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LA NEWSLETTER DEL GIOVEDÌ DI ANDREA BATILLA
CHE FINE HA FATTO GIANNI VERSACE?
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Quando per la collezione Primavera-Estate 2018 viene organizzato un tribute show, a vent’anni dalla morte di Gianni Versace, sembra che finalmente possa essere messo un punto fermo alla continua riproposizione del lavoro di quello che da tutti viene impropriamente chiamato lo stilista della medusa. E invece no. Per la pre-fall 2022, questa volta con una sfilata in collaborazione con Fendi, viene di nuovo riproposto un best of di Gianni a dimostrazione che quella morte non è ancora stata superata. Nè a livello personale, né a livello collettivo.
Con la morte i geni vengono santificati. Il processo di santificazione, soprattuto se segue un martirio, serve non solo per mantenere viva la memoria ma anche per avere degli strumenti che i vivi possano ancora utilizzare. Un ricordo in sé non serve a niente ma un insegnamento, una scoperta, un’insieme di regole o un insieme di segni possono continuare ad essere usati molto dopo la morte di chi li ha inventati e resi popolari. Sempre che vengano compresi e reinterpretati.
Gianni Versace è ancora molto attivo sia all’interno del brand che porta il suo nome sia in molti altri posti. Erotismo, barocchismo, decorativismo e un sacco di altri ismi sono profondamente attaccati al suo ricordo e attivati di volta in volta da chi decide di raccogliere a piene mani dal suo lavoro.
Purtroppo non si può mettere il copyright sul senso del lavoro di un artista e come il mondo è pieno di finti Andy Warhol, così la moda, a partire dal 1997 si è riempita di copie più o meno interessanti del lavoro di Gianni. Quasi tutte poco interessanti.
Se è vera la notizia che il marchio della Medusa sta per passare dalle mani di Capri Holding a quella di qualcun’altro, questo è forse il momento di fare una riflessione sul significato che ha o che potrebbe avere oggi questo brand. E anche su come, una volta per tutte, bisogna convincersi che Gianni è morto.
Gianni Versace è stato un personaggio complesso, uno dei primi designer di ready-to-wear italiani a diventare famoso internazionalmente, un’iniziatore di dinamiche ancora oggi attive e di certo un autore che ha portato la moda a fare riflessioni profonde sulla figura femminile, a metterne a fuoco la potenza, a usarne le valenze ma anche le sue contraddizioni. Non si può, in effetti, parlare di Versace, senza sottolineare quanto il suo lavoro abbia sollevato questioni, dubbi, reazioni anche fortemente negative. Nè si può dimenticare quanto la sua vita personale si sia intromessa in quella professionale, l’abbia rincorsa, raggiunta, superata.
Eppure la cosa più importante, il punto di partenza per una riflessione sul lavoro di Gianni Versace dovrebbe essere che la sua parabola professionale comincia nel Febbraio 1972 con la prima consulenza per il brand di maglieria Florentine Flowers e finisce nel Luglio del 1997, quando viene freddato sulla soglia della sua casa di Miami. Un arco temporale di esattamente 25 anni. Nonostante ciò, quello che si ricorda di lui sono solo le collezioni tra il 1989 e il 1994, quelle delle super model, delle stampe, dei ricami, delle celebrity, di quello che gli americani hanno chiamato Va Va Voom. Una visione a tunnel, piuttosto ristretta, che lascia fuori elementi importantissimi del suo lavoro e che anzi lo fa diventare noioso, monodimensionale.
Dopo la sua morte, il lavoro di Versace non è stato né studiato, né rielaborato ma semplicemente riprodotto, infinite volte, da infiniti brand compreso quello che porta il suo nome, in un unico modo. Ortodossia massimalista, erotismo sfacciato e volgare insieme a esibizionismo sociale sono stati gli unici temi sopravvissuti alla morte di Gianni che hanno nutrito, nell’immaginario collettivo, un’idea di superficialità, di glamour vuoto.
Sono poi intervenute le rappresentazioni patinate e artificiose della televisione popolare, come The Assassination of Gianni Versace di Ryan Murphy, che hanno reso la storia personale di Versace qualcosa tra un feuilleton ottocentesco e una crime story. Ma. Il web è pieno di documentari che illustrano teorie cospirazionali che comprendono mafia, CIA, servizi segreti e traffici planetari di valuta.
A questa fissazione collettiva molto ha contribuito anche la sorella, Donatella, che pur avendo tenuto saldamente in mano l’azienda, non è riuscita a farsi affiancare in maniera profonda e continuativa da qualcuno che osservasse il brand da fuori, da lontano, con acume critico. Il marchio è stato così, per quasi trent’anni, schiacciato dal suo stesso heritage, senza la possibilità né la capacità di evolversi.
“Tu vesti le mogli, io le amanti” è una frase di Versace riportata da Armani che continua, ancora oggi, a definire il lascito del suo lavoro in maniera estremamente riduttiva, se non totalmente impropria.
Gianni Versace ha iniziato a disegnare la collezione che porta il suo nome nel 1978, con l’aiuto di Donatella Girombelli per la quale disegnava Genny, e della famiglia Greppi per la cui azienda, la Zamasport di Novara, disegnava Callaghan. Entrambi erano grandi successi commerciali in un momento in cui si stava formando quello che oggi chiamiamo Made in Italy.
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I codici espressivi, a cominciare dalla collezione Autunno-Inverno 78/79 sono molto chiari, perché maturati durante quasi un decennio di consulenze: lunghi cappotti di pelle lucida color cognac chiusi da rigide cinture maschili in cuoio e decorati da volpi argentate e foulard in seta animalier. Basterebbe questa immagine per fissare in mente un metodo di lavoro che si concentra sulla sovrapposizione di segni contrastanti e apparentemente disarmonici. Un universo in cui ciò che è maschile e ciò che è culturalmente femminile risolvono un conflitto vecchio di secoli.
Per Versace essere letterali non ha senso, non comunica niente. Nella stagione successiva, le foglie di palma non sono stampate su eleganti crêpe di seta ma su lascivi e trasparentissimi chiffon che insieme a bomber di pelle nera creano insiemi esplosivi. Quelle foglie di palma sono le stesse che, più tardi, renderanno famoso un vestito indossato da Jennifer Lopez e affondano le radici nella club culture della disco anni ’70 di cui Versace era un grande estimatore e frequentatore.
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Il decorativismo interviene per la prima volta con la collezione Primavera-Estate 1982 che inaugura una fase espressiva nuova in cui Versace usa in maniera libera i segni dell’art dèco di inizio secolo e il lavoro di Sonia Delaunay. Esattamente il momento storico in cui tutto cambia nell’arte occidentale, in cui il quotidiano viene riempito di senso attraverso lo scavo nei colori e nelle forme. Non un caso quindi ma un manifesto di intenti.
Con le stagioni successive entra in gioco l’elemento più noto e riconoscibile del linguaggio di Versace: la maglia metallica. È una fusione perfetta tra l’erotismo libero e leggero dei club newyorkesi e una materia prima legata storicamente all’industria pesante, quella siderurgica. Sulla pelle il metallo sembra leggero come seta, si può drappeggiare, fare volare mentre si cammina o si balla. Il principio maschile per eccellenza viene piegato al servizio del corpo femminile. Non è più l’armatura di Giovanna d’Arco ma diventa l’abito di una Cenerentola che non ha nessun bisogno della fatina per andare al ballo e conquistare il principe. È una rivoluzione che anticipa la riflessione sul corpo femminile a cui la moda arriverà dopo molto tempo.
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Questi sono gli anni in cui il linguaggio di Versace diventa popolare perché capace di raccontare la potenza del femminile senza bisogno di aderire a codici maschili. Mentre Giorgio Armani crea l’uniforme della business woman, understated e produttiva, Gianni distrugge le limitazioni tra giorno e notte, tra lavoro e piacere, tra essere e apparire, mescolando tutto senza paura.
Nella Milano o nella New York degli anni ’80 esiste una divisione apparentemente inscalfibile tra la rispettabile dimensione del lavoro e quella caotica della vita notturna. Eppure sono le stesse persone che di giorno lavorano a Wall Street e di notte partecipano a orgie a base di droghe di ogni tipo, le stesse persone che alla luce del sole aderiscono ai canoni borghesi e di notte li abbandonano, abbracciando un lato oscuro, animale, irrazionale. Quello di Versace è innanzitutto un lavoro di integrazione di questi due aspetti, di riconoscimento privato e personale della possibilità di avere più dimensioni, di essere stratificati e complessi.
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È come se, la scoperta notturna del piacere, del divertimento, del sesso, venissero integrate dentro un’esistenza alto borghese, una volta tornati a casa. Versace rappresenta magnificamente il decennio degli anni ’80 perché ne esalta le contraddizioni, invece di nasconderle.
Il modo in cui questa storia viene raccontata passa attraverso la visibilità sociale. Tutto deve essere visibile, riconoscibile, esagerato nelle texture, nei colori o nelle proporzioni. Per Versace il messaggio dell’abito deve avere un volume tale per cui è udibile anche da chi è distratto o da chi non vuole ascoltare. Questo regola, contrariamente a quello che si pensa, viene modulata nell’arco degli anni in modi molto diversi, arrivando anche a produrre collezioni decisamente minimaliste che però nessuno ricorda.
L’estrema visibilità dell’oggetto i interseca quello che normalmente viene considerato volgare o trash ma che in realtà è la lingua dei segni del Sud Italia, del Mediterraneo e del Medio Oriente. I continui riferimenti alla Magna Grecia non sono vuote narrazioni ma derivano da una vicinanza culturale con le civiltà che nel bacino del Mediterraneo hanno creato quello che ancora oggi chiamiamo decorazione e hanno attribuito a materiali come l’oro potenti valenze sociali ed emotive. C’è Bisanzio e c’è molto Islam nell’estetica di Versace.
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Con Miss S&M, la collezione Autunno-Inverno 92/93, il lato notturno non viene più nascosto ed emerge alla luce del sole. Il tema della collezione non è il fetish, come quasi tutti i commentatori dell’epoca hanno scritto ma il lato camp della cultura gay. È straordinario vedere come i tailleur color pistacchio da brava ragazza si alternano a capi usciti direttamente dall’immaginario leather e western. Versace è riuscito a rendere accettabili elementi di una cultura all’epoca ancora fortemente marginalizzata, cosa che gli costò non poche critiche da parte di stampa e compratori.
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Quando arriva al periodo del massimalismo estremo è perché ha la certezza che, tornata a casa, la sua donna (e il suo uomo) non può essere più disturbata da nessuno e può confondere la vita notturna con quella diurna. Cioè ha il potere di controllare la realtà.
Esiste una pratica erotica che si chiama edging, che consiste nel portare il partner sempre più vicino al climax finale del piacere, impedendogli però di arrivarci.
È su questo principio di elettrificazione dei sensi che Versace ha costruito il suo personale paradiso, usando molti pezzi di inferno, esattamente come prima di lui aveva fatto Yves Saint Laurent.
Questa metafora termina però di avere senso quando il mondo della moda, di fronte a una fortissima crisi economica e politica, ha una fortissima inversione di tendenza e abbraccia un minimalismo spietato e anti borghese rappresentato Prada, Jil Sander, Helmut Lang, Martin Margiela e molti altri. Versace reagisce accettando i cambiamenti e addirittura dichiarando di sentirsi ispirato dal lavoro dei suoi colleghi.
Il focus del lavoro degli ultimi anni di Versace non è il suo tentativo, riuscito, di usare un linguaggio semplificato se non minimalista ma quello di uscire dalla narrazione della famiglia borghese, delle sue paure e idiosincrasie per esplorare un lato oscuro in cui i riferimenti sono esclusivamente individuali, personali e solitari.
Ci riesce in maniera perfetta con la sua ultima collezione, quella dedicata all’alta moda per l’inverno 97/98 che traccia quella che sarebbe stata una nuova strada ma che purtroppo non ha avuto modo di percorrere.
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Questa solida impalcatura teorica viene sostenuta da un lavoro maniacale sulla sartorialità che ha radici nel lavoro della madre e che differenzia in maniera sostanziale il lavoro di Gianni da quello di suoi colleghi come Thierry Mugler o Claude Montana. L’oggetto, il prodotto è l’obiettivo finale di Versace. Anche se estremo deve poter avere una vita nel mondo, sulle strade. Credo che il modo migliore per capire a fondo il lavoro di uno dei più brillanti designer di tutti i tempi sia guardare da vicino i suoi abiti. Cosa purtroppo non facilissima vista la scarsità di mostre a lui dedicate di recente.
Quella di Gianni Versace è una parabola dinamica che abbraccia i tempi e ne è profondamente influenzata. Cosa si potrebbe quindi fare oggi con questo lascito? O per meglio dire, in che cosa si potrebbe trasformare questo brand?
Innanzitutto bisogna sbarazzarsi dalla commiserazione e dalla iper glorificazione. Il nome di Gianni Versace è stato circondato troppo presto da un’aura di santificazione nata dalla spaventosa tragedia della sua morte. In quel momento si è tutto bloccato perché il dolore ha invaso ogni angolo possibile del suo ricordo, non solo per i familiari e gli amici ma per tutti. La drammaticità degli eventi ha reso Versace intoccabile, condannando a morte il suo lavoro. Quando sono stati esplosi quei colpi di pistola si è impedito che il lascito di Gianni potesse ancora vivere.
Nè Donatella nè nessun altro è stato ancora in grado di superarlo. E non sto ovviamente parlando del lutto personale ma della necessità di disincagliare la vita professionale di Versace dalla sua morte.
Chi prenderà in mano il brand dovrà innanzitutto affrontare questo gigantesco ostacolo e lo potrà fare solo ripartendo dal lavoro di Versace.
La radice del lavoro di Versace, come ho detto, è il vestire borghese, in particolare la sua versione mediterranea, appariscente, luogo di incontro di segni e culture diverse, esplosione di contrasti se non di conflitti. Si tratta di un territorio immenso dentro cui scavare perché non è limitato da quello che chiamiamo buon gusto, né da particolari indicazioni geografiche protette. Ci sono tutti i sud del mondo che si incontrano con tutti i nord del mondo. L’abito borghese come anello di congiunzione, di unione, invece che di separazione.
Siamo in un mondo in cui tutto è espresso attraverso segni evidenti. Non è understated, non è sussurrato né invisibile. Ma non è neanche inutilmente chiassoso, né decorativo per il gusto di esserlo.
Parallelo a questo tema e non meno importante c’è quello del piacere fisico, visivo, tattile, olfattivo e anche uditivo. Tutto nell’universo Versace deve procurare piacere, prima di tutto a chi ne indossa gli abiti e poi a chi li vede indossati da altri.
È un piacere che oltre alla visibilità porta un senso di potenza che concede volentieri spazio alla seduzione e all’erotismo ma che non ne costituisce la parte fondamentale. Un orgasmo si può raggiungere attraverso un amplesso o guardando un quadro di Caravaggio. È la forte fisicità della sensazione del piacere che ha una radice intellettuale ma che poi scende nel profondo degli istinti. L’istintività, senza ricevere compressioni, non è più qualcosa da nascondere o da rimuovere ma attraversa gli abiti perché è una componente umana. La più vera, la più sincera.
I questi termini questo è un progetto potenzialmente esplosivo perché non ne esistono di simili. Immaginate Pucci disegnato da Pieter Mulier, Roberto Cavalli disegnato da Simone Bellotti, Ferragamo disegnato da Fausto Puglisi oppure cercate di immaginare come potrebbe essere Chanel di Matthieu Blazy. Insomma, il a questo punto penso che il concetto sia chiaro.
Invece di essere svalutato o copiato, il lavoro di Versace ha bisogno di essere riletto da chi può mantenere una certa distanza, osservarlo in maniera fredda e analitica e conoscerlo talmente bene da arrivare a romperlo senza distruggerlo.