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Il Vangelo secondo Donatella

Ha sempre fatto a modo suo tutto: la vita, la moda, la carriera parallela da icona consapevole. E l’arrivo di Dario Vitale alla direzione creativa sancisce solo l’inizio di una nuova era, nella quale sarà finalmente libera da un ruolo che (forse) non avrebbe mai voluto.

«Call Donatella, get the jet”

Non c’era bisogno che Miranda Priestly dicesse altro, nel mezzo di una tempesta che la teneva inchiodata a Miami, perché il pubblico, fashionista o meno, capisse che la Donatella a cui la mefistofelica direttrice di Runway faceva riferimento nel Diavolo veste Prada, era Donatella Versace. Una donna, Donatella, di quelle alle quali basta il nome per essere identificata anche al di fuori del mondo della moda, che poi è lo stesso destino che hanno avuto le top model degli anni Novanta, fenomeno che è stata lei, inconsapevolmente, a creare. Nel pezzo Sorella d’Italia (Öffnet in neuem Fenster), scrive Michele Masneri che Donatella Versace è una delle poche personalità alle quali si possa abbinare con un certo grado di serenità l’aggettivo iconico, oggi usato per l’influencer di quartiere ma pure per il trend di TikTok di cui ci scorderemo tra cinque minuti, e non ha torto.

Versace a/i 2025-2026, credits: Versace

Amata forse più in America che in Italia – qui si paga sempre lo scotto di una certa ala di pensiero radical chic che non prende sul serio le donne, se non si vestono come una contrita cancelliera tedesca degli Anni ‘90 – ha vestito Lady Gaga per il Super Bowl; Maya Rudolph l’ha interpretata in diversi sketch su SNL (e lei ha chiamato per far sapere che si vedeva subito che quella addosso all’attrice era bigiotteria, a lei la bigiotteria fa venire l’allergia, impensabile indossarla); faceva volare il parrucchiere da New York a Milano per farsi mettere le extension insieme a Naomi, mentre mangiavano spaghetti nel bagno di casa di suo fratello Gianni (un aneddoto ricordato dal The New Yorker nel pezzo Mondo Donatella (Öffnet in neuem Fenster)); faceva comporre a Prince le colonne sonore delle sfilate; ha commentato sempre con sprezzo le politiche populiste e omofobiche di certi partiti del nostro Paese, infrangendo un’altra legge non scritta, quella secondo la quale i designer mai devono mescolarsi con la realtà del mondo al di fuori della moda, non sta bene, ed è pericoloso quando mandi avanti un’azienda che fattura milioni.

Certo, i maligni potrebbero dire che l’ingresso sul palcoscenico popolare Donatella l’ha guadagnato senza far molto, era “la sorella di”. Quando arrivò a Milano, dopo la laurea in lingue all’università di Firenze, il brand era stato già fondato dai suoi fratelli Gianni e Santo (come ci ha tenuto a ricordare lo stesso Santo con un comunicato piccato dove bacchettava il nuovo direttore creativo, Dario Vitale, reo di non averlo citato nel post Instagram con il quale è stata annunciata la sua nomina sul profilo del brand). Il brand d’altronde era un catalizzatore d’interesse – soprattutto per il mercato americano, che in Versace rivedeva tutto il suo camp gioioso, quello delle comunità latine che proliferavano a Miami, di cui gli statunitensi, per comprovati limiti, erano incapaci di raccontare l’epopea – così come di critiche. Gianni Versace era già nel 1986 commendatore della Repubblica italiana, ma nel frattempo era uno dei pochi designer dell’epoca dichiaratamente omosessuale, e mescolava sacro e profano con il gusto di un bambino talentuoso, ma discolo per predisposizione. Sua sorella Donatella, lo Yin al suo Yang, si occupava delle modelle; delle sfilate e della loro colonna sonora; delle feste (feste alle quali Gianni non partecipava mai, preferendo andare a letto presto, come mi raccontò nell’intervista (Öffnet in neuem Fenster)che feci per Vogue Italia qualche anno fa); insomma, curava di Versace tutto ciò che non riguardasse strettamente i vestiti, anche se pure su quelli, il fratello spesso le chiedeva pareri, e via a discutere, idee a volte diverse, lei che minacciava scenograficamente di andarsene, e lui che la inseguiva per i corridoi dell’ufficio stile.

Versace a/i 2025-2026, credits: Versace

Versace era già, insomma, un nome che conteneva in sé aspirazioni: le stesse di Nomi Malone, ballerina di casinò in Showgirls – film di Paul Verhoeven del 1995 oggi considerato capolavoro, incompreso e vituperato all’epoca – che con i suoi primi risparmi si andava a comprare un vestito del brand. Quando lo raccontava al direttore artistico del locale (un Kyle MacLachlan mai rivisto così untuoso) lui, con compassione, le diceva che aveva pronunciato male il nome. «It’s not Versayse, it’s Versace”, e però lo diceva comunque sbagliato, perché gli americani per anni quel brand l’hanno chiamato Versaci, un errore di pronuncia sul quale Donatella ha ironizzato in diverse occasioni. Tra le opere più mirabili di DV non c’è stata quindi la fondazione di un brand, quanto la creazione di un suo immaginario, missione ugualmente impegnativa, soprattutto per una donna che si doveva confrontare con dei giganti. «Prince mi chiamava e mi faceva ascoltare quello che aveva pensato di comporre per la sfilata, e mi chiedeva se andava bene» mi disse durante quell’intervista. «Ma secondo te io andavo a dire a Prince come doveva comporre i suoi brani? Il genio era lui!»

Un lavoro divenuto ancora più difficile, a tratti insostenibile, quando suo fratello morì, in quel 1997 maledetto, strappato al futuro da Andrew Cunanan, tossicodipendente di origini italo-filippine che aveva sviluppato nei confronti della sua figura una ossessione, e che lo freddò con due colpi di pistola, mentre Gianni Versace tornava a casa sua a Miami, insieme al compagno Antonio D’Amico. Donatella non era nata designer, e non avrebbe mai voluto neanche diventarlo, ma si trovò forse costretta a farlo, essendo stata in vita musa e la persona più vicina al fratello. Il percorso non fu indolore, comprese anni di dipendenze, la depressione, e un “intervention” da parte di un preoccupato Elton John, che la convinse a disintossicarsi, ma nelle due decadi che sono seguite a quell’evento, è stata miracolosamente capace di tenere accesa la fiamma su uno dei brand che aveva contribuito a rendere Milano polo attrattivo per la moda mondiale, fino poi alla vendita a Capri Holdings, avvenuta a dicembre 2018.

Quell’acquisizione, avvenuta per 1,83 miliardi di euro, fu considerata all’epoca la “prova provata” dell’abilità di Donatella Versace nel mantenere il brand non solo rilevante, ma anche economicamente in salute. Un risultato raggiunto non solo grazie all’aura da icona pop costruitasi intorno a lei negli anni (c’è anche un bellissimo cameo in Zoolander, dove interpreta se stessa, e accompagna Ben Stiller a una cerimonia di premiazione) ma anche a una certa tigna, che la rendeva impermeabile a tutti i consigli, spesso non richiesti, dei laureati in Economia che lavoravano nel management, convinti di sapere più di lei cosa desiderasse l’ambita Gen Z, che Donatella Versace non ha mai trattato come un gruppo di mercato, ma, più semplicemente, come esseri umani senzienti, divertendosi a sorprendere gli utenti di Instagram quando rispondeva a certi dm, che le chiedevano quando avrebbe rifatto una certa camicia che le avevano visto indosso, e che faceva parte delle collezioni di più di 20 anni fa.

Versace a/i 2025-2026, credits: Versace

Nel frattempo, ha coltivato con dedizione una nuova generazione di designer, a cui affidava la direzione creativa di Versus (come con Christopher Kane, ma soprattutto con Anthony Vaccarello, oggi direttore creativo di Saint Laurent, e che fu la prima a sostenere) senza sentirsi minacciata, priva dell’ego ipertrofico di tanti colleghi maschi, forse perché per lei, essere solo una designer era limitante, in fondo.

Con l’annuncio di Dario Vitale alla direzione creativa, e la nomina di Donatella Versace come ambassador del brand, in carico di tutte le diverse iniziative filantropiche (cariche che saranno effettive dal primo aprile) si è confezionata una soluzione ragionata e intelligente. Non si sa se il gruppo Prada sia davvero così vicino all’acquisizione di Versace come sostengono i giornali di settore – mettere alla guida creativa del brand Vitale, che fino a dicembre è stato a capo dell’ufficio stile di Miu Miu, sarebbe di per sé una scelta strategica – ma la quadratura del cerchio sembra essere raggiunta. Immaginare Versace senza la benedizione e la presenza di DV, che a maggio compirà 70 anni, sarebbe impossibile, oltre che crudele. Il perché, inconsapevolmente, l’aveva spiegato la stessa Donatella quando, diversi anni fa, venne intervistata da Vogue con il popolare format “73 domande con”.

«Se non fossi alla guida di Versace? Probabilmente avrei un esaurimento nervoso».

«Cosa rende Versace unico? Io».

https://www.youtube.com/watch?v=IkV5VpEROW0 (Öffnet in neuem Fenster)

We are the fashion pack

The tortured audio visivo’s department

Soundtrack della settimana

https://www.youtube.com/watch?v=9uegwd_rBek (Öffnet in neuem Fenster)

Le Haim, di cui tutte parleranno questa settimana per via della loro nuova canzone, Relationships, are for girls. Le Bikini Kill are for women.

Per l’International Women Day, la Rock and Roll Hall of fame ha allestito una mostra dedicata alla donne più rivoluzionarie della musica rock, e poi organizzato un dialogo sold out tra Kathleen Hanna, fondatrice delle Bikini Kill, e Halsey William dei Paramore. Ma chi sono le Bikini Kill, e perché dovrebbe importarcene qualcosa di una band rock nata nell’area di Olympia (Washington) negli Anni 90? Bè, perché sono state una formazione (quasi) tutta al femminile in un mondo, quello dell’alt-rock, non esattamente noto per la sua ampiezza di vedute, e perché hanno fatto da pioniere al movimento Riot grrrl, che aveva al centro del suo agire il femminismo - nello specifico quello della terza ondata – la discussione sulla politica e la musica punk. Di conseguenza, Kathleen Hanna, ma pure la bassista Kathi Wilcox, la batterista Tobi Vail e l’unico uomo, il chitarrista Billy Karren – oggi non più parte del gruppo – si vestivano senza preoccuparsi del giudizio maschile, invitavano le donne presenti ai loro concerti ad andare sul palco con loro e condividere con il gruppo il materiale che magari avevano prodotto ( poesie, testi di canzoni). La vulcanica Hanna si occupava anche personalmente della sicurezza: se durante i concerti vedeva qualche partecipante tra gli uomini importunare le donne presenti, scendeva dal palco e sistemava la faccenda, finendo spesso per essere assalita fisicamente e verbalmente. La loro hit più nota gliela produsse un’altra donna che non le mandava a dire, Joan Jett, e si chiama, senza sorprendere, Rebel girl: una dichiarazione d’amore e stima verso tutte le donne del mondo, soprattutto quelle che hanno il coraggio di essere orgogliosamente se stesse, in un mondo che le vorrebbe tutte uguali, e inoffensive. Il video qui sopra è un live dello scorso anno al Late Show con Steven Colbert. E guardandole, non può che venire in mente un verso di Rebel Girl, che le Bikini Kill hanno sempre incarnato meglio di tutte.

“That girl, thinks she’s the queen of the neighborhood, well, I’ve got a news for you, she is. They say she's a slut, but I know, she is my best friend, yeah”

Per questa settimana ci salutiamo, nel frattempo ci teniamo in contatto su Instagram (Öffnet in neuem Fenster) , se volete recuperare le mie playlist, sono tutte su Spotify (Öffnet in neuem Fenster) A giovedì prossimo ;)

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