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LA NEWSLETTER DEL GIOVEDÌ DI ANDREA BATILLA

MILANO FASHION WEEK UOMO GENNAIO 2025

Foto August Sander
La moda maschile è più criptica di quella femminile. Il linguaggio dell’uomo ha codici che si sono strutturati in almeno due secoli di regole ferree e che solo di recente le persone hanno cominciato a mettere in discussione, a ripensare, in una parola a cambiare. È un processo lento e lungo che ha improvvisi slanci in avanti e rallentamenti controriformisti perché il territorio culturale maschile non è predisposto ai cambiamenti, anzi è antropologicamente basato sull’idea di una solidità inscalfibile.

L’eterno topos che non si realizza mai dell’uomo in gonna è, appunto, qualcosa che non si realizza mai perché il maschile, come categoria, ha la capacità di autolimitarsi ma non di autoespandersi. È più facile e socialmente accettabile non sorridere, non rendersi riconoscibile, non esagerare, non cambiare che il contrario. È più facile accondiscendere, accettare, seguire e rimanere in silenzio che gioire, appassionarsi, scalciare in aria, piangere. Per un uomo.

Secondo l’ OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dei 3.780 suicidi avvenuti in Italia nel 2016 (ultimo dato disponibile), il 78,8 % è di uomini. E questo è un dato che vale anche per Europa e Stati Uniti. Esiste un fenomeno generalizzato di mascheramento sociale in cui, per esempio, i sintomi depressivi pur venendo registrati non emergono, non sono condivisi e quindi non sono curati.

È come vivere in uno scafandro di ferro dal quale non è possibile uscire senza rischiare di bruciarsi. O di morire.

Per questo motivo è interessante, anche se complesso, analizzare i cambiamenti della moda maschile che sono lo specchio dei cambiamenti sociologici del maschile, inteso come principio. Ammesso che sia un principio che abbia la possibilità di essere cambiato.

EMPORIO ARMANI/GIORGIO ARMANI

Se non consideriamo il gravissimo problema di editing (111 e 113 uscite stenderebbero un elefante), le sfilate di Emporio Armani e Giorgio Armani sono state le più riuscite di questa fashion week milanese dedicata alla moda maschile.

Questo modo di vestire rilassato, stratificato, soffice e destrutturato risuona in una maniera piena rispetto al presente e rispetto alla fatica che stanno facendo, ancora, gli uomini per essere liberi. 

Anche se il marchio è diventato famoso negli anni ’80 per aver vestito una classe di maschi arrivisti e votati al lavoro che si chiamavano yuppies, Gorgeous Giorgio ha in realtà sempre rappresentato un approccio al lavoro etico, creando un’estetica in cui il corpo del maschio non viene nascosto ma traspare leggermente dalle pieghe degli abiti destrutturati, con i suoi pregi e i suoi difetti.

Oggi questo tipo di pensiero e di estetica colgono di nuovo lo stato delle cose.

Contrariamente a quanto avviene ogni giorno di più su TikTok, da Giorgio Armani non c’è esibizione, non c’è volontà di potenza, non c’è affermazione pretestuosa del maschile nel senso ottocentesco della parola. Anzi, di ottocentesco non c’è proprio niente. Per Armani il maschile è una categoria liquida, adattabile, che non sfocia mai nel caricaturale né nel femminile ma che rifiuta gli stereotipi del machismo dai tempi di Richard Gere in American Gigolò.

È un abbigliamento potente senza essere aggressivo, elegante senza costruire identità contraffatte, artificiali, esasperate.

Osservare da vicino il lavoro di Armani oggi, anche in retrospettiva, è spesso più interessante che stare seduti in prima fila a una qualunque sfilata di un designer emergente con poco da dire. Giorgio è di fatto l’inventore o il riscopritore di un modo di disegnare vestiti maschili che racconta l’intimo, invece del superficiale.

Il problema vero, che è anche il problema del contemporaneo in generale, è che tutto quello di cui stiamo parlando nella realtà non esiste o esiste in minima parte. Basta guardare i siti di Emporio e Armani per capire che il concetto di merchandising da quelle parti è alquanto drastico e non consiste in un editing intelligente di quanto visto in passerella ma nella riproposizione più o meno monotona di bestseller dal gusto spudoratamente commerciale.

Il messaggio delle sfilate, così chiaro e intelligente, non arriva al consumatore finale che preferisce giacchette smilze e pantaloni stretti come quelli che si vedono durante le pause pranzo sotto gli uffici delle multinazionali.

È un peccato che Armani, inteso come brand, non sia più capace di farsi ascoltare da chi lo compra o lo potrebbe comprare, rimanendo in stallo in dinamiche commerciali vecchie che non aiutano gli uomini a trovare modi diversi per rappresentare sé stessi. Il giorno che ci sarà un cambio al timone, speriamo il più tardi possibile, il nuovo direttore creativo si troverà tra le mani un tesoro con cui costruire percorsi molto interessanti.

ZEGNA

Da Zegna la corrispondenza tra l’immagine che Alessandro Sartori ha voluto dare al marchio e quello che è effettivamente possibile comprare è più chiara. È stato fatto un lavoro molto profondo che ha spostato il brand da un noioso classicismo ad una territorio in cui costruire è possibile, in cui il cambiamento è credibile.

In una delle sue collezioni più riuscite, Sartori è andato ancora più in profondità del solito, arrivando probabilmente all’essenza del suo percorso creativo.

La nettezza razionale e fredda che ha sempre contraddistinto le sue collezioni e il rigore biellese che fa parte del DNA del brand questa volta erano ammorbiditi, trattati in maniera apparentemente casuale. John Turturro aveva l’aria si essersi messo addosso le prime cose che aveva trovato nell’armadio, comprese un paio di camicie stropicciate sovrapposte. Ma anche il resto dei modelli, con facce da intellettuali spettinati e le mani in tasca, sembravano convinti di non avere nessuna convinzione, nessun obiettivo da raggiungere. Per fortuna.

Poi c’erano i materiali, i tessuti, che parlavano una lingua nuova. Tartan, checks, galles, pied de poule hanno introdotto un elemento romantico che sarebbe piaciuto a Leonard Woolf, marito di Virginia e grande amante delle uniformi in tweed da giardinaggio.

Questa è di fatto un’estetica che viene proprio dagli anni ’30 ma che è ancora al centro della discussione della moda grazie al lavoro che Giorgio Armani ha fatto sulla silhouette maschile negli anni ’80, come dicevo prima.

Da Zegna sono convinti di quello che fanno e il fatto che lo facciano da uno dei bastioni del conservatorismo maschile, Biella, è ancora più interessante.

Sartori sta riattivando un linguaggio fermo da almeno cento anni e lo sta facendo proprio nel momento in cui, esattamente come negli anni ’30, i venti vanno purtroppo nella direzione contraria.

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