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LA NEWSLETTER SETTIMANALE DI ANDREA BATILLA
HERITAGE BRANDING ITALIAN STYLE

Uno dei grandi problemi della moda italiana è che ha poca storicità. I marchi nati prima del ’45 si contano sulla punta delle dita e anche quando ancora esistono non sono trattati benissimo. Per fare un esempio, Borbonese è uno dei marchi italiani più vecchi, nato nel 1910 a Torino, divenuto famoso negli anni ’70 per una particolare stampa su camoscio chiamata OP. Provate a cercarla sul loro sito tra borse a 285 Euro che immagino non siano prodotte in Italia. Farete molta fatica.
Certo, ci sono Gucci, Ferragamo, Pucci e Fendi ma sono marchi internazionalizzati dalla nascita, con una storia continua e che, quasi tutti, sono in mano a mega holding.
Se facciamo l’esercizio di sfogliare il numero di Vogue Italia di Settembre 1986, troviamo una serie di marchi, anche molto noti, completamente scomparsi dalla circolazione o non più rilevanti: Krizia, Enrico Coveri, Gianfranco Ferrè, Romeo Gigli, Luciano Soprani, Gian Marco Venturi, Complice, Fuzzi, Genny. Nel numero di Settembre 1996 ci sono Nazareno Gabrielli, Les Copains, Bagutta, Anna Molinari, La Perla, Ruffo, Mario Valentino, Alberto Biani, New York Industrie, Ter et Bantine, Cerruti 1881, Pollini, Piazza Sempione.
Ma il gioco funziona anche andando indietro a Settembre 1976: Agnona, Cadette, Lancetti, Biki, Galitzine, Roberto Capucci, Mila Schon, Basile e ovviamente Walter Albini.
Tutti questi nomi hanno storie e identità precise, spesso archivi importanti e vite che a un certo punto, per i motivi più diversi, si sono fermate o se continuano lo fanno non sfruttando a pieno il loro potenziale. E tutti questi noi potrebbero senza dubbio tornare ad essere rilevanti da un punto di vista culturale ed economico.
Da quando ho cominciato a scrivere sul mio profilo LinkedIn che faccio consulenze sul brand heritage sono stato contattato da molte aziende che mi hanno chiesto di cosa si trattasse esattamente. Questo perché in Italia si fa fatica a sviluppare progetti nuovi partendo da una prospettiva storica che tradotto in parole povere significa usare il potenziale di un marchio con un grande passato per costruirgli un grande futuro.
La confusione deriva innanzitutto dalla parola heritage che in italiano si traduce con patrimonio, acquisendo così una valenza economica. Il suo significato originale ha invece più a che fare con ciò che è stato ereditato, sia in termini di oggetti fisici che di strutture simboliche e lasciti culturali. Il marketing degli anni 2000 li chiamava intangibile assets, beni immateriali.
Esistono però caratteristiche immateriali che sono più facili da capire e con cui, di conseguenza, è più semplice lavorare ma molti dei marchi che ho citato prima, oltre ad avere storie lunghe e gloriose, hanno anche complessità che il sistema industriale e finanziario italiano è culturalmente poco preparato ad affrontare.
Possiamo fare degli esempi.
Les Copains nasce come marchio della BVM, azienda produttrice di maglieria creata da Mario Bandiera a Bologna negli anni ’50, che diventa una delle realtà imprenditoriali più visionarie e versatili. Negli anni le linee di Les Copains verranno disegnate da Walter Albini, Karl Lagerfeld, Anne-Marie Beretta, Thierry Mugler e Jean Paul Gaultier mentre BVM produrrà le collezioni di Versace, Marras e molti altri. E non possiamo dimenticare il fatto che Alessandro Michele ha cominciato la sua carriera lavorativa proprio lì.
Oggi Les Copains, dopo un fallimento, è stata acquisita da OVS ed è diventato un house-brand che vende maglie open switch in lurex a 39,95 Euro made in Bangladesh. L’idea è di dare dignità a progetto di fast fashion usando un marchio noto. Bene ma non benissimo.
Gianfranco Ferrè è l’unico designer italiano che ha lavorato sul Barocco, inteso come periodo storico e anche come forma di gusto. Ha cioè scandagliato il regno dell’eccesso massimalista, restituendone una visione razionale, elevata, illuminata. Magari prima o poi qualcuno smetterà di definirlo l’architetto della moda e di parlare delle sue camicie bianche e gli renderà giustizia.
Nel frattempo il marchio è passato nelle mani di un fondo arabo e sul sito potete trovare dei simpatici abitini in cotone a 185 Dollari mentre ci sarebbero tutti i presupposti per farlo diventare un Elie Saab italiano.
Pino Lancetti è stato uno degli interpreti più straordinari della nascita del Made in Italy grazie al suo talento di disegnatore di stampe, anzi di pittore. Il suo archivio, dovunque si trovi oggi, potrebbe essere una risorsa infinita per riallacciare i legami con un periodo storico, quello degli anni ’70, in cui alta moda e prêt à porter cominciano a fondersi, regalando a tutte le donne comuni il sogno di vestire come Silvana Mangano.
Oggi potete trovare dei bei pigiami in flanella firmati Lancetti con il payoff “Confidenze da condividere”.
Di tutto questo immenso patrimonio abbiamo dimenticato l’esistenza sia da un punto di vista storico ma anche come potenziale di sviluppo di un sistema industriale che sta velocemente retrocedendo nella posizione di terzista, cioè di semplice produttore per altri. Gli heritage brand in Italia sono quindi molto rari ma non sono rari per niente in Francia, un paese che sul proprio passato ci ha costruito la sua fortuna.
Facciamo degli esempi.
Marie-Louise Carven aka Carmen de Tommaso fonda la sua maison nel 1945 e pur essendo una straordinaria precorritrice dei tempi, soprattutto da un punto di vista di azioni di marketing, ha pochissima rilevanza all’interno della storia della moda.
Il marchio è oggi di proprietà di Icicle Fashion Group di Shanghai, interpreta un minimalismo concreto e portabile nel segmento dell’entry luxury e la sua ultima direttrice creativa, Louise Trotter, è da poco passata a Bottega Veneta. Secondo RocketReach il fatturato annuo è di 74,3 milioni di Euro e il deal è costato ad Icicle nel 2018 4,8 Milioni.
Jean Patou nasce come maison de couture dopo la Prima Guerra Mondiale e diventa famoso per la sua attitudine informale e per un interessante lavoro sullo sportswear. Nel tempo rimane attivo grazie ai tantissimi profumi e viene poi acquisito da Procter and Gamble. Alla direzione artistica si succedono Marc Bohan, Karl Lagerfeld, Jean Paul Gaultier e Christian Lacroix.
Nel 2018 viene acquisito da LVMH che mette al timone creativo Guillaume Henry. Patou è oggi un brand contemporary con vestiti monospalla stampati in poliestere riciclato made in Polonia a 950 Euro o top con maniche a palloncino in cotone bio Made in Madagascar a 490 Euro.
Sempre secondo RocketReach il marchio fattura 5,4 milioni anche grazie alle sue molteplici apparizioni nella serie televisiva Emily in Paris.
Jean Paul Gaultier è un marchio che esiste dal 1982 e che a buon diritto fa parte della storia della moda contemporanea. È da poco diventato direttore creativo delle collezioni di alta moda e ready to wear Duran Lantink.
Di proprietà del gruppo spagnolo Puig che fattura 4,3 miliardi di Euro producendo profumi, ha all’attivo 22 fragranze femminili e 20 fragranze maschili.
Mentre l’alta moda è stata un susseguirsi di collaborazioni con gente come Simone Rocha o Chitose Abe di Sacai, sul sito troviamo un tatoo Marinière dress in tulle di nylon stampato a 560 Euro, un corset Trompe l’Oeil dress Made in Portugal a 500 Euro e un black 3d spiral dress a 850 Euro Made in Italy.
Ci sono molti altri esempi che si potrebbero fare: Rabanne, Mugler, Kenzo, Lanvin, Vionnet. Hanno tutti in comune una storicità precisa e una recente resurrezione in territori commerciali che generalmente non hanno n9ente a che vedere con l’originale. Questo dimostra quanto un heritage brand sia un tesoro duttile, elastico e estremamente profittevole se operato nel modo giusto.
In Italia i progetti che negli ultimi anni hanno avuto molto successo commerciale si chiamano invece Golden Goose, Autry, Forte-Forte, Patrizia Pepe, Twinset, Pinko, Liu-Jo, Fabiana Filippi, Lorena Antoniazzi e ovviamente Elisabetta Franchi. Sono cioè storie imprenditoriali autonome, anche di grande successo e intelligenza, che si sono tenute a grande distanza dall’idea di heritage.
Le ragioni sono molte ma ne esistono un paio più rilevanti.
La prima è la difficoltà tutta italiana di confrontarsi in modo oggettivo con il proprio passato, di osservarlo, capirlo e accettarlo, superandolo se è stato traumatico, accogliendolo se è stato piacevole. Siamo un paese che non ha ancora fatto i conti col fascismo ma siamo anche talmente sovraccarichi di lasciti storici da non avere forza e tempo per gestirli. Cosa che invece dovremmo fare.
La seconda è che siamo schiavi del Made in Italy, cioè del fare, dell’artigianalità, del prodotto, della qualità. Nessuna di queste caratteristiche a a che vedere con identità, visione, sviluppo, creatività. Quello del significato del Made in Italy è un blocco psicologico nazionale (ne ho già parlato) che potrebbe essere superato solo con forti azioni culturali sistemiche.
Ma facciamo finire questo racconto in maniera positiva. Un amico che si occupa di finanza di recente mi ha detto “In giro i soldi ci sono, solo che la gente non sa come spenderli”. Mi è sembrata una frase estremamente liberatoria anche se forse eccessivamente ottimistica ma la mia proposta, nel caso qualcuno di voi avesse intenzione di investire soldi in un progetto di moda, è di farlo su un brand con un valore storico. E magari italiano.