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Qual è il senso della couture, oggi

I commenti degli utenti social – ma pure alcune recensioni giornalistiche – svelano quanto siamo in difficoltà nel decifrare le vite di chi compra gli abiti da sogno andati in passerella durante la settimana dell’Haute Couture parigina, e il business che c’è dietro. Facciamo il punto.

Il creatore dell’Haute Couture francese è un inglese.

Basterebbe questo mero dato storico per sgombrare il campo dai luoghi comuni, dagli errori storici, o da domande inutili e che però si ripetono costantemente ad ogni stagione della couture, come quella appena conclusasi.

Una società che ha inventato il termine doom shopping (Öffnet in neuem Fenster) per descrivere la tendenza malsana ad acquistare abiti a poco prezzo che ci regalano una iniezione di dopamina istantanea – consentendoci anche di svuotare il cervello da qualunque altro pensiero sul nostro presente, effettivamente drammatico – è sicuramente in difficoltà di fronte a quella “galassia lontana lontana” dell’Haute Couture. Un mondo che oggi è molto diverso da quando è nato, cioè, formalmente nel 1868 con la creazione de La chambre syndicale de la couture parisienne, oggi inglobata all’interno della Féderation de la haute couture et de la mode. A formare quest’organismo è stato Charles Frederick Worth, signorotto del Lincolnshire con un folto baffetto alla messicana e l’aria da generale di Fort Worth in pensione.

Valentino Vertigineux haute couture, credits: Valentino

Senza andare nello specifico della visione di Worth, a trasformarlo nella figura del couturier per eccellenza non furono solo le silhouette o i tessuti, ma anche il marketing ante litteram, e una personalità che gli inglesi definirebbero “larger than life”. Per quanto riguarda il primo ambito, Worth fu il primo a far indossare i suoi abiti a delle modelle, per mostrarne la vestibilità ai clienti (la sua modella era, ovviamente, sua moglie), così come fu l’uomo capace di invertire la metodologia d’acquisto. Se fino al suo avvento i clienti ricevevano il sarto in casa propria, Worth decise che sarebbero stati i clienti ad andare da lui, nel suo “salon” in rue de la Paix, escamotage che tramutò l’acquisto di un abito in un evento sociale. E, tranne l’imperatrice, tutte le clienti erano sottoposte a delle lunghe attese, prima di essere ammesse all’attenzione dello stilista. Non più mero esecutore delle volontà delle danarose clienti, ma arbiter elegantiarum, Worth era noto per fare una cosa che, prima di lui, non era uso fare: dire alle donne quando un abito o un colore stavano loro male, quando c’erano troppe crinoline, quando il colore non era donante, e convincerle a fare esattamente ciò che voleva lui. Come direbbe Donatella Versace: my house, my rules, my pleasure (Öffnet in neuem Fenster).

Dopo questa parentesi storica, torniamo all’oggi.

I criteri per definire una collezione Haute Couture poco hanno a che fare con i “chi se lo mette questo?” dell’utente medio online, ma sono molto più tecnici, e sono più o meno gli stessi di quando, a stabilirli, fu la Chambre syndicale de la couture, nel 1945, come risposta difensiva al Terzo Reich, che aveva occupato Parigi e tentò, fallendo, di esportare l’intero mercato della moda parigina in Germania.

  • Disporre di almeno un atelier a Parigi che impieghi almeno 15 persone a tempo pieno

  • Disporre di un personale composto di almeno 20 lavoratori specializzati

  • Realizzare abiti su ordinazione per clienti privati, con più di un fitting (prova, ndr)

  • Le collezioni devono essere presentate al pubblico a gennaio e luglio durante la stagione della couture (a oggi diversi brand come Valentino o Balenciaga hanno optato per una sola presentazione all’anno, ndr)

  • Presentare almeno 50 disegni originali, divisi tra look da giorno e look da sera

Cos’altro è cambiato, nel 2025? La realtà è che la couture è (ancora) un business, sebbene non sempre per le stesse ragioni del passato.

Quando ne avevo parlato l’anno scorso (Öffnet in neuem Fenster), sul numero di Etc dedicato al sogno, avevo consultato i consulenti di BCG (Boston Consulting Group) abituati a lavorare in sinergia con le maggiori maison mondiali. In quell’occasione, erano stati loro stessi a dirmi che, sostanzialmente, l’occasione della sfilata couture è essenziale per raccontare un paio di cose al mondo (e ai propri competitor).

La realtà è che quello spettacolo, divenuto democratico perché ci arriva tramite lo schermo di un telefonino, serve a “posizionare” un brand nel discorso collettivo. Raccontarlo come desiderabile, sinonimo di lusso, regalandogli un valore simbolico intangibile, che nulla ha a che fare con l’effettiva riuscita o meno della sfilata. Una fascinazione che per via del potere delle immagini e del marketing, ci colpisce inconsapevolmente quando poi, nell’esercizio delle nostre finanze – più limitate rispetto a quelle di chi acquista la couture – scegliamo di acquistare un certo profumo o uno specifico rossetto, sublimando quel desiderio inarrivabile in un prodotto dello stesso brand, alla nostra portata economica. Non è un caso che alcune maison non abbiano più all’attivo delle linee di ready-to-wear – che richiedono investimenti, distribuzione nei negozi, una produzione massiccia di abiti etc etc– ma comunque dispongano di una loro linea di Haute Couture. In questo preciso schema ricadono ad esempio Jean Paul Gaultier o Viktor&Rolf, per dirne due che da anni vendono profumi perché le loro immaginifiche collezioni di Haute Couture vendono a noi un sogno, quello di un accesso a un reame fatato reso possibile spruzzandosi addosso qualche goccia di Le Male o di Flowerbomb.

Marie-Sophie Wilson, in Valentino Vertigineux Haute couture, credits: Valentino

Ovviamente, esistono anche brand, come Valentino o Chanel per i quali la couture è un business a sé stante, a prescindere dal marketing, con clienti fedeli da diverse decadi, disposte a spendere fortune per un abito. Queste clienti – che vivono vite impensabili per i comuni mortali – non sono influenzate, quando comprano, dal giudizio dell’utente medio su TikTok, o dalla “contemporaneità” (quella che secondo Vanessa Friedman nella sua review sul New York Times (Öffnet in neuem Fenster) è dirimente): il loro tempo è sospeso, una dimensione parallela a cui poco interessa delle dinamiche social nelle quali sguazzano tutti gli altri.

In questo senso, quindi, sebbene sarebbe auspicabile situarsi in linea con lo spirito del tempo, non è così grave – a livello di business – la mancanza di connessione con il reale.

Se invece a livello giornalistico si decide per convenzione che, nella couture, l’adesione al reale è un criterio che va adottato, bisogna rivedere i plausi universali che sono arrivati a John Galliano dopo la sfilata di Maison Margiela Artisanal dello scorso anno.

D’altronde forse dovremmo poi rivedere in toto questa nostra idea di contemporaneità: secondo Giorgio Agamben, uno che un paio di cose da dire le aveva, la moda è contemporanea di default, non tanto perché racconta il presente ma proprio perché, quando si esprime ai suoi massimi livelli, mette lo spettatore di fronte a un glitch, a una discontinuità, e non è, quindi, in linea col suo tempo: è sempre in anticipo su se stessa, e contemporaneamente sempre in ritardo (lo disse alla lezione inaugurale del corso di Filosofia Teoretica dell’anno accademico 2006-2007 alla Facoltà di Arti e Design dello IUAV di Venezia, facendo una lezione, appunto, sulla contemporaneità).

Valentino Vertigineux Haute couture, credits: Valentino

Al di là dell’adesione o meno al proprio tempo, risulta più problematico se un vestito di Haute Couture in passerella vede i suoi punti cedere, tramutando un vestito a sirena in uno che ha uno spacco (come è successo alla sfilata di Jean Paul Gaultier realizzata da Ludovic de Saint Sernin) o se il messaggio che sottende a quella collezione diventa lo specchio riflesso di un mondo distorto, che siamo consapevoli di dover cambiare. A latere della collezione di Haute Couture di Schiaparelli, realizzata da Daniel Roseberry, la giornalista Cathy Horyn ha fatto notare sul The Cut (Öffnet in neuem Fenster)come, sebbene la collezione possa definirsi riuscita, quell’ossessione anatomica del creativo, che ha mandato in scena abiti pesantemente scolpiti sui fianchi e sui seni, ricalchi fin troppo il modello estetico dominante oggi, e di conseguenza, il suo pubblico (a indossare un abito particolarmente modellato sui fianchi era la modella Kendall Jenner, e le Kardashian sono spesso ospiti in front row delle sue sfilate, ndr). Ouch.

https://www.youtube.com/watch?v=PpfcByfx1RQ (Öffnet in neuem Fenster)

L’archeologia della moda operata da Alessandro Michele per la sua prima couture da Valentino, Vertigineux (da La vertigine della lista, saggio di Eco) potrà risultare “polverosa”, avrà sicuramente offerto il fianco alla resa cinematografica, a sfavore della fruibilità dell’evento da parte dei presenti (come ha detto sempre Cathy Horyn (Öffnet in neuem Fenster), che Dio l’abbia in gloria) ma non gli si può negare la coerenza, e il tentativo di far parlare la moda, e il pesantissimo heritage di Valentino, con il mondo che gli gira attorno, nel 2025, non nel 1992 (anno dell’originale creazione dell’abito che ha aperto la sfilata). Una Babele di riferimenti messi insieme in un documento da 100 pagine, per spiegare il processo a volte irrazionale, altre intuitivo, che soggiace alla creazione. Per ogni abito, una lista, per ogni lista un tentativo audace di spiegare il mondo, o, come direbbe Eco, “rendere comprensibile l’infinito”. Così, compilando liste nel tentativo di mettere ordine di fronte all’immensità del suo compito, Michele si fa un po’ cronista di cosmicomiche, ma anche scrittore come lo intendeva il Nobel per la letteratura Elias Canetti: un segugio del proprio tempo, che lo punta, senza perderlo mai di vista, ma rimanendogli sempre, instancabilmente, oppositore.

Alla fine della fiera a tutti noi comuni mortali rimarrà solo uno spettacolo sul quale strapparci le vesti (non di certo Haute Couture). Quegli abiti invece, saranno solo per le clienti, le uniche autorizzate a emettere il verdetto finale sulla collezione, e sulla sua contemporaneità (posto che alle clienti della couture, della contemporaneità sia mai importato qualcosa).

We are the fashion pack

The tortured audiovisivo’s department

  • Mo è arrivato su Netflix con la seconda serie (Öffnet in neuem Fenster): la storia di Mo, rifugiato di origine palestinese che si barcamena tra lavoretti al limite della legalità in attesa della cittadinanza americana, è molto più divertente di come possa apparire da questa breve sinossi. E adesso, non c’è un prodotto tv che sia più necessario guardare.

  • A Sanremo i due terzi dei brani sono scritti dagli stessi 11 autori: (Öffnet in neuem Fenster) dopo il (bellissimo) articolo con attacco già leggendario scritto su Ilsole24 Ore da Francesco Prisco, il Codacons ha presentato un esposto all’Antitrust. Carlo Conti, pare, non se ne fosse reso conto prima. Per specificare: Lucio Corsi a Sanremo ci arriva con una canzone scritta da lui ( insieme a Tommaso Ottomano e Antonio Cupertino, che non hanno collaborato con nessun altro artista di questo Festival)

  • Grammy Awards (Öffnet in neuem Fenster): miglior album a Beyoncé con Cowboy Carter, best new Artist Chappell Roan, canzone dell’anno va a Kendrick Lamar con Not like Us. Tutto bellissimo, io ho notato solo Charli XCX vestita in Ann Demeulemeester (Öffnet in neuem Fenster) (brand di proprietà oggi italiana e disegnato da Stefano Gallici, anche se Vogue Australia pensa che il brand lo disegni ancora “the belgian avantgarde designer..”, okkei). In realtà, qui siamo solo in attesa di maggio per sentire il nuovo album di Lana Del Rey, che i Grammy tra l’altro non hanno mai premiato, se vi è possibile crederlo.

  • Il documentario su Jeff Buckely, It’s never over (Öffnet in neuem Fenster), è stato presentato al Sundance (con Brad Pitt come produttore), e arriverà presto in Italia. Non sarà mai troppo presto.

Fashion week special feature: le migliori colonne sonore di questa stagione

Official soundtrack della settimana:
https://www.youtube.com/watch?v=2OX2nelvhIE (Öffnet in neuem Fenster)

Era il 16 novembre 1973 al Marquee Club di Londra (lo stesso nel quale, 10 anni prima, una band chiamata Rolling Stones aveva iniziato come gruppo spalla). Il programma americano Midnight Special della rete televisiva NBC chiese al Duca Bianco di apparire nello show. Secondo i rumors, Bowie acconsentì a patto di avere la direzione artistica dell’intera ora di programma. Gli ospiti nella sala erano i membri del suo fan club, e alcuni amici dell’artista.

Tra i colleghi che Bowie invitò a salire con lui sul palco, ci fu Marianne Faithfull, l’inglese figlia di un ufficiale dei servizi segreti e di una contessa viennese che di cognome faceva von Sacher-Masoch (sì, quel Sacher-Masoch). Negli Anni 70, per colpa di una laringite e di uno stile di vita non esattamente salutare, Faithfull aveva già sviluppato quel timbro vocale che sembrava immerso in un bicchiere di whisky. Insieme a quello, e a un abito da suora (aperto sul retro, perché la bis-nipote dell’autore di Venere in pelliccia di certo non si tirava indietro sulle provocazioni) si esibì in I got you babe – brano originale di Sonny & Cher – mentre Bowie sfoggiava un completo di vinile rosso con corpetto in piume di struzzo, un outfit che lui stesso definì “da Angelo della Morte”. Nelle loro mani un brano al saccarosio figlio del folk diventa una liturgia piena di sottile ironia ed erotismo. Chapeau, Marianne, grazie di tutto.

Ci ritroviamo la prossima settimana, si spera più sintetici.

Nel frattempo mi trovate sempre su Instagram (Öffnet in neuem Fenster) , e se vi interessano i libri, sicuramente su Goodreads (Öffnet in neuem Fenster). A presto.

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