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L’occasione persa del Met Gala

Un falò delle vanità carico di buone intenzioni, e povero di valore, l’ultima edizione del Met Gala ha mostrato il definitivo distacco tra la Hollywood di ogni colore, e il mondo reale (con qualche ammirevole eccezione).

L’unico tra le celebrities ad aver capito il compito (importante) che aveva a questo Met Gala è stato Lewis Hamilton. E non solo perché, insieme a Colman Domingo, Pharrell e A$AP Rocky, fungeva da co-chair dell’evento. Però per scoprire il come e il perché di questa affermazione vi toccherà arrivare alla fine di questo pezzo. Per adesso, vi basti sapere che il rapporto della comunità nera col dandismo (il tema della mostra del Met Superfine:tailoring black style li poneva al centro della scena) nasce in maniera assai problematica, anche se, per ignoranza o per vanità, a molti piace pensare che l’avvicinamento della comunità a uno stile di abbigliamento flamboyant, vistoso, sia avvenuto per una semplice affinità elettiva. Se genericamente riportiamo l’origine del dandismo a Beau Brummell – gentiluomo anglofono dalle frequentazioni regali e assoluto arbiter elegantiarum nell’Inghilterra degli anni della Reggenza, sulla fine del 1700 – per la comunità nera quella storia inizia in maniera molto più drammatica, ossia quando, negli anni dello schiavismo, gli schiavi vengono “vestiti da dandy” dai loro padroni, che, considerando la comunità nera alla stregua di un bene da sfoggiare, si occupa di vestirli in maniera eclettica, per farsi notare di più dai propri pari, schiavisti bianchi. Non lo dico io, lo spiega uno tra i più prominenti dandy attualmente esistenti della comunità nera, Dapper Dan, in questo episodio del podcast Please Explain, realizzato da Complex.

https://www.youtube.com/watch?v=zs8TsvuHajU&list=PLNE967m3_UeQ5ZAPmHo-znVKXkOi26NPM&index=3 (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

In questo senso prende tutto un altro significato il nome del libro della professoressa della Columbia University Monica Miller, una storia socio-culturale del dandismo black sulla quale si è basata poi la mostra del Met di cui è stata eccezionalmente co-curator. Slaves to Fashion: Black Dandyism and the Styling of Black Diasporic Identity (Duke University Press, 2009) analizza come l’intera comunità nera, finita l’era dello schiavismo abbia deciso di riappropriarsi di quella narrativa così carica di dolore, farla propria, controllarla, e sfidare i pregiudizi razziali (la stessa cosa che in Congo faranno poi i Sapeur, ma questa la spiego dopo). Non ha quindi nulla a che fare con la semplice apparenza del vestito in sé, ma con quello che quel vestito rappresenta (vestirsi è lanciare dei messaggi, a prescindere dal fatto che chi indossa quei vestiti lo sappia o meno, quindi forse è meglio saperlo per regolarsi di conseguenza). Il problema col dandismo, per la comunità nera però è anche un altro, e lo spiega sempre nello stesso video Dapper Dan (che ieri (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) era presente con un abito da lui disegnato sul cui significato torniamo sempre dopo): vestirsi in maniera eclettica, con colori accesi e stampe all-over, paramenti di piume, pellicce, e velluti in abbondanza, oggi come ieri – uno ieri che va indietro fino al momento storico della Grande Rinuncia maschile (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) a cui contribuì molto proprio Beau Brummell – era considerato appannaggio della comunità gay. Di conseguenza anche gli uomini neri – che vengono da una comunità marginalizzata e discriminata, ma hanno introiettato lo stesso sistema di valori patriarcale di tutti gli altri uomini di qualunque colore – avevano timore ad avvicinarsi a quello stile, perché il dazio da pagare era “l’onta” di essere scambiato per omosessuale. Vestirsi da dandy, nei primi anni 20 del secolo scorso, richiedeva quindi una dose di coraggio ulteriore, a cui non tutti erano pronti. Potevano esimersi da questo terrore solo gli artisti, che, per esigenze sceniche, dovevano sfoggiare outfit che rimanessero nella memoria comune, come lo Zoot suit di Cab Calloway, e poi, dopo, Miles Davis e Prince.

E però, alcune comunità nere, negli Anni 20 e 30, hanno deciso che quei vestiti li avrebbero indossati lo stesso, e li avrebbero indossati meglio di chi, solo 60 anni prima, li aveva costretti a farlo: è il caso dei Sapeur, controcultura che nasce a Brazzaville, in Congo, proprio in quegli anni. I Sapeur prendono il loro nome dalla “società” di cui fanno parte, la SAPE ( acronimo che sta per Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes): si muovono per le strade di Brazzaville ma pure di Kinshasa, ostentando i loro abiti comprati a Parigi, assimilando e al contempo rivoluzionando l’arte del vestire europea. Qui (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) c’è un bel pezzo dell’Internazionale a firma dello scrittore Alain Mabanckou nel quale l’autore spiega “Il sapeur, proprio come lo scrittore della negritudine, si pone in competizione con il colono: se l’europeo non è in grado di portare gli abiti che fabbrica, il sapeur saprà metterne in luce il valore”: è ancora aperto oggi, il dibattito sull’origine reale dei Sapeur.

Amelia Gray con look Valentino , calze in pizzo rosso e guanti in pizzo nero. Courtesy Valentino

C’è chi sostiene che sia stata una risposta controversa alla colonizzazione (i Sapeur, sempre secondo Mabanckou, erano comunque preoccupati dall’incarnato della propria pelle, che cercavano di sbiancare con creme ad hoc) mentre altri propendono per l’idea di un’ossessione estetica autoctona, che si è originata prima della tremenda calata dei bianchi, e ne è quindi completamente indipendente. Il documento fotografico più importante che abbiamo ad oggi è Gentemen of Bacongo, libro di culto di Daniele Tamagni, fotografo scomparso prematuramente nel 2017 . I Sapeur sono stati celebrati qualche anno fa da un video di Solange Knowles, Losing You, a cui Tamagni aveva collaborato, così come da Kendrick Lamar, che nel video di All the Stars con SZA , si pone sullo sfondo di quello che sembra una baraccopoli, circondato da uomini e donne vestiti da Sapeur.

Colman Domingo con mantello lungo plissettato blu con bolero in lino avorio, arricchito da ricami di paillettes oro chiaro e argento con dettagli argento antico e piume avorio, Valentino courtesy Valentino

Un discorso quello sui Sapeur e il loro abbigliamento, carico di significati contrapposti, che si potrebbe fare per diversi oggetti che sono poi divenuti sinonimi della cultura vestimentaria nera, dagli Zoot suit (al Met ne indossava una versione simile all’originale il tiktoker italiano Khaby Lame, invitato di Boss) al total black che era invece identità stilistica delle Black Panther. E proprio l’edizione 2025 del Met Gala, la più politica di tutte (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), secondo il New York Times – realizzata in un momento nel quale il presidente Trump, non invitato all’evento, sta obbligando molte istituzioni ad abbandonare le proprie politiche relative a inclusione e diversity – poteva essere una buona occasione perché le star presenti, aiutate dai brand, potessero portare di nuovo, con forza, sul palco, quei messaggi di rivendicazione d’identità oggi più necessari che mai.

Speranze vane, e che ci configurano come anime pie che ancora poco hanno capito dei meccanismi che regolano il mondo di Hollywood. Sulla moda eravamo già abbastanza disillusi: in tempi recenti, a parte alcune eccezioni, il mondo dei conglomerati che producono sogni e vestiti si è dimostrato totalmente incapace di prendere posizioni che non sembrassero piegate a qualche trend o a qualche prodotto da vendere, e pure quando lo (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)ha fatto, il cringe è sempre stato dietro l’angolo. D’altronde Bernard Arnault, patron di LVMH, era presente all’insediamento di Trump a gennaio e ha già ribadito come “l’aria che si respira in America è carica di ottimismo”. Il fondatore del conglomerato non ha partecipato all’evento, anche se Louis Vuitton era tra i principali sponsor di quest’edizione: va detto Arnault non va al Met Gala dal 1996, e che, in sua vece c’era invece Pietro Beccari, amministratore delegato di Louis Vuitton. Per quanto riguarda i look della maggior parte degli ospiti presenti – persone nere comprese, sì, persino l’eroina dell’Internet Zendaya – sono stati per lo più rassicuranti completi sartoriali (e d’altronde il dress code, più ampio della mostra, era Tailored for you), mentre alcuni tra gli invitati hanno optato per degli omaggi a personaggi di spicco della comunità. Quello di Colman Domingo, in cappa Valentino, è sembrato un richiamo abbastanza evidente alla cappa blu sfoggiata anni fa da André Leon Talley, primo uomo afroamericano a divenire direttore creativo di Vogue. Gigi Hadid ha omaggiato un abito di Josephine Baker, Megan Thee Stallion anche, e via discorrendo. Lana Del Rey ha fatto Lana Del Rey, con Alessandro Michele al suo fianco e dei fermagli a forma di coccodrillo, reminder al marito Jeremy Dufrene, e va bene anche così. Peggio è andata a Sabrina Carpenter, letteralmente in mutande, perché Pharrell (direttore creativo di Louis Vuitton uomo, co-chair di questo Met, ed eccezionalmente autore dei look delle ambassador Vuitton di questa occasione), secondo quanto dichiarato dalla stessa Carpenter le ha detto “sei già bassa, non ti puoi mettere i pantaloni”. Beccati questa, body neutrality. Sul frangente Pharrell, però, la menzione speciale in materia “distacco dalla realtà e dove trovarlo” va alla cantante Lisa, in mutande Louis Vuitton anche lei (e però con delle calze nere velate con logo), e con uno slip nero in vista su cui si ricamava nientepopodimeno che Rosa Parks.

Gabrielle Union e Dwayne Wade in Prada, courtesy Prada

Look che, a voler essere gentili, liquefano e rendono pop ( e quindi inoffensivi) motivi e volti che invece non devono essere relegati a fondale di un paio di slip in pizzo, considerato soprattutto che le istanze per le quali si battevano, le pustole del razzismo con le quali hanno lottato tutta la vita, sono ancora lì, in bella vista. Certo, sarà colpa del brain rot e della fine dell’Internet, come dice Silvia Schirinzi su Rivista Studio (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), che ci impedisce, nell’infinito scroll del feed, di interessarci davvero di qualcosa, di farci delle domande che durino più dei 15 secondi di una story, di chiederci se era davvero necessario che persone bianche indossassero il durag (il foulard storicamente usato dagli afro-americani e che spesso è stato oggetto di contestazioni, tipo quando la NFL nel 1995 considerò di bandirne l’uso tra i suoi giocatori, in quanto, secondo loro, era associato alla violenza delle gang). D’altronde, se inviti anche persone bianche a un evento che celebra lo stile della comunità nera, il rischio di appropriazione culturale è dietro l’angolo: essendo l’evento una valorizzazione dell’eredità stilistica della comunità al discorso dello stile, certe regole non scritte devono essere sospese, una tantum? Qual è il punto di celebrare un passato glorioso e ribelle, se non lo si usa per inquadrare meglio il presente? A dare lezione in questo caso è stato proprio Dapper Dan, il cui impatto sulla comunità nera è evidente. Lo stilista da poco ottantenne ha indossato un completo da lui realizzato, con un motivo stampato, la sankofa, che è emblema della diaspora. Una parola, sankofa, che in lingua ghanese vuol dire sostanzialmente “torna a prenderlo”. Lo stesso Dapper Dan ha commentato con Vogue (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) la sua scelta. «Significa ricordare quello che è successo: portarlo con sé. Non solo noi – i neri, i bianchi, tutti. Non possiamo affrontare ciò che è cambiato nella nostra società fin quando non torniamo indietro e capiamo tutto ciò che ci ha portato qui».

https://www.youtube.com/watch?v=bLGO0LTPYgM (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)


Gli altri ospiti, pur se equipaggiati della rete per informarsi e del linguaggio dell’attivismo digitale nel quale sembrano essere tutti assai fluenti, non sono stati alla sua altezza. A indossare dei designer neri giovani, esponenti di una wave contemporanea – una maniera come un’altra per testimoniare con un atto pratico una sorta di fratellanza e vicinanza alla causa, dando a quei brand una piattaforma pubblicitaria che non possono permettersi altrimenti – sono stati pochissimi. Jordan Roth ha indossato Laquan Smith, mentre il pilota Lewis Hamilton, co-chair della serata, ha sfoggiato un look di Grace Wales Bonner, tra i più eccezionali talenti della moda contemporanea, di origine anglo-giamaicana (lo stesso brand l’ha sfoggiato FKA Twigs). Certo, si può dire che le meccaniche che regolano il Met limitano di moltissimo le scelte degli ospiti: di solito, sono i grandi brand ad acquistare il tavolo (che quest’anno viaggiava sulla cifra monstre di 350 k) e poi invitare amici e ambassador del brand, alla condizione non scritta che, appunto, gli ospiti scelgano di indossare abiti della maison che ha pagato il biglietto d’ingresso per loro. Ma è davvero una scusa sufficiente? Forse no, e a dimostrarlo c’è proprio l’esempio di Lewis Hamilton: la star della F1, da sempre sinceramente appassionata di moda, nella sua vita quotidiana alterna agli accordi pubblicitari con le maison – nel passato ce ne sono stati con Valentino, ma pure con Tommy Hilfiger – con outfit di brand ben più giovani, che di certo non hanno soldi per ricompensare la visibilità che lui può loro regalare (indossa spesso Magliano, tra l’altro).

Se a questo Met la sua funzione di co-chair gli garantiva una certa libertà nella scelta dell’outfit, in passato Hamilton è andato oltre. Nel 2021 per poter dare spazio e visibilità a designer neri senza dover sottostare alle leggi del fashion System, ha messo mano al portafoglio (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)sborsando di tasca sua 250 mila euro, per poter acquistare l’intero tavolo, e far sedere con sé designer che altrimenti a quell’evento non avrebbero mai potuto presenziare. Disse a Vogue (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) all’epoca: Il Met è il più grande evento di moda dell'anno e volevo creare qualcosa che fosse significativo e che aprisse un dibattito. Così quando la gente ci vedrà tutti insieme, metterà questi designer neri (Theophilio, Kenneth Nicholson e Jason Rembert, ndr) in cima ai pensieri delle persone. Viviamo in un momento in cui la diversità e l'inclusione sono molto importanti, ed è per questo che ho fondato la mia Hamilton Commission all'interno del mio stesso sport — ha concluso. Mi sono reso conto che tutto ciò è molto simile al settore della moda. Molti giovani marchi e designer non hanno le stesse opportunità, quindi questo è ciò che mi ha davvero entusiasmato.

Rihanna in Marc Jacobs

Una lezione che dovrebbero seguire anche le altre celeb, a cui di certo non difetta il portafoglio, quanto la volontà. La mera presenza, nel 2025 nel quale la presidenza americana e gli estremismi del mondo cercano di cancellare i diritti basici acquisiti con lotte cruente, non può più bastare a definirli come “alleati” di cause a cui si dicono, a parole, vicinissimi (quello che basta per ottenere titoli sui giornali e accordi di sponsorizzazione, perché anche l’attivismo è una moneta con la quale oggi ci si compra la rilevanza). La moda di oggi, fatta da conglomerati finanziari, esercita un riflesso pavloviano quando tenta di inglobare in sé le differenze, le lotte, rendendole innocue ed estetizzandole. Il compito di chi ha il potere mediatico per partecipare a quegli eventi può e deve essere quello di non rinunciare ai propri valori, per, letteralmente “un posto al tavolo”. Bisogna volerlo, quel tavolo, anche per tutti gli altri, oppure farlo saltare, come ha fatto Hamilton. Altrimenti non cambierà mai niente, e questi eventi, che hanno le migliori intenzioni e una mossa che di certo varrà la pena visitare, rimarranno vacue dichiarazioni di vanità, più che di appartenenza. E dei falò dei narcisismi delle star, nel 2025, non ha bisogno proprio nessuno.

Ci risentiamo giovedì prossimo, G.

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