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Calcerò #29 – Eredità immateriale

Retropassaggi, 5/24 - Jari Litmanen, perché un nome era tutto quel che davi

Questo è il primo numero di Retropassaggi, il nuovo appuntamento del 20 del mese con Calcerò.
Buona lettura.

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Retropassaggi, 5/24

L’eredità immateriale di un’ideologia o di una persona, l’impatto avuto sul quotidiano della gente comune, può essere cercata e trovata nello spirito di un popolo o di un gruppo, a seguito di un’analisi sociologica non banale. Ma se ne possono anche scovare tracce in qualcosa di un po’ più concreto, verrebbe quasi da dire di tangibile, se non fosse che certe cose non si possono toccare: nei nomi di battesimo, ad esempio. Perché c’è sempre qualcuno che li decide, e c’è sempre una motivazione anche nel prenome più comune, figurarsi quando il nome così comune non è.

«Perché un nome era tutto quel che davi», come sa bene chi ha familiarità con le suggestioni e i testi di una band chiamata Offlaga Disco Pax, che una decina e spiccioli di anni fa scorse l’elenco telefonico di Reggio Emilia e ne ricavò un pezzo memorabile (Onomastica (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), s’intitola) nel quale il concetto di cui sopra, quello dell’eredità di una ideologia o di una persona sul quotidiano, diventa lampante con un elenco che non necessita di spiegazioni.

Appunto. I Paesi Bassi hanno poco a che vedere con Reggio Emilia, la ricerca in questo caso non l’ha fatta un gruppo di artisti ma un giornale (il quotidiano finlandese Helsingin Sanomat) e non si tratta di consultare elenchi del telefono ma di interrogare registri anagrafici: il concetto tuttavia è il medesimo; l’intento della testata era quella di verificare l’occorrenza in loco di un particolare prenome di origine finnica fra L’Aia e Eindhoven, Terneuzen e Groningen. Ebbene, sino al 1992, nessun genitore nei Paesi Bassi aveva mai affibbiato quel particolare nome a un figlio.
Poi eccolo spuntare in una prima manciata di bambini.
Tre anni più tardi sarebbero stati oltre duecento.
Da allora, quel nome non è mai sparito.
Quale nome?
Jari.

Jari, qui il disegno prende forma. Jari Litmanen nel 1992 aveva ventuno anni, si era messo in luce giovanissimo in patria in sei campionati tra Reipas, HJK e MyPa, faceva già parte della nazionale con la quale aveva esordito nel 1989 e segnato la prima rete due anni più tardi. Un talentuoso giovanotto scandinavo, scuro di capelli, dall’aspetto ordinario e tutt’altro che cool, figlio di papà calciatore e mamma calciatrice, ma Finlandia e calcio raramente hanno trovato un esperanto capace di metterle seriamente in contatto.

Tuttavia l’Ajax aveva occhi dappertutto, ed ecco in quell’anno il trasferimento che cambia la vita. Amsterdam, che è un po’ come dire Disneyland per uno nato a Lathi. Eppure era lì per un motivo, Litmanen, in vista di un addio che era solo questione di tempo. Ci sarebbe stato da sostituire, di lì a breve, niente meno che l’enfant du pays Dennis Bergkamp, aria da cherubino e numero 10 sulle spalle, appetito da mezza Europa e soprattutto dall’Italia. Fra i due ci sono appena venti mesi di differenza, ma Bergkamp nel 1992 – anno in cui chiuse terzo nella classifica del Pallone d’Oro, dietro a Van Basten e Stoichkov – era già Bergkamp e all’Ajax era di culto. Intanto, Litmanen andava bene per le riserve. Non che non ci sapesse fare, ma così pensava Louis Van Gaal, almeno all’inizio. Un anno ai margini, poi eccolo, il più previsto e prevedibile degli addii.
Maglia numero 10 sulle spalle.
Auguri, ragazzino.

Bene, Jari Litmanen nacque al mondo del calcio in quel momento, ma nacque già fatto e finito e la sua prima stagione con i galloni da titolare fu trionfale. Il 3-3-1-3 e i triangoli di Van Gaal lo prevedevano quale collante, libero ma non anarchico, fra il centrocampo (Rijkaard vertice basso tra Davids e Seedorf) e l’attacco – Finidi a destra, Overmars a sinistra, in mezzo Ronald De Boer o Kluivert – e il finlandese si è trovato immediatamente a essere un leader.

Messa così, può apparire una scemenza considerando i nomi di quell’Ajax ricco di giovani di straripante personalità, di numi tutelari quali Blind e lo stesso Rijkaard, nonché di un allenatore che non ha mai fatto della modestia la propria cifra. Qui, però, a venirci incontro è un’intervista di David Endt, ai tempi responsabile della comunicazione dell’Ajax (e in seguito a lungo team manager), rilasciata nel 2010 a YLE, la tv pubblica finlandese. Nulla di inedito, perché la trovate ripresa dappertutto. «Non era un timido, non era un ragazzo schivo, ma era modesto. Non uno di quelli che alzano la voce o battono i pugni sul tavolo e dicono “si fa così”. No. Era più un diplomatico, uno che non voleva fare il leader, ma esserlo».

Ora, è legittimo sostenere che, nella fase mediana degli anni Novanta, Litmamen sia stato fra i tre migliori centrocampisti offensivi del mondo, e forse nemmeno quello da posizionare sul terzo gradino del podio. La Champions vinta nel 1995 contro il Milan di Capello, che lo fece marcare a vista da Desailly, fu l’apoteosi di una squadra nel cui equilibrio tattico il suo impatto era fortissimo, e nella sua personale bacheca non manca nemmeno una rete nella finale più ambita, un anno più tardi (segnatevela: ci torneremo), quando l’esito fu diverso.

Eppure, sia durante quel periodo, sia a ritiro avvenuto, l’impressione è che non abbia ricevuto il credito meritato, non tanto fra gli addetti ai lavori, quanto a livello di popolarità globale. Questione di indole, della modestia di cui parlava Endt che è poi quella di chi la vetrina non se la va a cercare; questione anche di cittadinanza, perché d’altronde se sei finlandese puoi anche essere un fuoriclasse, ma Europei e Mondiali sono roba d’altri, e qui non si parla di vincere, ma proprio di partecipare, perché esserci è un’eccezione, mentre la regola è star fuori.

Questione anche di caratteristiche tecniche. In Litmanen c’è tutto: coordinazione, visione di gioco, stile, tiro e persino acrobazia. Tutto, e tutto agito al meglio. Il punto è proprio qui: la precisione non dà dell’occhio e – dove il tocco, l’apertura, l’assist o la conclusione non sono fini a sé stessi – rifugge l’ostentazione del palleggio e l’onanismo del gesto a sorpresa.

La versione calcistica di Litmanen è un’estetica strumentale, di servizio. Trovarsi dove è necessario essere, fare la cosa giusta, farla nel modo giusto. Chi lo ricorda per averlo visto giocare non fatica a ritrovarlo in questa descrizione mentre chi, per ragioni anagrafiche, di Litmanen ha solo sentito parlare, può andare su YouTube alla ricerca dei filmati che raccontano proprio questo paradosso, vale a dire la totale assenza di platealità (perfino nei numerosi e splendidi gol in semirovesciata) generata dalla pulizia di gioco di un atleta agile e dotato di piede raffinatissimo. Anzi due, perché il finlandese era ambidestro.

«Dennis all’Ajax è stato eccezionale, ma il miglior numero 10 di sempre è stato Jari». Parola di Frank Rijkaard, e basta il suo sigillo a certificare come, in sette anni ad Amsterdam, Litmanen sia stato capace di cancellare Bergkamp, di esaltare i Kanu e i Musampa, di migliorare le connessioni tattiche dei McCarthy, dei Babangida, degli Arveladze. Di vincere tutto da protagonista pur con l’aria da comprimario, segnando peraltro caterve di reti, spesso di limpida perfezione tecnica. Ma a volte è nella filigrana della sconfitta che si possono cogliere i dettagli.

Litmanen è, a oggi, l’unico calciatore ad aver segnato una rete in una finale di Champions League contro la Juventus senza poi essere riuscito a strapparle il trofeo. Aspetto, questo, che lo rende uno spauracchio esorcizzato e in fondo una buona memoria persino per i tifosi bianconeri, che sudarono freddo sul quel gol e pure sul rigore che il finlandese segnò nella serie conclusiva del 22 maggio 1996 all’Olimpico di Roma. Litmanen fu il capocannoniere di quell’edizione della Champions, ma quella rete, si diceva: punizione di Frank De Boer, Peruzzi sbaglia e smanaccia la sfera a centro area.
Litmanen è lì, e già questo significa più di qualcosa. La blocca spalle alla porta, la protegge e si protegge da un vecchio marpione quale Vierchowod e, raggirandolo, si gira.
La tocca dove il portiere non arriva.
Due secondi, qualche decina di centimetri in mezzo agli avversari, nel caos nell’area di una finale in bilico.
Calma e consapevolezza dei propri mezzi.

Non è il canto del cigno per Litmanen, lo è per quell’Ajax sul quale, da copione e per tradizione, pende la spada di Damocle della diaspora. Salutare, incassare, ricostruire e rilanciare. Voi, nuovi discepoli, seguite quell’uomo: vi mostrerà come stare in campo, e come stare al mondo. Qualche anno più tardi lo avrebbe insegnato anche al più improbabile degli allievi: Zlatan Ibrahimovic, il quale non ha mai nascosto la propria gratitudine per i consigli e l’aiuto che Litmanen gli diede nei suoi primi mesi all’Ajax, dove nel 2002 il finlandese era tornato dopo un triennio lontano vissuto tra Spagna e Inghilterra.

Perché sì, nel 1999 se n’era andato anche lui, e quando si fa bene in Olanda tutte le strade portano al Barcellona. Da Crujff in avanti è prassi consolidata. Non va sempre bene, ma spesso sì, e poi in blaugrana c’era Van Gaal (e Reiziger e Bogarde, i gemelli De Boer e Kluivert, e dal 2000 anche Overmars, tanto per gradire) e insomma se è stato trionfo da una parte nulla osta che l’alchimia riproduca la magia anche altrove. Una sorta di proprietà transitiva che nel calcio, semplicemente, non funziona. Non così.

«Quando cambi club, bisogna adattarsi ad una nuova cultura. Non tutti i giocatori sono capaci di farlo». È il bacio di Giuda di Van Gaal, e nel gennaio del 2000 Litmanen lascia il Barça lasciando poche tracce e a parametro zero. Chi gongola è Gerard Houllier al Liverpool: «Abbiamo acquistato un giocatore di classe mondiale, la sua fama non ha bisogno di altri commenti. Questo è uno dei colpi più entusiasmanti nella storia del Liverpool».

Il francese non è entrato nella storia per essere un maestro di tattica, certo non è mai stato un entusiasta del calcio offensivo, e anche per questo in quell’anno e mezzo ad Anfield Road il finlandese che si prendeva le copertine non era Litmanen, ma Sami Hyypiä, difensore centrale che è lo stereotipo del calciatore scandinavo: biondo, altissimo, lento quanto basta ma altrettanto difficile da superare.

Jari? Rare tracce, linde per carità, ma rare appunto fra collocazioni tattiche non ottimali – mai però una critica, da parte di Litmanen: oggi, qualcuno gli darebbe dell’aziendalista, accezione negativa per chi, semplicemente, rispetta i ruoli – frammiste a infortuni vari ed eventuali. Il resto è mancia: il ritorno da vecchio sovrano all’Ajax, quello del cuore al Lathi – erede del Reipas nel quale aveva giocato agli albori della carriera, squadra di casa e di papà Olavi – la parentesi all’Hansa Rostock, quella al Malmo, un pressoché invisibile cameo al Fulham, infine di nuovo il Lathi, l’HJK, tutti i record con la nazionale finlandese, il ritiro a 40 anni abbondanti.

Il dubbio, allora. Una carriera lunghissima – esiste anche una domanda su Trivial Pursuit; se per caso, giocando, vi viene chiesto chi sia stato l’unico calciatore a disputare gare da professionista in quattro decadi (’80, ’90, anni Zero e Dieci), non esitate nella risposta: è proprio lui – per una gloria effettiva limitata a un lustro: ci siamo tutti lasciati esaltare da un fuoco fatuo? Non è che l’ex ragazzino, quello che negli inverni finlandesi giocava (e bene) a hockey, ci ha fregato tutti facendosi ricordare più del poco che è stato?

No. Lo testimoniano centinaia di piccoli Jari ormai cresciuti, quelli che hanno avuti in dote il nome del kuningas, del re. Perché un nome è tutto quello che dai. E non lo si dà mai per caso.

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Triplice fischio.

Calcerò - il futuro del pallone è curata da Lorenzo Longhi (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)
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