C’eravamo tanto odiati

Sul web impazzano le feroci critiche alle collezioni (ma sono più invettive deliranti contro i creatori, due nello specifico). Cosa è successo, come ci siamo arrivati, e perché il commentatore medio ha almeno una cosa in comune con Einstein.
“Non riesce proprio a piacermi, sento puzza di piscio”
“Ecco, lo sciacquone del cesso mi sembra un giusto inizio”
“Oltraggioso e veramente indecente. Si vergogni!”
Ma anche
“La Wanna Marchi georgiana. Il nulla cosmico che paga Huppert e Kidman per darsi un tono e giustificare i prezzi”
“He has such a dark energy, evil”
“Balenciaga was tragic and heartbreaking, y’all know it”
Da giornalista, e in generale, da essere umano poco incline alla bagarre social, della quale non vedo la necessità – sono una di quelle persone che litiga, dal vivo, solo con le persone a cui vuol bene, gli altri si scherniscono al massimo – mi mette a disagio soltanto andare a ricercare questi commenti sotto i profili social di Valentino o dei giornali che pubblicano le sfilate di Balenciaga (l’Ig del brand ha comprensibilmente i commenti limitati).
https://www.youtube.com/watch?v=rHBCxpafP6o (Abre numa nova janela)La questione “violenza verbale sui social” non ha nulla di nuovo (anche se non per questo fa meno paura), e ovviamente tocca anche l’ambito della moda. Gli utenti che si sentono integerrimi critici di moda presso se stessi, voci silenziate dalle big corporations perché in possesso della verità (e ovviamente della precisa definizione di eleganza), intellettuali scomodi che non le mandano a dire, fanno parte del tessuto liso e polveroso dei media nati sul web, ed evitarli richiede slalom complessi (anche se la funzione “blocca utente” può portare un minimo sollievo).
La violenza con la quale però, ultimamente gli utenti si scagliano contro i brand – ma soprattutto i loro designer, nello specifico due, da cui quei brand si emanano ogni sei mesi – è aumentata esponenzialmente. Non è solo colpa di Zuckerberg e dei cattivoni della Silicon Valley a cui mancava la “masculine energy” (Abre numa nova janela) che solo i cari vecchi insulti possono così agilmente veicolare, ma si tratta di un problema sociale con più cause (alcune con un peso maggiore delle altre).

Il giornalismo di moda, così come la moda stessa, è un mondo parallelo che nasce come elitista, escludente, per motivi economici o di ceto sociale, per quanto oggi ci si affanni a usare a ogni piè sospinto l’orrenda dicitura “lusso democratico” ( spoiler: se è lusso, non può essere democratico). La sua storia è stata raccontata da persone economicamente privilegiate – i giornalisti oggi sono i nuovi “morti di fame di fascia alta”, come dice Michele Masneri, ma non è sempre stato così. Si trattava perlopiù di persone nate ricche e con possibilità di studiare, viaggiare e acculturarsi, per diventare sempre più ricche e colte. Un esempio su tutti è Irene Brin, al secolo Maria Vittoria Rossi, una delle firme seminali del giornalismo di moda italiano, che portò il Made in Italy sulle pagine di Harper’s Bazaar, dove scriveva perché una volta la direttrice del giornale, Diana Vreeland, l’aveva incontrata a passeggio per New York con suo marito, e le era piaciuto moltissimo il suo vestito. Brin era figlia di un generale di corpo d’armata, autore di trattati militari che ci si immagina dirimenti nelle questioni del mondo; nipote di un avvocato penalista; cugina di un ministro della Pubblica Istruzione, e infine firma sagace (lavorava da Omnibus, il rotocalco settimanale edito dal 1937 e poi chiuso dal regime fascista nel 1939 che manda ancora oggi in solluchero, al ricordo del suo nome, gli intellettuali di questo paese). Era inoltre capace di parlare in maniera fluente cinque lingue, passione passatele dalla madre, italiana di origine ebraica e cresciuta a Vienna. Una sceneggiatura di vita vera che fa invidia in quanto a white privilege al Giardino dei Finzi Contini di De Sica.
Una firma, quella di Irene Brin, come quella di molte altre del passato remoto, che non aveva paura di risultare poco lusinghiera, così come quella di Adriana Mulassano, storica firma del Corriere della Sera attiva fino ai primi anni 90 (qui (Abre numa nova janela) una sua bella intervista a Rivista Studio di qualche anno fa, dove spiega le cose di oggi molto meglio di me). In seguito, con l’arrivo del marketing, le pagine di adv comprate e i toni della voce costretti a una moderazione dei contenuti, in Italia la critica è diventata cronaca, anche infiocchettata con tanti baciotti e complimenti allo stilista.
La postilla del caso è che questo declino è italiano, e non da considerarsi globale. Quando con Andrea Batilla abbiamo incontrato da Moschino Cathy Horyn, la ex fashion director del New York Times che oggi scrive per il The Cut (la ammiro talmente tanto che ho un muro con i ritratti delle donne a cui voglio assomigliare, e lei c’è), abbiamo parlato proprio dell’atteggiamento delle maison, fattesi sempre più minacciose con i giornalisti che osavano fare delle recensioni non lusinghiere delle loro sfilate, al punto da ritirare l’invito per convincerti a più miti consigli. Nel peggiore dei casi, il brand cancellava gli investimenti pubblicitari sul giornale. La Horyn ha confessato che, all’epoca (è stata al NYT fino al 2014) se un brand arrivava a questa extrema ratio, il giornale non comunicava al redattore moda “colpevole” della review – e quindi, del mancato introito pubblicitario – l’accaduto, perché non voleva che il giornalista perdesse, anche solo in maniera inconsapevole, la sua lucidità e il suo equilibrio nello scrivere, lasciandolo realmente libero di esercitare il suo giudizio. Cose che in Italia appaiono fantascientifiche.
Con l’italico approccio di “accontentare” e vezzeggiare i brand, si è però abdicato in toto al proprio dovere primario: fornire gli strumenti culturali al lettore, al fine di fargli comprendere una collezione, esprimendo tra l’altro un giudizio in merito. Diventa così più facile immaginarsi (senza mai voler anche lontanamente giustificare) perché con l’arrivo dei social, le sfilate in streaming e la possibilità di commentare gli account dei magazine o dei brand, senza disintermediazioni, il commentatore si distingua per ferocia, un cane con la bava alla bocca che non vede l’ora di sbraitare il suo sdegno, ed è privo della bussola culturale che il giornalismo non gli ha voluto/potuto fornire. Eppure, i giornali di tempo ne hanno avuto, prima di essere sostituiti dai social, da tiktoker e influencer e yotuber, e non sono più stati l’unico viatico attraverso il quale si poteva esperire la moda.

Dopo esserci assunti le responsabilità che ci spettavano, la realtà è una sola.
Che, nonostante la metodologia dei social odierni spinga quel tipo di commento feroce, lo ricerchi e in qualche modo lo premi, facendolo apparire magari anche più rilevante di quanto in realtà non sia – come sostiene anche Max Fisher ne La macchina del caos – il pubblico odierno, semplicemente, rifiuta con violenza la complessità. L’overdose storica – ogni giorno accadono almeno tre cose, tutte ugualmente deliranti e drammatiche – ci porta a sentirci assuefatti, a rifiutare in toto, come estremo tentativo di difesa, la necessità di continuare a informarci, sfidare la nostra comprensione del mondo, senza sentircene intimamente attaccati. Eppure ci sono intere branche di studio che di questo proprio si occupano, come l’epistemologia della complessità, o filosofi che a questo tema hanno dedicato la loro carriera, come Edgar Morin, oggi 102enne che sostiene che “la complessità è una parola problema e non una parola soluzione”.
E noi, in questo momento, di altri problemi non vogliamo affrontarne, perché ci bastano ampiamente quelli che già abbiamo. Il rifiuto della complessità, in effetti non è un problema che attanaglia solo la moda – che sarebbe certo spiacevole ma non la fine del mondo – ma tutti gli ambiti della nostra vita. Si spiegano così i populismi di varia ispirazione che hanno proliferato negli ultimi anni, dai 5 stelle pre-Conte ai movimenti di estrema destra tedeschi: dare risposte semplici (e per lo più sbagliate, quando non proprio pericolose) a problemi complessi.

E si capisce bene, a questo punto, perché le critiche travolgano le collezioni ideate da Alessandro Michele o Demna, e non quelle invece di Jw Anderson o Alaïa marchi che vivono della vendita di accessori, ugualmente, se non maggiormente, inimmaginabili nelle strade del mondo reale e però assai amati dal commentatore medio. Perché JW Anderson o Pieter Mulier sono totalmente disinteressati alla problematizzazione dell’oggi, e le loro collezioni, esteticamente piacevoli o meno, sono viste come un esercizio artistico del tutto innocuo.
https://www.youtube.com/watch?v=PvxQGNsDxmA (Abre numa nova janela)Questo lungo ragionamento, arrivato finalmente alla sua conclusione, non vuole certo limitare o censurare i gusti del singolo: una collezione può piacere a meno ( ricordandoci sempre che non possiamo considerare la nostra esperienza personale un canone universale a cui tutti devono adattarsi), e d’altronde, i direttori creativi e i manager che li assumono sono pagati milioni di euro, e “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. La prossima volta però che una collezione di abbigliamento è capace di causarci un turbamento, un senso di rifiuto, rigetto, addirittura un’onta (come se Michele e Gvasalia abbiano pensato intenzionalmente di offendere il nostro sguardo), sarebbe forse più interessante andare a fondo di quel sentimento, chiederci se davvero ha a che fare con un vestito, riuscito o meno nell’esecuzione, o se ci sia altro, che quel vestito simboleggia e che noi non riusciamo ad accettare. Perché trasformare una critica a una collezione in una violenta invettiva ad personam, dice molto più delle nostre piccinerie, meschinità e limiti, che di quelli di una blusa con un fiocco o di una felpa sdrucita.
Neanche a Einstein piaceva troppo la meccanica quantistica, (Abre numa nova janela) ma non per questo le ha urlato “Si vergogni!”
We are the fashion pack
Non le bastava CR. La ex super direttrice di Vogue Paris, Carine Roitfeld, insieme a suo figlio Vladimir, lancia Players (Abre numa nova janela), un magazine semestrale dedicato allo sport
Loro Piana ha un nuovo Ceo (Abre numa nova janela), ed è giovanissimo : si chiama Frédéric, e di cognome fa Arnault ( does it ring a bell?)
Il ceo di Vivienne Westwood Carlo D’Amario, si sarebbe reso colpevole di insulti omofobi sull’ambiente di lavoro: lo sostiene il Guardian (Abre numa nova janela), che parla del risultato di indagini interne al brand risalenti al 2023
Parigi ha il suo Met Gala (Abre numa nova janela) ( con cena al Louvre). Manchiamo solo noi. Se vabbè
Dopo dieci anni di assenza, Viktor&Rolf tornano (Abre numa nova janela) con una linea di ready to wear per il prossimo autunno. Ne sentivamo il bisogno?
Brand intelligenti: 13 09 Sr (Abre numa nova janela), il brand di scarpe fondato da Serge Ruffieux e da Emile Faure, che ha allestito la sua presentazione durante la fashion week di Parigi all’interno di una macchina che accompagnava i giornalisti da uno show all’altro. Economico, pratico, utile. C’èst génial!
Per la design week di Milano torna il Miu Miu Literary club (Abre numa nova janela): due giorni di incontri e talk dedicati alla letteratura femminile. Le protagoniste di quest’anno? Simone de Beauvoir e Fumiko Enchi.
The tortured audio visivo’s department
Ho visto A real pain, film per il quale Kieran Culkin ha vinto l’Oscar come miglior attore non protagonista ( Insert meme di Nanni Moretti che dice “ora chiamo Martin Scorsese”).
Invece sono entrata nel loop di Severance ( non fate spoiler sono molto indietro), rendendomi conto che di una serie intelligente e complessa, sentivo la mancanza da tempo
Negli Stati Uniti nessuno vuole trasmettere M. Il figlio del secolo (Abre numa nova janela)(lo sto recuperando adesso con grossa difficoltà emotiva ad affrontare quel momento storico, in questo momento storico). Chissà perché, non sono stupita.
Official soundtrack della settimana
https://www.youtube.com/watch?v=tcvo-C1WQVQ&list=OLAK5uy_mQeMxeq0H1KI7tVRn3zkvPYOtUvo7l4eQ&index=5 (Abre numa nova janela)Bjork, i Sigur Ros, il jazz che si impara nelle scuole di musica, le cantine di Tempio Pausania, gli spazi brulli della Sardegna bruciata dal sole, lontana dal turismo di massa: Daniela Pes si può spiegare sicuramente molto meglio di così, ma sono queste le sensazioni visive, tattili e uditive che ho percepito quando l’ho ascoltata per la prima volta con il suo album Spira, uscito quasi un anno fa. Scritto in una lingua ancora inesistente e incomprensibile, Daniela Pes, classe 1992 e personalità che basterebbe per 10, ti immerge in un tempo e in uno spazio lontano dalle banalità del quotidiano, in preda a un’estasi lisergica e pensosa. La scorsa stagione è stata arruolata da Marco De Vincenzo per curare la colonna sonora dello show di Etro, con una performance dal vivo ( e molti miei amici e colleghi si sono imbucati con l’unico desiderio di vederla dal vivo). Mi è tornata in mente questa settimana perché porterà a breve Spira negli Stati Uniti, e ha concesso un’intervista a Rolling Stone (Abre numa nova janela) dove, con grande classe e compassata eleganza, ha fatto sentire piccolino il solito giornalista musicale tutto gne gne che si lamentava con lei proprio della sua partecipazione a quella sfilata perché “lo aveva indispettito” (dietro c’è il solito ritrito concetto che la musica è arte per gente seria, la moda è quella cosa che si lascia fare alle sceme).
Brava Daniela ( per tutto, ma anche per averci, per una volta, vendicato).
Per questa settimana ci salutiamo, nel frattempo ci teniamo in contatto su Instagram (Abre numa nova janela) , se volete recuperare le mie playlist, sono tutte su Spotify (Abre numa nova janela) . Per chi vive a Milano, l’appuntamento è giovedì: torniamo in Front Row, con Andrea Batilla e Pieter Mulier ( c’è ancora qualche biglietto rimasto qui (Abre numa nova janela)).