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Albedo Newsletter - N°25

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e storie sull’Antropocene e sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque. Come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction, e lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza c’è un piccolo promemoria sugli ultimi articoli pubblicati da Duegradi;

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Come è fatta la città ideale?

Laurence Stephen Lowry - A River Bank [1947]

In un baule che si trova al terzo piano di un edificio scalcagnato, nella periferia della città di Utrofia, è conservato un manoscritto di una viaggiatrice dell’Ottocento. Nelle prime pagine si può leggere “Alcuni giorni fa vennero i *** a propormi di fare insieme una lunga gita tra i monti. Sebbene il meteo fosse ammirevole, in un primo momento acconsentii di malavoglia, perché quella giornata ero incline a godermela da sola, piuttosto che in numerosa compagnia; ma di lì a poco fui molto contenta di averli seguiti. Quella gita mi ha lasciato un ricordo che, persino durante questo viaggio affascinante, la rende diversa da tutte le altre”. Effettivamente da dove si trovava la viaggiatrice, la pianura brulla che circonda il vulcano Magma, attraversarla di netto e arrivare dopo tre ore di carrozza nella valle di Utrofia le sarà parso come entrare magicamente in un sogno.

Al mondo ci sono pochi incidenti geologici come Utrofia. La verde valle dove si accoccola questa città risale a cinque milioni di anni fa, quando le acque superficiali del fiume Rio hanno cominciato a erodere l’area. O forse, per essere ancora più precisi, bisognerebbe risalire a circa venti milioni di anni fa, quando tutto quello che si trova oggi nella valle di Utrofia era sommerso sotto le acque dell’Oceano. Due immense placche tettoniche si scontrarono, e tutt’intorno alla linea di rottura la pietra cominciò a emettere gemiti di parto. Scricchioli assordanti; profondità incandescenti; colonne di fumo e polvere. Dalle profondità eruppero i vulcani, tra cui il vulcano Magma; e le montagne, ciascuna con la cresta di un proprio colore. Le cime più alte, lentamente, di scossa in scossa, bucarono la pellicola di mare per cercare comodità. Dapprima come piccoli e discontinui isolotti, poi come ampi altipiani. Dopodiché, quando l’Oceano aveva terminato di ritirarsi, il risultato di questo via vai terracqueo generò una valle circondata da montagne, la quale cominciò a riempirsi di ciò che trasportava un giovane fiume, che proprio in quel momento stava cominciando a esistere: il Rio. I granuli di questi sedimenti, alcuni più duri, altri più morbidi, erano gli eredi delle passate esplosioni. Ancora oggi nella valle di Utrofia, se si fa bene attenzione, tra le pieghe della roccia e dei pendii che la cingono come un abito da sposa, o a pochi metri di profondità da case e abitazioni, si possono osservare fossili di ere passate, tracce di eruzioni, ma anche antiche stratificazioni avvenute con pazienza, quasi per caso. Su questo insieme sgangherato di rocce e suolo che formò Utrofia, il Rio ha cominciato ad agire fin da subito: i conglomerati più fini sono stati i primi a farsi trascinare dall’acqua, e dissolti hanno scavato varchi in cui poi si è incuneato il fiume; ma dopo millenni anche quelli più spessi, sul fondo, hanno docilmente ceduto, generando una valle dolce, ma soprattutto un fiume dalla traiettoria sinuosa e allergica alla linea retta.

Nel frattempo, il fertile tappeto delle eruzioni e la vicinanza con l’acqua hanno fatto esplodere la vegetazione di Utrofia, la quale sia ben chiaro: all’epoca non sapeva nemmeno di chiamarsi così. L’uomo non c’era e le cose, a quel tempo, si potevano chiamare solamente indicandole con un cenno. Non avevano nome i tigli, che però con fronde generose offrivano riparo ai primi animali della valle, gli ippopotami e gli struzzi; né le tamerici, che con rami sottili ondeggiavano al vento. I due alberi crescevano fianco a fianco senza saperlo, l’uno possente e accogliente, l’altra elastica e tenace, intrecciando le loro ombre sulle sponde del giovane Rio. Il tiglio sembrava voler trattenere i secoli, archiviando nel proprio legno il ricordo di ogni stagione passata; la tamerice invece, con la sua resistenza, pareva nata per attraversare i secoli, affacciandosi sul bordo delle acque come se ogni giorno fosse il primo. Le rive del Rio erano spesso un intreccio di queste due presenze. I loro pollini si mescolavano nell’aria, i loro semi cadevano negli stessi anfratti. Talvolta un tiglio e una tamerice crescevano così vicini da confondere le loro radici, nutrendosi insieme dello stesso suolo vulcanico, della stessa memoria minerale.

Poi pian piano venne la città. L’uomo acquistò spazio e molti alberi caddero o vennero estirpati per far legna. I più ostinati rimasero, confinati nei giardini o in cortili secondari o ai margini delle strade. Oggi, gli ippopotami e gli struzzi a Utrofia non ci sono più, sono stati sostituiti da animali più piccoli, i cani e i ratti; i tigli e le tamerici ancora presenti respirano in disparte, lungo i pendii delle montagne, o comunque lontani dal clamore delle macchine e dei negozi. Eppure, la città, intimamente, non ha mai smesso di cercarli.

Purtroppo, dopo cinque milioni di anni - si fa fatica a crederlo - anche il fiume Rio è scomparso da Utrofia. Qualche decennio fa i suoi abitanti hanno pensato di tombarlo. Spinti da una cieca esigenza di costruzione hanno sostituito al suo letto, case di cemento e lunghi viali di asfalto. Cosicché oggi del fiume Rio restano solo foto logore, conservate in un museo, e ricordi sbiaditi di chi, tra i più vecchi abitanti, è rimasto ancora in vita. La vera materia della città dunque, non è il cemento, ma un impalpabile intreccio di ricordi. In qualsiasi edificio, su ogni impalcatura, in tutti gli angoli di strada, persino negli androni dei palazzi più moderni, è chiaro che il corpo della città è un mosaico posticcio di tasselli provenienti da epoche distanti. All’interno di Utrofia coabitano un’infinità di vite che non si sono mai conosciute, ma che, a loro insaputa, sono diventate parenti e coinquiline. Vivere a Utrofia significa essere soprattutto in rapporto con un passato che non riesce a morire. Letteralmente: è come entrare in relazione con un fantasma. Un demone instabile, che si lega di volta in volta a un corpo per venir fuori materialmente: ora lo fa con un un'aiuola, dove sono depositate tracce del tufo giallo o di un altro minerale espulso dal vulcano Magma; ora invece con una volta di una cupola che tondeggia su una chiesa, e risale al genio di un architetto del millennio passato; adesso con il manoscritto di una viaggiatrice dell’Ottocento, la quale dice di aver viaggiato molto e di non aver mai visitato una città bella come Utrofia. Questo demone mobile ha bisogno di transitare di corpo in corpo per esistere. Perché, ormai, già non esiste più. 

Ad ogni modo, oggi Utrofia è un importante centro politico ed economico. È una metropoli effervescente che fa sentire i suoi abitanti in movimento anche quando sono immobili. Da ogni angolo del paese le persone valicano le montagne per venirci ad abitare. Per uno qualsiasi che è appena arrivato col treno, Utrofia sembra un'enorme vetrina: gira e rigira e sembra che ti rifletti sempre dentro a uno specchio pulito, tra centri commerciali luccicanti, alti grattacieli e luci al neon, rotoli di carta stampata su cui sono disegnati cifre e pagamenti, camion carichi di merce, corrieri e imballaggi. Gli autobus a Utrofia sono sempre puntuali, così come i netturbini. Utrofia ha un cuore che pulsa al ritmo di chi vi lavora: si affolla al mattino presto, e si svuota verso sera, quando è tempo di riposarsi.
Anche l’amore a Utrofia assomiglia a una pausa caffè: è un sentimento lieve, le coppie si fanno e si disfanno. A nessuno, apparentemente, sembra importante più di tanto. Gli amori sono rapidi e fugaci, consumati in piedi, tra una riunione e l’altra, tra una telefonata e un treno in partenza. Non si vedono grandi addii sotto la pioggia, né promesse sussurrate sotto la luna: a Utrofia l’amore è pratico, leggero, senza radici profonde. Si incontra qualcuno, si condivide un pezzo di strada, poi si riparte senza voltarsi indietro. 

A qualche chilometro da Utrofia, però, c’è Marea, piccolo porto e antica città marinara. Gli abitanti di Marea, rispetto a quelli di Utrofia, hanno storie d’amore travagliate e burrascose. Si amano e si odiano con la stessa intensità con cui urla il mare d’inverno. A Marea nessuno si lascia davvero: gli amori finiscono mille volte, e mille volte ricominciano, sospinti da venti improvvisi come le onde che sbattono sul lungomare. I vicini di Marea che non amano molto Utrofia, un po’ per sbeffeggiare i suoi dirimpettai, un po’ per gelosia, dicono che ormai la città confinante ha perso la sua autentica personalità. Sostengono, per un verso, che Utrofia non ha l’esoterismo delle città di mare, perché non è fianco a fianco con l’Oceano; ma non è nemmeno quieta come una città montana, perché le vette che la delimitano non sono abitate per niente, se non da nibbi reali e linee telefoniche. Insomma a detta loro Utrofia è sì una città ricca, frenetica, attraente, ma in fondo nient’altro che un nulla insignificante sulla mappa del mondo. Chi invece la ammira, parla della sua vegetazione lussuriosa, del suo commercio, del suo ordine e della sua modernità. Per questo motivo ci sono persone che chiamano Utrofia “città delle idee infinite”; altre persone invece, a causa di quello che Utrofia era, e adesso non è più, preferiscono chiamarla “città della tristezza infinita”. La verità è che Utrofia non sarebbe Utrofia senza l’ombra poco distante dell’Oceano e senza le sue alte montagne. Ecco perché chi ama Utrofia, volente o nolente, ci torna spesso. Anche quando è costretto a vivere lontano. Per loro, e per molti altri, Utrofia è la città ideale. A pensarci bene, non hanno torto. L’aria è pulita, circolano poche auto, chi ce l’ha la usa solo per necessità inderogabili. Questi cittadini felici di Utrofia, durante le ore di riposo dal lavoro, passeggiano beati tra gomitoli di palazzi, marciapiedi larghi come letti di fiumi, alberi dalle fronde che oscurano il cielo quando è sera. I parchi urbani sono così grandi che non sai se è la città ad avere un parco o il parco ad avere, al suo interno, una città in miniatura.

Ma su tutte le meraviglie, a Utrofia la gente si aduna ogni anno, quando arriva l’estate, in un piccolo laghetto dalle acque diafane come cristallo. Si racconta che sia in realtà il vecchio fiume Rio, che stanco di obbedire ai capricci dell’uomo sia fuoriuscito in un punto, tracimando gli argini entro cui l’uomo lo aveva ingabbiato sottoterra. Leggenda a parte, il laghetto si trova al centro di un fitto parco secolare di tigli e tamerici. Nelle notti estive, quando il caldo invita a stare sugli usci di casa, gli anziani di Utrofia raccontano ai più giovani, per impressionarli, che questo lago si trova nel centro esatto della città, e che le sue acque, a dire il vero, sono alimentate dalle lacrime degli abitanti innamorati, e da chi, perso nei propri sogni di ricchezza, si accorge, all’improvviso, di vivere in un incubo: una città senza il suo vecchio fiume, e soffocata da inutile cemento.

Albedo di febbraio finisce qui. Questo mese abbiamo parlato dunque di città ideali, o di città da incubo. Il confine spesso è molto sottile. Le città sono il luogo in cui, negli ultimi decenni, abbiamo scelto di abitare. Eppure secondo l’IPCC sono anche responsabili del 70% delle emissioni globali che produciamo (oltre a essere fonti di crisi di nervi, nervosismi e malesseri vari - toc, toc! Roma mi senti?). Consumo di suolo, impatto climatico, inquinamento atmosferico, vivibilità… pur se facciamo finta di non accorgercene, girandoci dall’altro lato, le città in cui viviamo sono un bel problema. 


Su Duegradi di città ce ne siamo occupati molto (un po’ di articoli li trovate qui (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)), e continueremo ad occuparcene. Questo Albedo lo fa con una prospettiva diversa, ovviamente, più un racconto fantastico, che un’analisi con dati e contesto; ma non per questo meno necessaria. Tra le varie cose, Albedo vuole essere anche questo: uno spazio alternativo rispetto alle pubblicazioni settimanali di Duegradi, che permetta di affrontare le questioni che riguardano la crisi climatica da nuovi e altri punti di vista, e con tutti gli stili possibili. Per far fronte alle numerose crisi in cui viviamo abbiamo bisogno tanto di dati, quanto di nuovi mondi da immaginare. Questa di raccontare storie non è una maniera meno necessaria rispetto ad altre per fare quello che ci auguriamo di fare: rovesciare completamente il modo con cui gli esseri umani stanno al mondo (detto in altre parole: finirla con questo capitalismo predatorio, di risorse di persone e di idee, in cui viviamo da almeno due secoli). 


Ci sentiamo il prossimo 20 marzo. Se hai idee da aggiungere puoi farlo sempre alla solita mail (sebastiano.santoro@duegradi.eu (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)). Se invece vuoi sostenere il lavoro che facciamo a Duegradi, puoi donarci qualche caffè (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), o puoi semplicemente visitare il nostro sito e le nostre pagine social, o anche solo consigliarle ai tuoi amici o alle tue amiche, o ai tuoi familiari, insomma a chi conosci. È un piccolo gesto che però può essere utile a sostenere il nostro lavoro. 

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