Calcerò #04 - Bassa intensità
L'hype dei social, le magliette dei fuoriclasse sulle spalle dei ragazzini, una ricerca i cui il totale dei tifosi è il 101%: quale tifoso per il calcio europeo d'élite di domani?
Ciao a tutti,
questo quarto numero di Calcerò-Il futuro del pallone vi raggiunge a maggio, mese dei finali di stagione e delle finali di coppa, e allora godiamoci venti giorni ricchissimi: questa sera la finale di Coppa Italia a Roma, sabato 14 quella di FA Cup a Londra, poi mercoledì 18 l’Europa League a Siviglia, sabato 21 la Women’s Champions League a Torino, mercoledì 25 la Conference (con la Roma) a Tirana, sabato 28 la Champions a Parigi. Piatto ricchissimo.
Ho assistito in loco sia all’ultima vittoria in Champions del Real Madrid (2017) sia all’ultima del Liverpool (2019) e You’ll never walk alone di questo link è stato filmato alle 23.14 dell'1 giugno 2019. Stadio Metropolitano zeppo. Emozionante, vero? (Si apre in una nuova finestra)
Ecco: il titolo della newsletter di questo mese, però, è “bassa intensità”. Cosa c’entra?
Palla al centro.
Io vivo a Hong Kong. Un bambino/ragazzo di Hong Kong mette indifferentemente la maglietta del Milan, dell’Inter, del Man Utd e del Real Madrid e segue i calciatori, non le squadre. E manco sa chi sono i titolari della rappresentazione di Hong Kong.
Il messaggio di cui sopra me l’ha inviato Carlo Pizzigoni (Si apre in una nuova finestra) qualche giorno fa. Gli era giunto da un suo contatto di Hong Kong a seguito di un discorso sul futuro del tifo uscito nel corso della diretta della Fiera del Calcio dello scorso 2 maggio su Twitch. Non ricordo nemmeno come si fosse entrati in argomento, ma il ragionamento aveva prodotto diversi commenti da parte degli utenti. Si parlava appunto di tendenze e della futura identità del “tifoso modello” – inteso questo termine in un’accezione non etica ma semiotica – prediletto dai club. Si parla dei club europei d’élite, di quelli che mirano a disputare ogni anno il torneo più iconico (la Champions, insomma), che vogliono permettersi le maggiori stelle del gioco e proiettano la loro ragion d’essere economico-finanziaria sul mercato commerciale e di broadcasting internazionale. Roba di cui trent’anni fa (quando peraltro la Serie A era il campionato di più alto lignaggio in Europa) avremmo riso: quanti di noi ultraquarantenni, agli inizi e per anni, si sono ostinati a chiamare la Champions League ancora “Coppa dei Campioni”, disprezzando il nuovo nome senza per questo abbandonare il torneo, anzi, seguendolo con ancora più gusto? Il rebranding è appunto del 1992 e, ormai, nessuno più ne parla con il nome del passato, figurarsi coloro che cos’era e com’era la Coppa dei Campioni d’antan nemmeno lo sanno.
Bene: da allora il torneo, che è stato più volte rimodellato, è cresciuto a dismisura sotto qualsiasi punto di vista. Quando la Coppa dei Campioni divenne Champions League aveva 37 anni di età, ora dal rebranding ne sono passati già 30. Eppure gli ultimi quindici anni sono stati molto più veloci e hanno cambiato la fruizione del calcio ben più rispetto ai 52 precedenti: l’esplosione dei diritti di broadcasting, il web a disposizione di tutti, gli smartphone, i social, la riassestamento degli equilibri geopolitici, il prepotente ingresso di mercati prima inesistenti (e la lista potrebbe proseguire) hanno contribuito e stanno ancora contribuendo a ridefinire il panorama. Anche quello del tifo.
Inseriti come siamo in ecosistemi informativi nei quali tendiamo umanamente a confermare o confutare le nostre opinioni confrontandoci con riferimenti non troppo dissimili da noi (a livello anagrafico, professionale, sociale), inevitabilmente qualcosa ci sfugge – pure a chi scrive, ça va sans dire – e, probabilmente, anche il mutamento nella domanda dell’appassionato di calcio. Pensiamo che il tifo sia immutabile, che sia solo questione di identità, di comunità perché così lo abbiamo sperimentato e ci è piaciuto: sappiamo, e lo sappiamo a ragion veduta, che il calcio non è nulla senza la cornice, ma la cornice sta cambiando, e a certi livelli, anche per questioni di costi, è stata già costretta a cambiare.
Nel settembre 2020, prima insomma che Andrea Agnelli diventasse il nemico numero 1 dell’UEFA, l’ECA aveva pubblicato una ricerca, intitolata “Fan of the future”, realizzata intervistando 14 mila persone (definiti "consumatori primari") su sette diversi mercati, «da quelli con campionati nazionali dominanti e fan accaniti (Regno Unito, Spagna e Germania) ad altri mercati meno concentrati (Polonia e Paesi Bassi), sino a mercati non europei dove con una diversa storia di fandom calcistico (India e Brasile)». La ricerca, che si può recuperare integralmente qui (Si apre in una nuova finestra), esprime risultati interessanti, non racconta tutto, ma una parte significativa di come si sta evolvendo la base degli appassionati – in senso cronologico, non darwiniano – sì. I dati relativi alle quattro tipologie evidenziate dallo studio sono abbastanza chiari*:
(* al netto di un ridicolo arrotondamento dei decimali che porta il totale a un grottesco 101%. Ci avevate fatto caso?)
Ecco, tralasciamo il 101% per carità di ragionamento (e del resto cosa aspettarsi da chi comunicò la Superlega in quel modo?). Club loyalists, i fedelissimi insomma, e football fanatics raggiungono il 25% degli interessati, con un 38% di main eventers e tag alongs (rispettivamente i fan moderati che si interessano alle grandi manifestazioni e quelli il cui interesse deriva dal livello di passione dei loro affetti) e un 38% distribuito tra interessati che seguono per non essere esclusi (i FOMO, moderati ma aggiornati) e altri che sono principalmente seguaci di un calciatore. Tipicamente i fan-follower di Ronaldo, Messi, Neymar, Mbappé e di tutti i calciatori che sono ormai anche dei brand e che la disintermediazione dei social ha contribuito a lanciare a livelli stratosferici, generando nei tifosi anche l'equivoco di interagire davvero con loro.
Ora, come per molti sondaggi, qui è chiaro l’interesse del committente, ma non bisogna fare l’errore di buttare i risultati partendo da questo preconcetto. Si intravede, nella ricerca, un’idea futuribile nella quale è possibile individuare un “tifoso modello” delle grandi competizioni, appunto, a bassa intensità: meno radicato, più internazionale, meno “pericoloso” (qui le virgolette sono d’obbligo per restringere il senso, ma è evidente che ai club piaccia di più chi porta soldi e non problemi), attratto dalla possibilità di essere investito una tantum dalla polvere di stelle, interessato dalla potenza simbolica di un’esperienza dal vivo rara perché più di una volta ogni tanto, specie se vuole portarsi la famiglia, non può permetterselo. Un tifoso ancora minoritario, ma che prende sempre più piede. Anche, in parte, sugli spalti, perché la geografia degli stadi sta mutando: settori con prezzi sempre meno popolari, un maggior spazio dedicato al pubblico solvente (basta andare indietro di pochi anni e in Italia gli skybox non esistevano), politiche che mirano a disincentivare un po’ dovunque il tifo come lo abbiamo conosciuto sinora. Un mutamento di abitudini scelte e indotte – se vogliamo, anche antropologico – che da tempo va in una direzione. Non è ineluttabile, non è completo e non potrà fortunatamente mai esserlo, non è ancora assolutizzabile, ma è già concretamente visibile.
In qualche modo, lo possiamo vedere anche nella Champions League attuale: il “tifoso modello” è il tifoso ideale che la competizione richiede, quello che monta e celebra l’evento commentando a lungo sui social durante e dopo la gara, che magari non è tifoso delle squadre in campo ma ha la maglia del grande club o del fuoriclasse e la usa per giocare a calcetto (o la compra ai figli), quello che ne aumenta l’hype perché è attratto dallo spettacolo, che una volta l'anno il partitone se lo va a vedere spendendo parecchio, perché sa che se ne parlerà e non vuole restare indietro, e pazienza se non conosce granché o nulla della storia dei club, se non conosce i cori degli ultras. Sono, siamo, tanti di noi, perché il “tifoso modello” della Champions corrisponde solo parzialmente al tifoso reale, ma è un’entità interna alla narrazione della competizione, quello al quale la competizione mira perché il suo comportamento ne assicura, in questo schema, la globalità e la profittabilità molto più rispetto al tifoso identitario. Qui, infatti, c’è la differenza tra il “lettore reale” di un testo e il “tifoso reale”: se, in un testo, non è detto che il “lettore reale” disponga di tutte le competenze richieste, buona parte dei tifosi reali attuali tutte le competenze, anche quelle storiche, le hanno, ma al “tifoso modello” non è richiesto di sapere chi siano stati Joe Corrigan o Michel per twittare ossessivamente su Real Madrid-Manchester City, perché a livello di marketing non serve. Conta essere pro o contro Guardiola, riconoscere alla prima occhiata Grealish, lodare il tocco di Modric o la magia di Benzema e magari venire tardivamente a conoscenza delle qualità di Vinicius Junior, a prescindere dal fatto che sia a Madrid già dal 2018.
Occhio, perché la questione non riguarda solo il tifoso di Hong Kong di cui sopra o quello comunque extraeuropeo, come si potrebbe pensare. Anche in Italia, per esempio, anni fa vedere ragazzini indossare le maglie di club stranieri era rarissimo, oggi è la normalità, in città come in provincia. Se Panini esce e fa successo con l’album Fifa 365 non si può pensare che sia un caso, e di certo è più facile che i più giovani conoscano in maggior numero i nomi dei componenti della rosa dell’Atletico Madrid piuttosto che le squadre che hanno partecipato all’ultima Serie B, per dire. La loro domanda di calcio quando potranno spendere sarà probabilmente diversa, anche perché nell’ultracapitalismo calcistico è l’offerta a modificare la domanda attraverso strategie ben precise. Allo stesso modo, l’hype social generato da certe gare d’élite anche in coloro che si ritengono tifosi di un determinato club (non in gioco) conferma che la strategia, al momento, paga.
Che sia un bene o un male, che possa aggradarci o meno, che le radici siano considerate fondamentali o non lo debbano essere affatto, non è questo il punto della discussione, almeno non qui: ognuno ha diritto di avere la propria idea e anche le proprie incoerenze (come si possa ad esempio conciliare la difesa tribale dei colori di una squadra e di una città, come si trattasse di una battaglia, con il cosmopolitismo nel resto dei campi della vita, è un paradosso che solo lo sport può contemperare), così come ognuno ha diritto di seguire il calcio come vuole e per come gli interessa. Ma se il mutamento verso quella direzione in parte già si nota, forse sarebbe anche utile che chi non ha saputo indirizzarlo verso la propria (e penso al tifo organizzato) si faccia qualche domanda e si dia risposte diverse da quelle che ha dato sinora.
CAMPO PER DESTINAZIONE
L’ho citata in apertura, ma cos’è La Fiera del Calcio? Si tratta di un canale Twitch gratuito nel quale ogni lunedì, a partire dalle 10 e per 5-6 ore – ma a pieno regime la diretta sarà dalle 10 alle 20 – si può ragionare di pallone con raziocinio e competenza, serietà e leggerezza, anche di temi profondi (come questo appunto) che magari fanno meno audience. Il format l’hanno ideato Carlo Pizzigoni e Luca Momblano e il canale cresce giorno dopo giorno. Tanti sono gli ospiti già intervenuti, altri ne arriveranno. La trovate qui (Si apre in una nuova finestra) (partecipo anche io).
Citare il termine “battaglia”, in coda all’articolo, non è un caso: per quanto difficile da trovare, l’invito è quello di cercare in biblioteca Descrizione di una battaglia di Alessandro Dal Lago, sociologo che ci ha lasciato un mese e mezzo fa, dove si racconta proprio il tifo che ai grandissimi club probabilmente non interessa più, ma sul quale hanno campato per decenni. Descrizione di una battaglia e, insieme, La tribù del calcio di Desmond Morris, ci aiutano a capire perché, in definitiva, un certo tifo non sparirà mai perché è connesso al calcio ed è parte integrante della sua storia.
Triplice fischio anche oggi.
Chiunque volesse suggerire, contestare, contribuire, correggere, segnalare, può scrivermi direttamente qui: calcero.newsletter@lorenzolonghi.com (Si apre in una nuova finestra)
Ci si rilegge l’11 giugno!
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