Newsletter #47 - 📑🧑🏻💻 Com’è bello tradurre da Trieste in là? 📖
Quanti di voi, per ragioni accademiche, professionali, o semplicemente per pura curiosità hanno iniziato a studiare una delle lingue oltre il meridiano 13?
Il fascino dell’alfabeto cirillico, georgiano, armeno; l’incantesimo di quelle lettere cugine delle latine ma con qualche peduncolo in più (o in meno) che si vedono in serbo-croato, turco, sloveno; il sortilegio delle interminabili sequenze consonantiche di ceco, polacco, slovacco…
E raccontando con emozione e orgoglio di questa vostra ardua impresa vi sarà stato puntualmente chiesto: “Ma perché studi [lingua “minore” a scelta], a che ti serve? Non è più utile studiare [francese, inglese, spagnolo, tedesco oppure – al massimo! – cinese o arabo]?”
[Speriamo vivamente abbiate risposto che: 1) no, non esistono lingue inutili né tantomeno “minori” e 2) no, non è affatto possibile basare la scelta dello studio di una lingua sul suo ipotetico ritorno economico futuro]
E se vi dicessimo che esiste una compagine di valorosi ambasciatori (Abre numa nova janela), i quali non solo hanno una conoscenza professionale di questi idiomi, ma che addirittura ci lavorano? Stiamo parlando proprio di loro, le traduttrici e i traduttori da Trieste in là: instancabili, curiosi, a volte arrabbiati, altre delusi, ma sempre con qualche asso nella manica da giocare.
Si sentono forse dei don chisciotte? L’editoria è un mulino a vento che macina senza sosta? È più difficile tradurre poesia o prosa? Ma soprattutto perché hanno studiato bulgaro, georgiano, ucraino, polacco, ceco, turco, serbo-croato, russo? Tutte le risposte – e molti fantastici aneddoti – nelle storie di alcune e alcuni di loro raccolte in questo numero.
Buona lettura!
Tradurre dal bulgaro: intervista ad Alessandra Bertuccelli
“Tradurre un romanzo, o un racconto, o saggistica è pure molto bello, ma io sono più un tipo da poesia. Tradurre poesia mi permette di perdermi per ore su una parola, una frase, un accento, di giocare sul ritmo, sulla lunghezza del verso. [...] Tradurre è un mestiere pesante da diversi punti di vista, possono passare mesi prima che un lavoro sia pubblicato e, tasto dolente, retribuito. La poesia almeno la si può vedere anche con un solo colpo d’occhio: eccola lì, cinque, dieci, ventitré, trenta versi. Li ho negli occhi e mi consolo.”
Tradurre dal ceco: intervista a Laura Angeloni
“Possiamo dire che la letteratura ceca è un unico genere, molto profondo e intimistico, che è poi la letteratura che amo. Tutte opere in cui la lingua ha un ruolo fondamentale, e quindi sicuramente più difficili, richiedono maggior fatica da parte del traduttore, che si sente anche più responsabile rispetto al tradurre un thriller dove la cosa importante è la trama. Quando invece lo scopo è ricreare una poeticità molto forte, una sonorità, un ritmo, lì trovo ciò che mi piace, quella sfida e quella creatività che bisogna un po’ mettere nella traduzione.”
Tradurre dal georgiano: intervista a Francesco Peri
“Il georgiano ha rimborsato una frazione di quello che ho investito. Ma non si vive, per l’appunto, di solo pane. Una lingua, anche la più “piccola”, è l’intera realtà, tutta la vita, ancora una volta, daccapo – e quindi è una cosa gigantesca! Per chi ritiene che entrare nell’esperienza altrui sia una cosa buona di per sé non occorrono altre spiegazioni, e non esistono lingue secondarie. I vantaggi non sono orizzontali, cioè relativi ad altre opzioni possibili, ma verticali. Riguardano il rapporto che si instaura con il mondo.”
Tradurre dal polacco: intervista a Barbara Delfino
“C’è una parola che ho usato recentemente per far capire quant’è difficile come lingua, zbezczeszczony, che significa “profanato”. L’avevo tradotta nel romanzo di Joanna Bator e mi sono stupita del numero di consonanti. Siccome mi dicono sempre che il polacco è illeggibile, e secondo me non è vero, ho fatto un post su Facebook in cui sfidavo a mandarmi un vocale tentando di leggere questa parola. È una cosa che mi ha affascinato fin dall’inizio del polacco, parole che sembrano illeggibili e invece non lo sono…”
Tradurre dal russo: intervista a Tatiana Pepe
“In questo momento storico, occuparsi di lingua, cultura e letteratura russa è un po’ più faticoso rispetto a quando ho iniziato, per ovvi motivi, però come mi ha detto una persona a cui tengo molto, per me ormai è diventata una sorta di missione: provo cioè in tutti i modi, con tutte le risorse che ho, nei limiti delle mie possibilità, a raccontare che la Russia non è soltanto la Russia armata.”
Tradurre dal serbo-croato: intervista a Elisa Copetti
“C’è una parola che è utočište, significa “rifugio” e mi piace perché ha un suono pazzesco! Ci ho messo un sacco ad adattarmi a queste sonorità. E poi un cavallo di battaglia, sreća, che significa contemporaneamente fortuna e felicità. Secondo me dà proprio la chiave per capire un po’ questo fatalismo slavo e questo modo di affrontare le cose per cui se sei felice hai anche un po’ di fortuna, e se hai un po’ di fortuna sarai un po’ felice.”
Tradurre dallo sloveno: intervista a Patrizia Raveggi
“Il primo impatto con la Slovenia è stato che venendo io da Nairobi, dove era estate, e fiorivano i jacaranda nei parchi, le bouganville, un trionfo di colori, il cielo azzurro perennemente, sono arrivata a Lubiana alle tre del pomeriggio: era buio, faceva un freddo – mi ricordo che sulla torre nella piazza centrale c’era scritto -23 – e io ero vestita ancora un po’ com’ero a Nairobi, con abiti bianchi… Mi procurai quindi un cappotto un po’ così, giusto per fare. E finii all’ospedale!”
Tradurre dal turco: intervista a Giulia Ansaldo
“Sicuramente tra i vantaggi c’è quello di poter attingere da un bacino immenso, una terra quasi inesplorata. Il lavoro di ricerca e scouting diventa in questo caso essenziale, si ha la possibilità di contribuire alla scelta dei libri da tradurre, degli autori da portare in Italia. In questi miei primi dieci anni di mestiere ho assistito a una vera trasformazione per quanto riguarda l’accettazione della letteratura di Turchia da parte delle case editrici italiane, più curiosità e interesse, anche per opere puramente letterarie e non solo per quelle che hanno un impatto sull’attualità, meno diffidenza.”
Tradurre dall’ucraino: intervista ad Alessandro Achilli
“Le lingue ‘minori’ danno a chi le impara, traduce e diffonde un ampio margine di spazio. C’è tanto da studiare e far conoscere e umanamente c’è la possibilità di creare rapporti intensi con colleghe e colleghi. E poi è anche un modo per liberarsi dal dominio mentale delle lingue ‘grandi’ come opzione di default, dalla pigrizia di pensare che siano le uniche davvero meritevoli, in tutti i sensi, da quello accademico a quello editoriale, passando per quello ‘in senso stretto’. Ed è triste che ci voglia una guerra perché ci si renda conto che le culture ‘minori’ non sono tali.”
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