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LA NEWSLETTER DEL GIOVEDÌ DI ANDREA BATILLA

RAGIONE E SENTIMENTO
MILANO FASHION WEEK DONNA INVERNO 25/26
In una famosissima parabola del Vangelo Secondo Matteo, Gesù viene spinto da Dio nel deserto per quaranta giorni. Durante tutto questo tempo verrà tentato da Satana ma dovrà resistere. Ce la farà uscendone fortificato nella fede e nello spirito.
La moda sta esattamente lì: in un deserto in cui i consumi continuano a scendere, tentata da rimedi facili proposti da diavoli da quattro soldi e molto poco aiutata da angeli evidentemente distratti a fare altro.
In questo deserto di idee in cui le azioni sono in realtà reazioni, immediate e irriflessive, ci sono alcuni casi isolati che forse si nutrono di qualche profondissima falda acquifera a cui solo le loro radici riescono ad arrivare. Si contano sulla punta delle dita ma ci sono e hanno i nomi di Simone Bellotti, Glenn Martens, Galib Gassanoff e Adrian Appiolaza. Stranamente, o forse non troppo stranamente, i designer a capo di Bally, Diesel, Institution e Moschino hanno molto in comune tra cui, in primis, la necessità di scavare, dissezionare, recuperare e ricostruire attraverso la forma della ragione, non quella dell’istinto.
Da fuori i tratti distintivi che li accomunano non sono immediatamente evidenti. In questo periodo molti parlano anzi di rallentamento della creatività e arrivano a scomodare la Controriforma, cioè la reazione della chiesa cattolica alla riforma protestante che parte con il Concilio di Trento del 1545.
In realtà, come vedremo è tutto molto più complesso. Se da una parte nel mondo spirano venti di ortodossia conformista, dall’altra nel cinema, nell’arte e nella moda si riflette sul divario sociale, sulle responsabilità di chi da sempre detiene il potere e il denaro e su come possa in questo contesto sopravvivere l’indipendenza di pensiero. Succession non è una serie televisiva sui ricchi ma contro i ricchi e quest’anno ha vinto l’Oscar come miglior film Anora che è costato solo 6 milioni di dollari ed è un film decisamente indipendente.
Vediamo quindi che cosa è successo a Milano.
BALLY (Öffnet in neuem Fenster)
Simone Bellotti, il più intellettuale di tutti, è partito da un’antitesi tipica delle cultura svizzero germanica: quella tra la performance lavorativa, guidata dal raggiungimento di obiettivi e la performance teatrale, libera espressione di creatività. Il tedesco, lingua precisissima, ha due parole diverse per definire questi concetti: Leistung e Aufführung.
Basterebbe questo per capire quanto la ragione sia fondamentale nel lavoro di Bellotti ma conviene invece osservare da vicino gli abiti che hanno appena sfilato per rintracciare un desiderio ossessivo, maniacale, di sventrare dall’interno la rigidità ottocentesca borghese, imbevendola di un veleno mortale.
Bally è in questo momento un laboratorio di ricerca straordinario che sarebbe troppo semplicistico avvicinare a Martin Margiela o Rei Kawakubo. Simone ha imparato la lezione dei numi tutelari della moda intellettuale ma ne usa una versione riveduta, adatta all’oggi. Il suo intento non è, come era per i designer giapponesi e per Margiela, quello di abbattere barricate, di sfracellare i confini secolari del buon gusto e ballarci sopra. Qui il punto è dissezionare il guardaroba femminile e maschile occidentale per ritrovarne l’essenza, per riavvicinarlo.
Quella di Bellotti è una parabola di perdono, di superamento del conflitto, di presa di coscienza che anche da una storia pesante come quella europea può uscire qualcosa di nuovo e gratificante.
DIESEL (Öffnet in neuem Fenster)
E parlando di storie pesanti anche il punto di partenza di Glenn Martens da Diesel lo era: nientedimeno che Coco Chanel, massima dispensatrice di buon gusto ma anche personaggio profondamente chiaroscurale che rimane ad oggi lo snodo fondamentale del ripensamento del vestire occidentale.
In un set che era un esplosione di graffiti, Martens ha provato a riflettere sui codici classici dell’eleganza, quella che nei decenni è diventata un’inutile gabbia, quella che abbiamo talmente tanto interiorizzato da non farci più domande sul suo significato.
Provenendo dalla stessa scuola di Martin Margiela, la Royal Academy di Anversa, il direttore creativo di Diesel ha messo in campo la sua personale rilettura dell’immaginario femminile e maschile non attraverso la tecnica modellistica, come Bellotti, ma usando sofisticate lavorazioni tessili con una matrice nella cultura del denim. La collezione procede tracciando un percorso ideale che parte dai salotti del sedicesimo arrondissement per atterrare nella Los Angeles degli anni Duemila senza però formulare un giudizio negativo sulla cultura abbigliamentare europea ma anzi osservandola con interesse, quasi con amore.
La crudezza estetica di Glenn Martens, che nel frattempo non a caso è anche diventato direttore creativo di Maison Margiela, non ha intenti distruttivi ma ricostruttivi. Nel deserto anche lui ha trovato modo e tempo di riconciliarsi con il passato pesante, che è quello che a Settembre dovrà fare Matthieu Blazy con la sua prima collezione per Chanel.
INSTITUTION BY GALIB GASSANOV (Öffnet in neuem Fenster)
Galib Gassanoff è stato il co-fondatore, insieme a Luca Lim, del brand ACT N.1 che ha lasciato da circa un anno. Nato in Georgia, proprio come Demna, ha da poco deciso di creare un suo progetto personale che si chiama Institution e, non troppo stranamente, è una crasi tra le parole istinto e istituzione. Se vi ricorda i temi delle due collezioni di cui ho appena parlato è perché, come dicevo all’inizio, è questo il concetto che in molti stanno esplorando.
Anche qui le tecniche di lavorazione tessili e modellistiche vengono usate per riabituare l’occhio ad un classicismo depredato da tutti i sostenitori del quiet luxury, dell’eleganza che non passa mai e degli oggetti di moda come beni di rifugio. A Galib interessa costruire oggetti senza tempo non per poter essere rivenduti su Vestiaire Collective ma per sfidare e magari cambiare cosa donne e uomini mettono nei loro armadi. È un modo per avere un semplice paio di pantaloni neri e un top, da lontano normale, da vicino fatto di stringhe di scarpe. Si sta anche qui dentro la tradizione ma si forzano i suoi codici allo sfinimento.
MOSCHINO (Öffnet in neuem Fenster)
Un giorno qualcuno si metterà a studiare quanto Martin Margiela sia debitore verso Franco Moschino. Nel frattempo Adrian Appiolaza ha immaginato un dialogo impossibile tra l’irriverenza gioiosa di Franco e gli intellettualismi freddi di Martin e Rei. Anche qui, i nomi che emergono sono sempre quelli. Facciamocene una ragione.
C’erano importanti intromissioni di linguaggi che apparentemente con Moschino non hanno niente a che vedere ma che, a ben guardare, sono sempre vissuti in parallelo. Franco era un situazionista dadaista che rinfacciava continuamente alla società borghese degli anni ’80 la sua superficialità, sbattendole in faccia le sue stesse ossessioni. Stesso intento dei designer giapponesi e belgi che però, in tempi più oscuri, avevano intellettualizzato il messaggio.
Appiolaza con questa collezione ha dimostrato il suo naturale talento da archivista, esperto conoscitore della materia storica, ma ha anche fatto fare un passo avanti al suo progetto, avvicinandolo al lavoro più complesso che faceva da Loewe.
Anche se si muove dentro una struttura più fragile, rispetto a LVMH, Adrian sta cercando di rendere di nuovo interessante la visione poliedrica di Moschino che era un osservatore caustico del contemporaneo. C’è ancora molto lavoro da fare ma Appiolaza sta finalmente riportando il marchio dove dovrebbe stare, riparando le ossa fratturate o rotte dall’ingombrante e inutilmente lunga presenza di Jeremy Scott.
FENDI (Öffnet in neuem Fenster)
Forse il cuore di tutta la fashion week di Milano è stata la sfilata di Fendi in cui, Silvia Venturini Fendi, di nuovo alla guida del marchio, ha dimostrato come si possa trovare un punto di sintesi perfetto tra guardaroba borghese e innovazione ma anche tra heritage e innovazione. Un compito difficilissimo che solo una donna come lei, incredibilmente potente, riflessiva e intelligente poteva riuscire nel portare a termine. Quella di Fendi non è stata una semplice sfilata ma un vademecum che ogni altro heritage brand dovrebbe fermarsi a guardare.
Cosa c’è di più difficile del guardarsi dal di fuori in maniera oggettiva stando dentro un brand dalla nascita? Probabilmente niente. Eppure ogni pezzo della collezione aveva qualcosa di grandioso, di magnificente senza traccia di compiacimento né di nostalgia. Un bilanciamento perfetto che ha riportato i cuori di tutti a battere dopo anni di silenzio emotivo.
Detto ciò, amici di Fendi, Silvia non può essere un riempitivo. Non deve esserlo. Il brand è suo, non per diritto di nascita ma perché lo è diventato attraverso un lavoro lungo, doloroso e profondo che abbiamo voglia di continuare a vedere ancora per molto tempo.
GIORGIO ARMANI (Öffnet in neuem Fenster)
Ma forse la sorpresa più grande della settimana delle sfilate milanesi è l’improvviso interessamento da parte di stampa e social media di Giorgio Armani.
Sono stato sia alla sfilata di Emporio Armani che a quella di Giorgio Armani e in effetti lì dentro succede qualcosa di strano. Siamo completamente disabituati a vedere su una passerella vestiti che qualcuno potrebbe agevolmente amare, non tanti in termini estetici ma di comprensibilità. Per quanto avvolti da una spessa patina di nostalgia per gli anni 80 e 90, gli abiti provocavano un effetto straniante perché erano quello che sembravano. L’immaginario di Armani ha contribuito a costruire nel mondo l’idea che abbiamo del vestire borghese, popolarizzando la divisa maschile e lo sportswear di lusso per le donne. Il centro del suo lavoro è sempre stato la rappresentazione della borghesia imprenditoriale e del successo sociale, evitando l’esagerazione e navigando nella praticità del quotidiano.
Oggi il linguaggio di Armani non è più allineato con i tempi ma lo spirito e l’intenzione sono talmente forti da tornare ad essere rilevanti, anche per le nuove generazioni. Questo perché l’atto del vestirsi è diventato inutilmente complesso tanto da rendere necessarie orde di influencer e creator che spiegano come abbinare un capo all’altro. Da Armani invece sembra essere di nuovo tutto facile e anche se dubito che i vestiti che abbiamo visto sfilare arrivino in massa nelle strade del mondo, il messaggio che contenevano era decisamente rivoluzionario.
Esistono poi quelli che non sono riusciti a centrare lo stretto spazio di manovra che la moda sta indagando in questo momento, rimanendo chiusi dentro un paesaggio autoriferito o vecchio.
MARNI (Öffnet in neuem Fenster)
Sui paesaggi autoriferiti Francesco Risso da Marni potrebbe scriverci un’enciclopedia. Il suo approccio è sempre stato profondamente personale e questo ha portato spesso a risultati eccezionali. Negli ultimi tempi però l’istinto sembra di gran lunga prevalere sulla riflessione razionale e, come abbiamo visto, questi sono tempi di sintesi, non di sbandamenti. Questa sfilata è stata più una dimostrazione di un narcisismo fuori controllo che un lavorio serio su un brand che nella borghesia illuminata milanese è nato e ha le sue radici.
Il tentativo di Risso di trasportare il marchio in un altrove fantastico, giocoso e artistico ha trovato una fortissima resistenza da parte di Marni, che, come tutti i brand che si rispettino, ha una vita e una coscienza di sè. Ci sono stati momenti in cui l’operazione è riuscita ma nel complesso si è riusciti solo a mettere una pelle nuova sulla stessa sostanza.
PRADA (Öffnet in neuem Fenster)
Prada è il tempio del dialogo tra vestire borghese e avanguardia. O perlomeno lo è stato. Come ho detto più volte, Miuccia non ha trovato in Raf Simons un alleato che esaltasse il suo spirito eccentrico ma un congelatore seriale di emozioni. Separatamente avevano molta forza, insieme si sono spenti.
Questa collezione è stata particolarmente divisiva perché nelle intenzioni voleva riflettere sul concetto di femminilità contemporaneo e sull’ipersessualizzazione dei corpi femminili ma nella realtà era un susseguirsi di abiti fuori proporzione.
Anche se i punti di partenza sono sempre chiari e condivisibili, da Prada spesso ci si perde nell’esecuzione che era il forte di Miuccia quando a fianco a lei c’era Fabio Zambernardi. Non c’è niente di male a pensare a collezioni emotivamente asettiche ma è difficile credere che in questo modo si possa realmente dare una nuova interpretazione al vestire femminile.
Quello che avviene sulle passerella di Prada rimane sulla passerelle di Prada. I vestiti difficilmente diventano oggetti che percorrono le strade del mondo o se lo fanno, come ho visto varie volte durante questa fashion week, sono una versione rivista e edulcorata.
Anche se il gruppo Prada sta attraversando uno dei periodi di maggiore successo nella sua esistenza, il tema della rilevanza potrebbe essere qualcosa su cui riflettere.
GUCCI (Öffnet in neuem Fenster)
Su Gucci non c’è molto da dire se non che questa era una collezione interstiziale, cioè un team work fatto aspettando che arrivi il nuovo direttore creativo. Chiunque sia avrà un gran lavoro da fare. L’identità del marchio è sfilacciata, la direzione non è chiara e l’heritage ormai sembra quasi una maledizione.
Come mi è già capitato di scrivere, Gucci è un marchio aperto. Ha subito trasformazioni così radicali che è diventato elastico, duttile e si concede anche ai punti di vista più popolari senza perdere di significato. Irrigidirlo facendolo diventare monodirezionale non ha senso come non avrebbe senso usare una pentola solo per scaldare l’acqua. Probabilmente Gucci dovrebbe essere pensato come una piattaforma più che come un brand, un posto su cui far succedere delle cose, un gigantesco produttore di eventi multimediali, una media company che si preoccupa più del palinsesto che del singolo conduttore.
Gucci, come Vuitton, non è più un brand nel senso classico ma un insieme di brand con significati anche molto diversi che lo rendono più difficile da governare ma, in prospettiva, decisamente più profittevole. Liberarsi dal concetto di identità è un traguardo meraviglioso che gli indiani chiamano nirvana e che noi percepiamo come la perdita di noi stessi ma in realtà è esattamente il contrario. Il quello stato potrebbe tornare ad essere Gucci se qualcuno avrà l’esperienza, l’intelligenza e la forza di portarcelo.
E infine c’è chi, come Bottega Veneta, non ha sfilato ma è riuscito a dire molte più cose di chi ci ha provato sfilando.
Con una nuova direttrice creative, Louise Trotter, di cui vedremo i risultati da Settembre, e un CEO intelligente, Leo Rongone, il marchio dell’intrecciato ha deciso di ospitare una performance di Patty Smith, una che di certo non ha bisogno di presentazioni. Quello che tutti pensavano sarebbe stato un concerto si è rivelato una perfomance/reading che tanto sarebbe piaciuta ai poeti della Beat Generation, coadiuvata da poetiche videoproiezioni. I testi, scritti da lei, erano ispirati a Pier Paolo Pasolini, di cui ricorre l’anniversario della morte e a Carlo Mollino.
Il coinvolgimento emotivo è stato talmente forte che quando Patty ha cantato Because The Night a cappella, canzone scritta nel 1978 per suo marito prematuramente morto di cui quel giorno sarebbe stato l’anniversario di matrimonio, tutti noi ci siamo ritrovati in lacrime.
Era un’emozione complessa quella che ci ha penetrati. Davanti a noi c’era una figura potente in grado di trasmettere la sua fragilità attraverso l’arte. Un equilibrio perfetto tra sentimento e ragione, tra nuovo e vecchio, che è stata la sintesi massima di quello che in queste sfilate abbiamo visto e di quello che avremmo voluto vedere.