Cos’è sexy, oggi

L’opera prima di Veronica Leoni per Calvin Klein è piaciuta alla stampa di settore, che le ha però consigliato di spingere l’acceleratore sul fattore sexy, cifra storica del brand. Ma il mondo è cambiato, e forse siamo cambiate anche noi. Parliamone.
Secondo l’Oxford English Dictionary, era il 1896 quando fu usato per la prima volta il termine “sexy” ( a coniarlo fu lo scrittore inglese Arnold Bennett, partendo dalla parola inglese sex, dal latino sexus). Da allora, quell’inglesismo è penetrato agevolmente in ogni altra lingua del globo terracqueo, a significare la capacità attrattiva di un oggetto o di una persona, sulla base ( spesso) della sua apparenza esteriore. Quell’aggettivo si è poi adattato a quelli che, nel corso delle decadi successive, sono stati i canoni estetici di riferimento (mai inclusivi, è il caso di specificarlo). Nella scorsa settimana, il mondo della moda è ritornato a interrogarsi parecchio su cosa è sexy, nel 2025: l’occasione è stata quella del debutto di Veronica Leoni come direttrice creativa di Calvin Klein ( il brand è tornato a sfilare in passerella dopo quasi 7 anni di assenza, alla presenza del suo fondatore, che non vedeva una collezione del suo brand, invece, da quasi 20 anni). Leoni – alunna di Jil Sander ma soprattutto di Phoebe Philo, con cui ha lavorato da Céline, e la cui lezione ha sublimato quando poi è divenuta design director del brand di riferimento della moda che legge Joan Didion e il femminismo della terza ondata, The Row – aveva anticipato in un’intervista al New York Times (Opens in a new window) che il suo obiettivo era ridefinire i confini e le possibilità di quella parola.
Un lemma che nel vocabolario di Calvin Klein è stato costantemente illustrato dalle immagini di una Kate Moss post-adolescente in intimo, al fianco di Marky Mark, al secolo Marc Wahlberg nella sua fase hip hop, così come dalle campagne firmate da Richard Avedon dove una Brooke Shields in camicia e jeans – con posa plastica – chiedeva ammiccante allo spettatore “Do you wanna know what comes between me and my Calvins? Nothing”
https://www.youtube.com/watch?v=cD3zMCWwQeo (Opens in a new window)La collezione “Calvin Klein Collection”, raffinata come da previsioni, con costruzioni complesse – la stessa Vanessa Friedman ha parlato sul NYT di “minimalismo monumentale” – è stata genericamente considerata un buon inizio dalla stampa di settore. Un saggio molto rispettoso dell’originale, con ironiche rivisitazioni (come nel caso della boccetta del profumo CK One, tramutata in una borsa) e il nume tutelare e stilistico di Carolyn Bessette a proteggere lo spirito di questo debutto (la stessa Bessette, nelle migliori sceneggiature da film romantico, lavorava proprio negli uffici di New York di Calvin Klein quando incontrò il futuro marito John John Kennedy). La stampa ha però consigliato per il futuro, una più corposa iniezione di “sexy”, prescritta dalla ricetta del fondatore.
La questione mi ha suscitato degli interrogativi, che mi sono posta non solo come giornalista, ma come donna (bianca, cis, prossima ai 40). Guardando quella collezione, ho trovato seducente l’idea di un maxi cappotto indossato sopra la pelle nuda, così come quella di un blazer minimalista, privo di dettagli visibili, con bottoni a scomparsa, linee morbide che accarezzano la vita senza stringerla, e solo l’orlo delle maniche forse un po più alto del dovuto, a mostrare il polso nella sua interezza. Ma cosa vuol dire, sexy, oggi? Come è cambiato dagli Anni ‘90 al 2025 il rapporto con il proprio corpo, e l’immagine che di quel corpo si proietta nel mondo?

A livello generale, il rapporto delle nuove generazioni con il proprio corpo e la sessualità è divenuto sempre più problematico ( qui (Opens in a new window) un articolo del Los Angeles Times che affrontava la questione già nel 2023). Ma le donne? «Nel 1990 accade una cosa epocale: esce Il mito della bellezza di Naomi Wolf, un libro che fa da spartiacque, tra il prima e il dopo» spiega Giulia Paganelli, scrittrice e antropologa dei corpi. «Quel libro è tutt’ora attualissimo. Al suo interno Wolf spiega che gli ideali di bellezza sono una gabbia invisibile, che spingono le donne a spendere tempo e denaro per ottenere un’apparenza che le renda accessibili agli occhi dominanti della società, cioè al famoso sguardo maschile, “il male gaze”. Siamo invitate implicitamente ad adeguarci a quegli standard – che sono prossimi alla perfezione e quindi in realtà irrealizzabili – e non ci rimane tempo per fare altro, come ad esempio raggiungere potere e indipendenza. Prima di allora le donne non avevano percezione di questi meccanismi, e neanche il femminismo: Wolf ha messo le cose nero su bianco.

«In quegli anni si ispessiscono i grandi movimenti di liberazione del corpo» prosegue Paganelli. «Negli Anni ‘90 e 2000, in concomitanza con il femminismo intersezionale, arrivano la body positivity e la body neutrality. E proprio la body neutrality sostiene che l’essere umano ha valore a prescindere dal corpo che indossa, decentrando l’attenzione dalla fisicità, che era stata invece il fulcro del discorso della body positivity. Quando togli attenzione dal corpo, concetti come sessualità e sensualità che sono profondamente fisici, si modificano, e creano ovvie difficoltà in un sistema patriarcale come la moda, che vuole venderti un sogno, che però in realtà non è certo per tutti, altrimenti non sarebbe un sogno. Infine, non bisogna dimenticare che ciò che è “sexy”, in passato, è sempre stato definito e approvato dallo sguardo maschile: essendo Veronica Leoni una donna, è ovvio che il suo punto di vista si scontri con uno stereotipo costruito nei decenni, pubblicizzato anche dai media che propongono da sempre il corpo femminile, inevitabilmente, come un oggetto dello sguardo, terreno su cui altri agiscono. Ciò che è sexy, o anche sinonimo di “sessualità” però può essere anche l’intelligenza, il carisma, l’ironia, caratteristiche slegate dal corpo».

E in effetti la stessa Veronica Leoni, nella sua intervista col NYT, ha parlato di un ribaltamento della prospettiva, sostenendo, a ragione che «le donne sono sempre state “oggetto del desiderio”. E se invece diventassero loro, quelle che quel desiderio lo provano? Per me è più interessante trovare una certa attitudine del corpo. Per questo non ci sono spalline, ad esempio. A volte la costruzione degli abiti modella il corpo in un certo modo: io voglio che sia il corpo a modellare gli abiti». Un’operazione necessaria – non solo nella moda – che richiede tempo per essere assorbita dall’occhio del cliente finale (anche se la moda non è famosa per la sua pazienza). Basterà allora aspettare e sperare? «Siamo in un periodo di grande restaurazione su più fronti» conclude Paganelli. «I media iniziano ad eliminare certe parole, abbandonano le loro policy sulla diversity e l’inclusion, dando implicitamente ragione a chi è rimasto a un mondo nel quale tutte queste istanze non esistevano, e che quindi oggi affermano che la donna di Calvin Klein non è sexy, in quanto non è oggetto dell’azione. La società può essere conformata e guardata in un altro modo: bisogna fare resistenza. E serve tempo, ma non abbiamo alternative»

SPECIAL ANNOUNCEMENT

Milano, Teatro Franco Parenti.
Due voci nuove del panorama italiano della moda: Niccolò Pasqualetti e Sabrina Mandelli.
Io e Andrea Batilla.
I biglietti, in anteprima di un paio d’ore sul resto del mondo, li trovate qui (Opens in a new window) .
(Per chi non è a Milano, la puntata sarà condivisa su Spotify e YouTube una settimana dopo).
We are the fashion pack
Il tema del Met Gala è stato svelato. Si tratta di “Tailored for you” ed è ovviamente correlato alla mostra “Superfine: Tailoring black style” che celebra l’apporto della comunità nera al lungo discorso sulla moda. La notizia più bella è che però tra gli host dell’evento, cioè quelli che insieme ad Anna Wintour faranno “gli onori di casa”, c’è Dapper Dan (Opens in a new window), il sarto di Harlem che intervistai anni fa per una sua collaborazione con Gucci. Ce l’eravamo augurato, ed è, effettivamente, successo.
Il brand Palm Angels è stato acquistato dalla società newyorchese Bluestar Alliance. Contestualmente, il direttore creativo e fondatore del brand, Francesco Ragazzi, lascia. (Opens in a new window)
Nigo, stilista di Kenzo, è stato nominato direttore creativo della catena di alimentari giapponese Family Mart (Opens in a new window), di cui dovrà cambiare l’estetica. Che il cibo e la moda flirtassero da tempo era cosa nota, ma qui abbiamo sbloccato un nuovo livello.
I due co-fondatori di Area si separano (Opens in a new window): Piotrek Panszczyk lascia dopo 10 anni. Nel brand, che non sfilerà alla New York fashion week, rimane la stilista Beckett Fogg. A sostituirlo è arrivato Nicholas Auburn (Opens in a new window), senior designer della couture di Balenciaga.
Vi ricordate quando, alla diretta di due settimane fa, avevamo detto che Jacquemus era alla ricerca evidente di un investitore? Ecco, l’ha trovato. (Opens in a new window)Prepariamoci alla linea beauty.
Serge Brunschwig, ex ad di Fendi, è arrivato da Only The Brave, dove avrà il ruolo di ad di Jil Sander. (Opens in a new window) Si prepara un cambio anche alla direzione creativa?
Le tariffe di Trump contro la Cina? Potrebbero non essere una grande idea per più di un motivo. Il governo di Pechino ha inserito PVH ( il gruppo americano che possiede Tommy Hilfiger e Calvin Klein) nella sua lista di “unreliable entity list” (Opens in a new window), una lista nera di aziende che incontreranno delle limitazioni nell’import/export con il paese.
Dua Lipa è il nuovo volto della Chanel 25 (Opens in a new window): quando da quelle parti si rederanno conto che l’unica testimonial rilevante culturalmente per il brand nel 2025 è Lana Del Rey (Opens in a new window), ci faremo un favore.
Quando la settimana scorsa Sabato De Sarno aveva annunciato l’addio a Gucci, in questo pezzo (Opens in a new window) avevo anticipato come quella dipartita potesse dipendere dai risultati economici che sarebbero arrivati da lì a qualche giorno. Sono arrivati, (Opens in a new window) e fanno male.
I grandi conglomerati cominciano a “fare pulizia”, vendendo alcuni asset immobiliari. Kering ha ceduto The Mall (Opens in a new window) – l’outlet con sedi a Firenze e San Remo – alla società immobiliare statunitense Simon, per 350 milioni di euro.
The tortured audiovisivo’s department
La cerimonia degli Oscar si terrà il 3 marzo: quante altre figure barbine potrà fare Karla Sofía Gascón prima di far escludere se stessa ed Emilia Pérez (Opens in a new window)dalla corsa per le 13 statuette?
Special su Netflix da recuperare Mo Amer: The Vagabond. Racconta la sua storia di rifugiato palestinese in Texas, e c’è molto da ridere.
Qui si sta ancora pensando all’Halftime show del Superbowl di Kendrick Lamar. (Opens in a new window) Una esibizione che passerà alla storia, la cui portata Celine e Martine Rose sono stati abbastanza intelligenti da capire subito. Momento più bello: quando ha citato il poeta e attivista Gil Scott-Heron e la sua frase “the revolution will not be televised” togliendogli il “not” e proseguendo con “You picked the right time, but the wrong guy”. Si riferiva a se stesso (molti lo reputano già il nuovo Messia della musica di protesta) o al nuovo presidente USA, presente all’evento?
Lady Gaga ha presentato la sua nuova canzone, Abracadabra, e la sua correlata nuova estetica, che sembra un ritorno alle sue origini di Mother Monster: qui (Opens in a new window) spiegati per bene tutti i look del video, compresa la tuta in pizzo bianco realizzata da Olivier Theyskens, lo stilista belga che ha reso Rochas interessante nel 2003, e a cui, colpevolmente, il mondo della moda non ha dato i meriti che gli spettavano.
Off topic ma non si può non dirlo: ad aprile Il Saggiatore pubblica Notes to John (Opens in a new window), un inedito libro di Joan Didion, sostanzialmente il suo diario indirizzato al marito John Gregory Dunne. Non è un’esercitazione, ripeto, non è un’esercitazione.
Official soundtrack della settimana
https://www.youtube.com/watch?v=a6Kv0vF41Bc (Opens in a new window)Ho visto A complete unknown e quindi è il momento di condividere questa storia, per farvi capire il livello del legame parasociale che intrattengo con Dylan.
Avevo 23 anni quando sono arrivata a Milano. Senza essere drammatici, il mood era più o meno “emigrante con la valigia di cartone, ma con la laurea” ( o così la racconta mia nonna a chi glielo chiede). I miei non capivano cosa volessi fare, e di base non potevano permettersi di mantenermi a Milano. Ero “on my own”, per dirla con le parole della canzone, la stessa che avevo ascoltato per i mesi precedenti per darmi coraggio. L’ascoltavo, forse con un iPod, anche sul pullman che da Malpensa mi stava portando in una città alla quale chiedevo di mostrarmi il futuro. Mi sembrava che i miei coetanei della provincia sapessero benissimo quale fosse il loro posto nel mondo, mentre io avevo solo domande. Su quel pullman ho realizzato che ero senza paracadute, “ a complete unknown” in una città dove non conoscevo nessuno, e nessuno mi conosceva, “with no direction home”, perché la casa che avevo me l’ero lasciata alle spalle. E per quanto la situazione fosse, obiettivamente, così precaria da atterrirti dalla paura, quel sentimento si mescolava a un eccitante tumulto interiore, nella consapevolezza che mi ero ritagliata “una possibilità” di essere chi volevo. E ho scoperto che il coraggio di trasformarsi in se stessi, qualunque cosa voglia dire, è in fondo alla paura, quando Dylan canta “when you ain’t got nothing, you got nothing to lose/ you’re invisibile now, you’ve got no secrets to conceal”.
Bob Dylan aveva 24 anni quando scrisse Like a Rolling Stone.
A dimostrazione che essere ventenni è uguale in ogni decade, se lo sei negli Anni 60 ma pure nel 2009. Ed ecco perché, ogni cosa che so, la devo a Bob Dylan.
(Questo video è della sua esibizione al Newport Folk Festival del 1965, quella raccontata dal film, dove rinnegò l’immagine da cantante di protesta che il pubblico gli aveva cucito addosso, e imboccò la “svolta elettrica”. Aveva appena eseguito Maggie's Farm: all’inizio di questo video il pubblico lo fischia. Ma a lui non sembra importare. Perché ha scelto su quel palco di essere se stesso, e non quello che gli altri volevano che fosse. Che poi è quello che auguro a tutti voi, a vent’anni, ma anche dopo).
Per il resto, ci ritroviamo la prossima settimana. Nel frattempo ci teniamo in contatto su Instagram (Opens in a new window), ma pure tra le pagine de Linkiesta Etc (Opens in a new window).