Calcerò #38 – Totò
Retropassaggi, 9/24 - Chi è della mia generazione, lo sa: non si esce vivi da Italia 90
Ciao a tutti, ben ritrovati.
Doveva capitare, prima o poi, che la newsletter del 20 del mese, retropassaggi, avrebbe ospitato un obituary, come vengono definite le pagine di ricordo sulla stampa inglese. La morte di Totò Schillaci, mercoledì 18, non può che prendersi questo numero. Sono nato nel 1979, e cosa abbia rappresentato per un appassionato 10-11enne Italia 90 lo potete immaginare.
Questa è la storia di quei 29 giorni.
Fischio d’inizio.
La tripletta mensile di Calcerò
Ogni 10 del mese: Verticalizzazioni - Con i consueti temi e il consueto stile di Calcerò.
Ogni 20 del mese: Retropassaggi - Una lettura su un calciatore del passato, pubblicata a suo tempo, ma sparita dagli archivi (per passaggi di server o chiusura delle testate).
Ogni 30 del mese: Calci da fermo - Trenta righe, pochi sconti.
Non si esce vivi da Italia 90. È così per un paio di generazioni di bambini e giovani adulti che quel mese di aspettative ed emozioni l’hanno vissuto appieno, figurarsi per chi di quel Mondiale è stato protagonista. Per uno che è quel Mondiale, uno che è le notti magiche. Fissato nell’eternità con le sue smorfie e i suoi occhi – quelli spiritati che oggi sarebbero la base di infiniti meme, banali e sfigatissimi – Totò Schillaci è diventato immortale in ventinove giorni, dal 9 giugno al 7 luglio 1990, l’alfa e l’omega del suo Mondiale.
Nella sua rete in Italia-Austria, esordio azzurro nel Mondiale, ci sono le stimmate della predestinazione. Non è titolare e il risultato non si sblocca, subentra a un Carnevale triste e dopo quattro minuti è già lì a esultare dopo avere inzuccato in rete un cross di Vialli. Occhio: dopo essere subentrato a Carnevale e avere inzuccato in rete un cross di Vialli, e significa che il valvassino aveva preso il posto del valvassore e aveva ricevuto il servigio dal sovrano, ché Vialli era uno che i cross era chiamato a riceverli, altro che. Finisce 1-0, Tuttosport – allora i giornali vendevano, e si leggevano anche con gusto – il giorno dopo titola la prima pagina interna con un “Totò l’uomo del destino” che letto ex post è un capolavoro di lungimiranza. Non c’è male, come inizio.
Flashback sui prodromi perché magari, a questo punto, qualcuno che non c’era, non ricorda o non sa potrebbe pensare che Schillaci a Italia 90 ci fosse finito da miracolato. Balle. Semplicemente, ci era arrivato spinto dal vento: è quello che gli inglesi chiamano momentum, lo slancio insomma, e del resto non aveva senso tenerlo a casa. Capocannoniere da 23 reti in B nel Messina 1988-89 e d’accordo, non basta, perché si può essere un Pacione, un Rebonato o un Garlini, gente che pur con quello stesso traguardo in curriculum la doppia cifra in A non l’ha mai vista, e invece Totò nella Juventus di Zoff, nella sua annata d’esordio fra i grandi nel 1989-90, di gol ne aveva segnati 15. Per dire: davanti a lui, primo dei terrestri, solo Van Basten (19), Baggio (17) e Maradona (16) e senza contare i rigori – che in bianconero calciava De Agostini: lui ne tirò e segno uno solo – il trono sarebbe stato suo. Di più: in campionato aveva segnato quattro reti su punizione, e quella Juve aveva vinto Coppa Italia e Coppa Uefa. Si poteva davvero lasciarlo a casa?
Forse sì, considerando l’intoccabilità di Vialli, l’utilità di Carnevale e la presenza dei vari Baggio, Serena e di giocatori dalle caratteristiche offensive quali Donadoni e Giannini. Invece no, tenendo presente che nelle sei amichevoli pre-Mondiali da ottobre a marzo (0-1 contro il Brasile, 1-0 contro l’Algeria, 0-0 contro Inghilterra, Argentina e Olanda, 1-0 contro la Svizzera) gli azzurri avevano segnato la miseria di due reti. Portarlo, indipendentemente dalla sponsorizzazione di Boniperti, era convocazione saggia, e pazienza se sarebbe rimasto a casa Luca Fusi, scudettato con il Napoli ma sufficientemente silenzioso per essere il sacrificato ideale.
Nella seconda sfida del girone, contro gli Stati Uniti, Totò non segna ma si guadagna la titolarità. O, meglio, la butta via in malo modo Carnevale, che al destino non s’era rassegnato o forse non l’ha saputo leggere e così, quando di nuovo nella ripresa Vicini lo richiama per inserire Schillaci, pensa che se lui che ha vinto il titolo deve lasciare posto a uno che non ha dimostrato ancora nulla, beh, allora il ct può anche essere mandato a quel paese in diretta televisiva. Carnevale diventa il ventiduesimo su ventidue, Totò l’imprescindibile. Contro la Cecoslovacchia – ah: c’erano Cecoslovacchia, Unione Sovietica, Jugolslavia e Germania Ovest in quel Mondiale, ne è passata di storia vero? – Schillaci segna ancora di testa, e agli ottavi con l’Uruguay sblocca il risultato con un sinistro che è arte per rapidità di esecuzione e precisione di calcio. Anche l’esultanza assieme a Baggio è godimento puro.
Gianni Mura, nella prefazione a Ragazzi di latta (sottotitolo: Totò Schillaci si racconta) di Benvenuto Caminiti, pennella proprio la gioia di Totò, «gli occhi sbarrati in una follia allegra, quella del povero che ha trovato un sacchetto di dobloni e crede che sia uno scherzo, non può toccare proprio a lui e invece sì, non sta sognando e non è uno scherzo, è la vita». Essere diventati eroi di Italia 90, significa anche avere avuto il privilegio di essere descritti da Mura, da Brera e da quel Vladimiro Caminiti, penna sublime di siciliano trapiantato a Torino, per il quale Schillaci è colui che il gol lo conquista con la forza, «con lo scarto saraceno dei lombi, con l’orgoglio smisurato del povero».
L’umiltà delle origini è di supporto all’epos, ed è ancora Vladimiro Caminiti a raccontarlo nel 1991, lui che sin dal suo arrivo alla Juventus l’ha preso in simpatia «ma nei rapporti diretti trovo infinite difficoltà non dico dialettiche ma di intendimento, proprio per l’estrazione sociale diversa, il povero scrivano borghese, figlio di violoncellista, e il ragazzo povero del CEP, quartiere palermitano che è un risvolto di umanità anche andata. Che poi Schillaci ne sia risalito fino a conquistarsi il suo posto al sole, va tutto a suo onore, della sua fierezza, del suo coraggio, della sua tenacia, da calciatore provetto nell’istinto, capace di ogni più singolare prodezza tecnica nell’attimo fuggente, acrobatico e spettacolare».
Queste, al contrario del titolo di cui sopra, sono frasi scritte dopo il Mondiale. In queste righe invece non è ancora il tempo, perché ci sono i quarti contro l’Irlanda e l’1-0 è ancora firmato da Schillaci; stavolta il gol è di destro, con un diagonale dopo una respinta incerta di Pat Bonner su tiro di Donadoni. Quarto gol, Italia in semifinale, e anche contro l’Argentina tocca a Totò siglare il vantaggio da opportunista, sfruttando sotto misura una respinta di Sergio Goycochea. L’Italia esce, il sogno si interrompe, ma Totò è già nell’empireo, gli aedi hanno già a sufficienza da scrivere ma c’è ancora spazio per la sesta rete – nella finale per il terzo posto contro l’Inghilterra: un rigore, ma Schillaci fu fondamentale anche per la rete di Baggio – e il titolo di capocannoniere del Mondiale, ottenuto peraltro avendo segnato in tutti i modi: destro, sinistra, testa, su rigore, da opportunista, da fuori area. Totò i dobloni li aveva trovati davvero: Scarpa d’oro del torneo, la consacrazione fra i miti della Coppa del Mondo, addirittura – e questo se lo ricordano in pochi – il secondo posto nella classifica generale del Pallone d’Oro 1990. Lo vinse Matthaus, e meno male, perché sarebbe stato troppo pure per una storia così.
“Ci sono momenti in cui basta che respiri e segni”, avrebbe detto poi Totò nella sua seconda vita, quella post-Mondiale, quella dove gli sarebbero arrivati meno insulti – nel suo primo anno di A fu bersagliato dalle tifoserie avversarie e, con rammarico, Schillaci ammise di esserci sempre rimasto malissimo quando ciò accadeva al Sud – ma la magia sarebbe definitivamente svanita, almeno in Italia, perché poi sarebbe diventato l’eroe dei due mondi in Giappone (Öffnet in neuem Fenster). Per il Dizionario del calcio italiano curato da Marco Sappino (1999) Schillaci è «un mistero», essendo quei 29 giorni difficilmente spiegabili con i canoni di una carriera normale, considerando un dopo in cui, se l’apice è il calcio giapponese, significa che non è nulla in assoluto, anche se da quelle parti, comprensibilmente, Totò è una divinità e comunque uno che ha aperto la strada. Né il gossip che vive di cliché e ricama sui letti d’altri, per non parlare dei reality a tempo scaduto, non possono interessare a tutti coloro ai quali Schillaci ha regalato un sogno. Il Totò del popolo è quello di quei ventinove giorni, con la stempiatura incipiente e venticinque anni che sembravano trenta per un volto e un’espressione da caratterista che non avrebbero sfigurato in una commedia di Verdone. Invece non era un film: era il Mondiale a casa nostra, erano le aspettative esagerate di una Nazionale che mirava al sole nonostante le ali di cera. Poi, al minuto 75 di uno stitico Italia-Austria del 9 giugno 1990 (primavera, non estate italiana), è arrivato lui. Non si esce vivi da Italia 90.
Triplice fischio.
(Öffnet in neuem Fenster)