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Zara ha fatto la muta

Direttori creativi che hanno fatto la storia assunti come consulenti; top model che fronteggiano le campagne e ci dicono che “non bisogna più vergognarsi di comprare Zara”; direttrici di giornali patinati ospiti ai podcast: come il brand di fast fashion ha cambiato identità, cancellando la concorrenza (e tutti i brand di fascia premium).

Questo pezzo è la trascrizione della puntata 4 della terza stagione della Teoria della Moda, uscita lo scorso anno dedicata allo sviluppo del fast fashion e a come Zara sia stata capace di cambiare faccia, tramutandosi in un brand autorevole al punto da poter avere il beneplacito dei magazine patinati quando, la settimana scorsa, ha festeggiato il suo cinquantesimo anniversario con un progetto curato da Steven Meisel con 50 modelle (se siete più a vostro agio con i podcast il link è qui (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)). Per citare gli altri nomi che hanno preso parte a questo progetto, e che ricordano per grandeur quelli delle sfilate di Dior di John Galliano, il trucco è curato da Pat McGrath; i capelli da Guido Palau; la direzione artistica da Jason Duzansky; il casting da Piergiorgio Del Moro: tutti collaboratori di lunga data di Meisel. A prescindere dal team all-star, a livello di primati storici, si può sostenere che questa storia delle 50 modelle per i 50 anni – neanche particolarmente originale, per carità– l’aveva già fatto un po’ meglio Vogue Italia per i suoi 50 anni, nel 2014, usando tra l’altro sempre Meisel. Questa puntata di “ripasso” non serve soltanto a dire narcisisticamente che certi cambiamenti li si era percepiti prima degli altri – ok, forse un po’ – quanto per spiegarvi come le evoluzioni della moda si muovano sotterranee (ma si muovono, se si è bravi a intercettarle) per poi presentarsi a noi nella loro forma completa, con una nuova identità che ci pare, tutto sommato, congrua. E invece il cambio pelle è stato totale.

Prima di iniziare, va fatto un piccolo riassunto: Zara si è inizialmente imposta fuori dalla Spagna della fondazione come brand low-cost, con prontisti che replicavano fedelmente le copie degli abiti in passerella, sbaragliando, con i suoi prezzi irrisori, la concorrenza di brand della fascia premium. Brand che oggi si ritrovano spesso negli outlet, i cui prezzi finali corrispondevano nella maggior parte dei casi a una filiera corta, che sosteneva le aziende manifatturiere locali (in Italia quella fascia è particolarmente ampia, e va da Benetton e Sisley nella parte bassa per passare tramite brand di cui oggi ci ricordiamo a malapena il nome, tipo Patrizia Pepe, Pennyblack, Marella). Poi, quando gli utili miliardari sono arrivati, alcuni decenni dopo, Zara li ha investiti per costruire un’immagine che ne validasse una certa autorevolezza, totalmente assente agli inizi: assunzione di direttori creativi e top model che arrivano dal reame del fashion System vero e proprio capaci di veicolare un’immagine più “alta” della deprecabile dicitura “fast fashion”, tanto per dirne una, così come talk sulla moda con personaggi che di Zara non si sono mai vestiti, come la ex direttrice di Vogue Paris, Carine Roitfield. Tutte personalità di spicco convinte probabilmente a più miti consigli dagli assegni generosi che il gruppo Inditex, di cui Zara fa parte, può staccare. Ma non bruciamo le tappe, è tutto scritto qui sotto, buona lettura.

Eva Herzigova nella nuova campagna di Zara, courtesy Zara

Smascherato il vero costo del fast fashion: inizia così il periodico report sulla circolarità redatto dal sito di rivendita di second hand Vestiaire collective, che elenca, comprensibilmente, tutti i motivi per i quali è più economico acquistare pezzi anche di grossi brand, già stati possesso di qualcun altro, piuttosto che acquistare prodotti nuovi di pacca, a basso costo e scarsa qualità. Pubblicato in occasione del Giorno della Terra, il 22 aprile (2024), i dati evidenziano una nuova unità di misura per tracciare la vera rilevanza dei capi che abbiamo nel nostro armadio: il costo per utilizzo, un valore risultante dal prezzo di un articolo, meno il suo valore di rivendita, diviso per il numero di volte in cui viene indossato.Lo studio dimostra che, se utilizzati sulla base di questo valore, i capi di seconda mano saranno più economici del 33% nel lungo periodo rispetto ad articoli di fast fashion nuovi. Addirittura, un paio di scarpe di seconda mano permette di risparmiare quasi il 50% del costo di un paio di scarpe di un marchio di fast fashion.

https://www.youtube.com/watch?v=5IoxGEt9fpg (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Tra l’altro, secondo i dati raccolti attraverso la propria community, Vestiaire Collective sostiene che, se il 60% degli indumenti di fast fashion finisce in discarica a un anno dall’acquisto, quelli second hand hanno una vita più lunga del 31%, ossia durano nei nostri armadi fino ad 1,4 anni in più. I vestiti second hand ad esempio vengono indossati 71 volte contro le 9 volte di quelli fast fashion, i cappotti vengono utilizzati 4 volte di più dei loro succedanei di bassa qualità, le borse acquistate su Vestiaire Collective vengono indossate il 45% di volte in più.Dall’altra parte, però, se viene molto spinto dalla coscienza collettiva l’acquisto di capi di grandi brand pre-loved, in quanto di maggiore qualità, chi tramite il fast fashion è divenuto milionario, e parliamo qui di Zara che ha reso il suo fondatore Amancio Ortega uno degli uomini più ricchi del mondo, il primo in Spagna, oggi cerca di riposizionarsi agli occhi dei consumatori tramite un sensibile aumento dei prezzi, ma soprattutto, un cambio di immagine.

Nel pezzo Can the fast fashion giants Zara rebrand as luxury?, (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) scritto per il Washington Post a fine aprile, la giornalista Rachel Tasjhan racconta degli sforzi del gruppo Inditex, che possiede Zara, per trasformarsi in un brand percepito come di alta gamma. Per farlo, ha assoldato i migliori professionisti del settore, da cui si fa firmare campagne venate di un sofisticato minimalismo che potrebbero benissimo essere scambiate, solo a guardare le immagini, per foto di una maison. Nell’ultima campagna della sua collezione SRPLS, ad esempio, a curare lo styling è Karl Templer che ha firmato editoriali per Arena Homme, Vogue Italia nell’era Sozzani, e campagne per brand come Valentino. Templer è tra l’altro anche consulente per l’abbigliamento, soprattutto per la linea Studio, quella che ha i prezzi più alti. A scattare le foto è invece Craig McDean. Nomi che a oggi hanno dei costi che i magazine, anche quelli mainstream, non possono più permettersi, mentre i giganti del fast fashion hanno il portafoglio abbastanza pieno per pagare.

Il negozio Zara all'Operà a Parigi, aperto nel 1990, courtesy Zara

Il loro intervento stilistico ha un potere trasformativo perché nobilita – pur se solo sulla carta – quei vestiti. La stessa Linda Evangelista, che ha posato per alcune campagne di Zara fotografata dal sodale Steven Meisel – due nomi, i loro che hanno scritto la storia della moda e del costume – ha ammesso con parole riportate nell’intervista che “non bisogna vergognarsi di indossarli” e che anzi, lei possiede diversi pezzi che le sono stati regalati dopo la sua campagna per loro nel 2023, e che ne ha comprati di tasca sua diversi altri, anche perché, parole di Linda Evangelista “ i prezzi del lusso tradizionale sono divenuti irraggiungibili. Posso comprare alcune giacche in pelle se le prendo da Zara, mentre se dovessi acquistarle da delle maison, senza fare nomi, potrei non permettermelo”. Dichiarazioni uscite dalla bocca della donna famosa per aver detto “non mi alzo dal letto per meno di 10 mila dollari” che tentano di smarcare il fast fashion da una serie di preconcetti, e che nel pezzo trovano l’approvazione di altri esperti del settore, come il famoso hairstylist Guido Palau, che ha curato le acconciature di alcune delle sfilate e dei servizi di moda passati alla storia, che sostiene che “Zara è un designer brand, oggi”.

https://www.youtube.com/watch?v=Yax6wNoQL80 (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Palau ha infatti curato una linea di prodotti per capelli per Zara, lanciata a marzo scorso, con delle bottiglie che guardano all’estetica del movimento Memphis, disegnate da Fabien Baron, direttore artistico che è un nome da novanta nell’universo del fashion System: basti sapere che ha curato la grafica del libro Sex e dell’album Erotica di Madonna. E proprio Baron è la chiave di volta di tutto: chiamato dalla famiglia Ortega circa sette anni fa per valorizzare l’immagine del brand, è stato lui con il suo network di contatti a permettere a Zara di arrivare a nomi come quelli di Palau, Templer, McDean. Ora, per quanto le dichiarazioni entusiastiche di chi è un collaboratore del brand o viene pagato per offrire i suoi servizi, siano sempre da prendere con il giusto grado di distacco, è certo vero che Zara tenta da anni di distanziarsi da brand percepiti nello stesso gruppo, come Temu e Shein, anche con degli sforzi importanti sulla supply chain. Nell’Inditex annual report del 2022 Marta Ortega, la più giovane tra i figli del tycoon e presidente di Inditex ha affermato “Non vogliamo essere fast, vogliamo essere flessibili. Non vogliamo essere grandi, vogliamo essere rilevanti. Vogliamo essere agenti del cambiamento e aspirare a guidare la trasformazione della nostra industria. Vogliamo avere un impatto positivo in tutto ciò che facciamo”. Proprio per questo motivo, negli anni si sono evidenziati sempre maggiori azioni che miravano al riutilizzo, come l’introduzione di cotone riciclato, sostenibile o organico, così come lino sostenibile e poliestere riciclato entro il 2025.

I negozi Zara, oggi, courtesy Zara

Ed in effetti, che i brand di fast fashion maggiori stiano mettendo in campo l’artiglieria pesante con importanti investimenti nel percorso verso la sostenibilità lo ribadisce anche Matteo Ward, autore del documentario Junk e amministratore delegato di Wrad, Benefit Corporation dedicata all’innovazione sostenibile.

«Negli ultimi anni ho lavorato all’interno di Fashion revolution (organizzazione nata nel 2013 dopo gli avvenimenti tragici di Rana Plaza da Cary Somers e Orsola de Castro e che vuole consapevolizzare i consumatori e i brand sulle sfide che l’industria della moda deve affrontare, ndr) e se vai a guardare il loro transparency inditex dell’anno scorso o di due anni fa,  noti una cosa interessante: che al primo posto in termini di trasparenza c’è un brand italiano di fast fashion dal prezzo medio basso italiano ( OVS) e poi subito dopo Gucci. Nella realtà ci sono aziende che al netto di un business model che diverge di poco da quello di H&M e Zara, operano nel campo dell’hi-end luxury market e stanno facendo grossi sforzi per essere definiti sempre più trasparenti e tacciabili dal cliente finale e dagli stakeholders»

https://www.youtube.com/watch?v=fJblDqJIXjM (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

D’altronde, non si può pensare che un problema complesso come quello del fast fashion possa essere risolto comprando da brand che apparentemente agiscono in maniera più virtuosa di un’altra, o solo comprando abbigliamento di seconda mano, perché il nocciolo del problema, secondo Ward, è altrove.

“Il nocciolo della questione è il sovraconsumo e la sovrapproduzione, due pilastri ontologici del sistema moda contemporaneo. C’è stato un magazine di moda in Francia nel 1700, Cabinet de mode che scrisse che il motivo per cui la Francia era così influente in quegli anni era perché la classe politica aveva sviluppato la consapevolezza che con la moda si potevano fare grandi cose, ma soprattuto influenzare abitudini, molto di più di quanto potevano fare all’epoca gli scienziati, che al massimo parlavano a dei convegni con 500 persone. Quando invece con una pennellata di genio creativo un atelier parla, lo fa a milioni di persone, perché attinge all’emotività. Non c’era all’epoca conoscenza delle scienze neurologiche ma c’era la consapevolezza empirica che quando gli atelier creavano qualcosa e i nobili a corte lo indossavano, tutti iniziavano a seguirli. Questo meccanismo ha portato ingenti capitali al paese, e non è un caso che oggi la Francia sia pioniere delle politiche per mettere la moda al centro del sistema economico, e non è un caso che gli uomini più ricchi del mondo siano maschi che operano in Francia a capo di gruppi di moda»

La modella Amelia Gray nella campagna celebrativa per i 50 anni di Zara, courtesy Zara

E il sovraconsumo e la sovrapproduzione, atteggiamenti comunemente legati al fast-fashion, sono in realtà schemi comportamentali che ormai i clienti adottano anche con altre categorie merceologiche, come il vintage o il second hand, tanto più che il loro acquisto è fortemente incoraggiato in quanto percepito come meno dannoso. E però, acquistare in maniera compulsiva molto di più di ciò di cui realmente abbiamo bisogno, è dannoso anche se la qualità iniziale del prodotto è migliore, e sarà poi possibile reimmetterlo nuovamente in un ciclo di riutilizzo.

Conclude infatti Ward: «L’acquisto genera piacere, il piacere genera dopamina, la dopamina genera dipendenza. Questo avviene con capi lusso, vintage, o fast fashion. Il nostro cervello è predisposto a cercare piacere e quando lo trova è predisposto a ripetere l’attività che lo hanno generato, e se queste modalità ti permettono di farlo con un certo gusto per il baratto o l’apparente convenienza, lo sconto o il prezzo basso, stiamo dando al cervello dello zucchero sul breve termine che causa dei picchi di gioia effimera e poi ti porta in basso, e quando sei in basso, ricerchi nuovamente quella cosa lì. ( 10:05 a 11:04) Il vintage non è una soluzione, è una variabile dell’equazione, non va a risolvere quanti vestiti consumiamo, anche perchè la qualità dei vestiti che consumiamo oggi è talmente bassa che sarà difficile tra 20 anni avere buon vintage

Altro grosso problema della filiera rimane però la presenza nella catena produttiva di tessuti provenienti dallo sfruttamento del lavoro e delle risorse umane: un pezzo del Bof del 10 maggio, “Fashion’s supply chain is still full of banned Chinese cotton” (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), sottolinea la presenza sul mercato di un’enorme quantità di cotone proveniente dalla regione cinese dello Xinjang, prodotta dagli Uiguri, minoranza etnica di religione islamica che si ha buone ragioni di credere viva in un regime di schiavitù, nonostante il governo cinese lo neghi in maniera decisa. Nonostante negli Stati Uniti sia stato introdotto da ormai due anni un divieto molto severo di utilizzarlo, secondo Meilin Wan, vice presidente di DNA Sciences, una delle aziende dietro alla ricerca riportata dal Bof «uno su cinque dei prodotti presenti nel vostro armadio, nella scarpiera o in cucina, potrebbe essere realizzato con il cotone dello Xinjang: è l’elefante nella stanza, la presenza così massiva di questa tipologia di cotone nella filiera mondiale».

Maria Carla Boscono nella campagna per i 50 anni di Zara, courtesy Zara

Oltre che del cotone cinese, per i giganti del fast-fashion, ma anche per tutte le maison che nonostante i proclami, producono troppo e non sempre con delle filiere chiare, la preoccupazione a breve termine riguarda il Green Deal Europeo. Dust ha di recente intervistato Lisa Lang, la direttrice delle policy e degli affari europei della Knowledge and Innovation Communities dedicata al clima (KIC) all’interno dell’European Institute of  Innovation and Technology, finanziato dall’Unione Europea e con sede a Bruxelles. Nel pezzo  Comply or die:the future of fast fashion and the industry’s potential mass extinction, (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) si racconta uno scenario che metterà molti brand di fronte all’obbligo di adempiere a delle nuove regole, assai severe per un sistema che fino ad oggi non si è mai voluto, volontariamente, regolare da solo.  Lang ribadisce la necessità di adempiere agli obiettivi proposti dal Green Deal – tagliare le emissioni almeno del 55% entro il 2030 e arrivare allo zero entro il 2050.

Questo metterà molte aziende nelle condizioni di dover essere in grado di tracciare la loro impronta di carbonio, e di riportarla all’Europa: se si sfora, ci saranno dei costi da pagare, e sembra che saranno molto salati. Se le aziende di telefonia e di comunicazioni sono ad oggi già capaci di tracciare il percorso compiuto dai singoli materiali dei quali i loro prodotti sono composti, è molto più complesso con la moda, dove, come si è già detto, il mercato è ancora saturo, ad esempio di cotone cinese. «Se non puoi tracciare la tua filiera produttiva, non ti sarà più permesso vendere in Europa, non c’è altra alternativa» sancisce Lang, «e la colpa è dei lobbisti del tessile, che per anni hanno fatto in modo che il sistema della moda non fosse regolato. Lo stesso sistema è stato riconosciuto  ufficialmente come European Ecosystem Industry solo nel 2019, in quanto parte delle Industrie creative e artistiche. Prima, la moda era invisibile a chi doveva regolamentarla. Sono in molti a non aver fatto i compiti, e oggi è venuto il giorno di pagare i debiti».

Non sappiamo se l’industria della moda come la conosciamo si trovi di fronte al problema dell’estinzione di massa, ma quanto meno le toccherà decidere, abbastanza in fretta, chi vuole essere da grande, smettendo di accampare scuse e sotterfugi, per mascherare il fatto di essere, semplicemente, inadatta ad oggi e soprattutto a un possibile domani.

We are the fashion pack

  • Gucci sfila il 15 maggio con la sua Cruise 2026 a Palazzo Settimanni, archivio storico della maison a Firenze: peccato non esserci, ma sarò a Milano a intervistare Alessandro Michele a Front Row

  • Il progetto del Lanvin Group non sta esattamente funzionando (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre). Groundbreaking.

  • Aimé Leon Dore, brand di culto nel mondo dello streetwear, ha personalizzato La Marzocco, (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) storica macchina per fare il caffè: non costa, esattamente, quanto il vostro cappuccino al bar

  • Valentino inaugura una listening room (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) a New York in collaborazione con Terraferma

  • Chloé continua a espandersi e lancia una collezione (con Claudia Schiffer testimonial) di “high Summer” (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre). Ma che vor’ di?

  • Glenn Martens (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) debutterà da Maison Margiela con la couture, a 1 anno e mezzo da QUELLA sfilata di Galliano

  • Il 15, 16 e 17 Maggio per chi è a Milano, dalle 10 alle 18 c’è la sample sale di Ssheena (il brand di Sabrina Mandelli che abbiamo portato sul palco di Front Row). L’indirizzo? Corso San Gottardo 15, intercom 129. Più preciso di così nn si può

  • Sempre in ambito sample sale a Milano, il 15 e il 16 c’è quella di CHB (Christian Boaro) dalle 9:30 alle 18:30 in via Pier Candido Decembrio 28 presso MDC Show-room

The tortured audio visivo’s department

  • Vermiglio ha vinto quasi tutto ai David di Donatello: è ora di recuperarlo (su Apple TV)

  • Pare che la canzone dell’estate (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)sia già arrivata, e a firmarla sia una nepo-baby, e non una qualunque

  • A Cannes hanno deciso di bandire gli abiti trasparenti (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)(quelli che di solito indossano influencer e modelle), o quelli con delle lunghe code che rendono la vita impossibile sul red carpet a tutti gli altri, e farlo sapere solo un giorno prima dell’inizio del festival. Prevedo fashion drama

  • Devo dire una cosa impopolare: John Mulaney, il comico di SNL di cui ho visto lo special Baby J su Netflix, è molto bello, e assai sopravvalutato. Passo e chiudo. Ah no, se volete vedere qualcosa di comico divertente su Netflix c'‘è la cerimonia di premiazione di Conan’O Brien, che ha vinto il Mark Twain Prize for American Humor dato dal Kennedy Center: sul palco salgono veramente tutti i comici più rilevanti di oggi, con degli sketch di 7 minuti a testa.

  • Avevamo detto qui che ci saremmo incatenati fin quando il maestro Wong Kar-Wai non avesse fatto un altro film: non è un film, però è qualcosa (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), e sarà su Mubi

Official Soundtrack della settimana

https://www.youtube.com/watch?v=tesfrMi5VBg (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Si chiamano come il fondatore dei Rolling Stones morto suicida e il suicidio di massa del 1978, in Guyana, nella città di Jonestown, durante il quale circa 900 seguaci del guru americano James Warren Jones si tolsero la vita. Certo, capisco che non siano dei preamboli carichi di giubilo, ma i Brian Jonestown Massacre sono una leggenda per chi ha vissuto/sogna di rivivere negli Anni 90. Il collettivo, fondato a San Francisco dall’istrionico leader Anton Newcombe proprio nel 1990, è divenuto noto negli anni non solo per la musica – un mix di shoegaze, retrofuturismo e accenni ai Velvet Underground – ma anche per il look incastrato perfettamente negli Anni 70 (magari tutti gli artisti sapessero usare gli abiti nella loro maniera coerente e testarda) e le burrascose relazioni tra i suoi membri, a livello “i fratelli Gallagher possono solo accompagnare”. Risse e chitarre tirate sul palco, un rapporto di amore odio con l’altro gruppo simbolo della psichedelica americana di quegli anni, i Dandy Warhols, ma soprattutto la personalità dominante di Newcombe, che in passato ha attraversato fasi difficili dovute alla sua dipendenza da alcolici e droghe, e alla sua depressione. Non avrei mai pensato di riuscire a vederli dal vivo (avevo provato ad andare a Londra a febbraio, ma avevo passato il weekend a letto con la febbre a casa di amici): eppure, la settimana scorsa, sono passati da Milano. E, tra le fedore e i monili argentati sul petto di Newcombe, il sound lisergico (e nessuna lite particolarmente visibile sul palco), i riff cantilenanti e assonnati, come dopo l’assunzione di un qualche funghetto allucinogeno, mi è sembrato di tornare non agli Anni 90, ma nella California degli Anni 70. Un posto geografico e della mente che aveva messo la pietra tombale sulla Summer of Love e gli hippy, ma che comunque cercava, in modi legali e non, di trovare un’altra dimensione possibile, ringraziando Dio per esser nati non conformi e non allineati, come nell’album Thank God for Mental Illness, di cui It girl è uno dei brani.

E con questo è tutto, ci rivediamo la settimana prossima.

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