, senza mai esentarlo da un giudizio durissimo. Ad un certo punto ho scambiato Stan per il Trump vero, per dire la verosimiglianza.

Official soundtrack della settimana

https://www.youtube.com/watch?v=wZ2njttY3BA (Si apre in una nuova finestra)

(Per la cartella: sonorità lontane da quelle che ascolto di solito e che mi sono imposta di esplorare).

Fka Twigs gioca un altro campionato, in più di un senso: la 37enne inglese usa da sempre il corpo non per sollecitare il desiderio nell’occhio dello spettatore – come fanno consapevolmente e legittimamente molte pop star – ma come strumento artistico. Questo lo sapevamo già prima del lancio di Eusexua, il suo nuovo album, rilasciato il 24 gennaio scorso, ma in questa occasione si supera: il concept album ispirato alla musica vissuta, ma soprattutto ballata, ai rave, si ammanta di un’aura trip-hop, house, techno, con video che sono short movies. Altro merito? Quello di collaborare spesso con brand giovani – così come ha fatto e continua a fare Lady Gaga – facendo loro realizzare abiti custom. In Striptease il vestito è del brand italiano The Attico, mentre nel video di Eusexua, title track dell’album, appare un look firmato da Andreadamo. Pensate che la techno e la dance non siano esattamente il vostro genere? Think again, perché Fka Twigs potrebbe farvi cambiare idea.

Per questa settimana è tutto, se sopravvivo alla prossima fashion week e alla seconda puntata di Front Row, ci rivediamo qui, oppure tra le pagine de Linkiesta Etc (Si apre in una nuova finestra).

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