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Calcerò #17 - Poraccitudine

L’Arabia Saudita segue la sua visione e si compra il calcio. E la Serie A s’attacca il bollino sovranista del Made in Italy

Ben ritrovati.

A dispetto dell’eventuale slittamento di questo numero, preventivato un mese fa, in realtà qualcosa da dire c’è, il tempo l’ho avuto ed ecco puntuale Calcerò. Si parla di Arabia Saudita e di scenari futuribili, qui, ma il titolo, con un mirabile inserimento in area a fine partita, se l’è preso la Lega di Serie A.

Iniziamo.

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MADE IN ITALY

Avrete letto tutti dell’intervista del quotidiano spagnolo As l’amministratore delegato della Lega di A Luigi De Siervo, almeno nella parte in cui annuncia il rebranding del nostro massimo campionato all’estero: si chiamerà Serie A Made in Italy, una tautologia (peraltro Serie A è sufficientemente riconoscibile, e del resto all’estero si utilizza spesso il “calcio” come denominazione geografica tipica, essendo inconfondibile: perché non sfruttarlo?) della quale non si vede l’utilità se non in termini politici, anche perché in effetti è frutto di un accordo con il governo che sgancerà 10 milioni per questa operazione. Nell’intervista ad As, del resto, De Siervo ci tiene a precisare come «i nostri profitti aziendali sono passati dai 30 milioni di tre anni fa ai 70 di oggi». 
Verrebbe anche da dire che è facile se un governo te ne sborsa ben 10 per una scemenza del genere, ma tant’è.
Ma che cosa ci guadagna il governo? Lo scopriremo, ma sa tanto di campagna sovranista che coinvolge anche lo sport. Dal 2021, per esempio, il Gran Premio di Formula 1 di Imola si chiama (title sponsor a parte) Gran Premio dell’Emilia-Romagna e del Made in Italy, e del resto il 31 maggio il Consiglio dei Ministri ha approvato il cosiddetto disegno di legge sul Made in Italy, che prevede tra le altre cose l’istituzione del liceo del Made in Italy e della giornata nazionale del Made in Italy.
Non so se sia il caso di andarne fieri o meno.

RISALIRE

Sia come sia, la Lega di A esulta, come del resto fa la FIGC che, da quando Gravina si è legato a Ceferin (il quale, per ora, sta stravincendo la battaglia politica, con metodi piuttosto autoritari), sta ottenendo di tutto anche a livelli di risultati, che raramente sono slegati allo zeitgeist politico. Però, capirete, la A e il calcio italiano in generale non per questo appaiono un prodotto appetibile. Vero è che arrivano investitori stranieri, ma non pensate che lo facciano perché il prodotto vale: lo fanno perché il livello si è talmente abbassato, negli ultimi vent’anni, che adesso c’è spazio per risalire almeno un po’ e chi sa fare business – che sia calcio o componentistica meccanica non ha rilevanza – ha capito che qualcosa, oggi, può guadagnarci, anche solo tentando di razionalizzare o normalizzare l’esistente. Ne accennavo il mese scorso: “calcio is back” è uno slogan, la realtà è che “calcio is down” e, per questo, può diventare in qualche modo profittevole, avendo comunque un mercato tradizionale. Insomma: se non si hanno i denari dei sauditi, almeno bisognerebbe avere delle idee organiche sul futuro. E invece ci si esalta per un bollino: è ciò che a Roma, con grande capacità evocativa, definiscono  poraccitudine.

SETTANTACINQUE PER CENTO

Qui però il focus è tentare di capire cosa significhi la più grande notizia calcistica delle ultime settimane, vale a dire l’annuncio del Public Investment Fund (PIF), il fondo sovrano dell'Arabia Saudita, relativo al progetto di investimento nei quattro principali club sauditi –  Al Ittihad, Al Ahli, Al Nassr e Al Hilal – che, pur affidati a dirigenze diverse, saranno controllati al 75% dallo stesso fondo, che li foraggerà. L’Al Nassr è già il club di Cristiano Ronaldo, l’Al Ittihad quello nel quale giocherà Benema, l’Al Hilal quello che ha tentato sino all’ultimo di convincere Lionel Messi a preferire l’Arabia Saudita all’Inter Miami. Questa mossa aprirà inevitabilmente per i club delle nuove opportunità commerciali, e l’obiettivo apparente di PIF, che potrà così attirare diversi giocatori di nome, magari verso la fine della carriera, è quello di aumentare l’appetibilità della lega saudita, oggi ben oltre il cinquantesimo posto nel ranking relativo all’importanza dei vari campionati internazionali. C’è già chi vede una Cina-bis, una nuova bolla, ma attenzione: contesto, politica, tradizione calcistica e prospettive sono completamente diverse.
Ora, al di là del fatto che l’estemporanea bolla cinese si inseriva in un luogo dove il calcio non aveva storia (per dire: la Cina ha disputato solo un Mondiale, l’Arabia Saudita sei degli ultimi otto,esattamente come l’Italia…), gli investimenti del calcio (e in generale nello sport) di Riyad sono parte della Saudi Vision 2030, documento programmatico che diversi Stati di nuova ricchezza hanno – e perseguono – e del quale spesso in Occidente si sorride. Come quando si ridicolizza l’assegnazione all’Arabia Saudita dei Giochi invernali asiatici che saranno ospitati a Trojena, una città che ancora non esiste e che sarà realizzata di qui al 2026, un progetto faraonico che potrà accogliere 700 mila turisti ogni anno. Ecco: provate a fare il confronto con ciò che già sta accadendo in Italia con Milano-Cortina 2026.

STRATEGIA

Sportwashing? Sì, certamente, va bene, c’è. Utilizzare tuttavia solo questa lente risulta limitativo nell’analisi del fenomeno, soprattutto ora: occorre andare oltre. Per come è stato gestito il grande sport negli ultimi decenni, è evidente che si sia inserito in una spirale ultracapitalistica che lo porta alla continua e costante ricerca di denaro e di finanziatori. L’Arabia Saudita – come Qatar, Emirati Arabi, Bahrain – la potenza di fuoco ce l’ha e la sfrutta: la nuova lega (LIV) del golf, la Formula 1, il rally Dakar, i denari che hanno riempito le casse di Liga e Lega Serie A per le edizioni delle supercoppe (di nuovo De Siervo: «I nostri profitti aziendali sono passati dai 30 milioni di tre anni fa ai 70 di oggi»; chi pensate lo abbia permesso questo incremento?), e potremmo andare oltre. Non è solo, e forse nemmeno soprattutto, sportwashing: è una strategia di potere, l’intenzione di innestare almeno un duopolio quale hub e finanziatore (dunque, di fatto: padrone) dello sport tra Paesi del Golfo e Stati Uniti.

CAMPIONATO

Ma il campionato saudita, con Ronaldo, Benzema e compagnia, ha possibilità di entrare nella top 10? No, e forse nemmeno nella top 20, non nel breve e forse nemmeno nel medio periodo. E allora, a che pro? Ecco, qui è il momento adatto per una suggestione: siamo talmente abituati a ragionare sulla base di ciò che già c’è, che non proviamo a immaginare ciò che potrebbe essere. Insomma, chi vi dice che l’obiettivo debba proprio essere quello di rendere la massima divisione saudita una delle più importanti a livello mondiale? Magari può essere sufficiente rendere i suoi migliori club sufficientemente competitivi per poter affrontare (e sicuramente ospitare), tra qualche anno, il futuro Mondiale per club a 32 squadre. O, chissà, competizioni per club che ancora non esistono e che, se la Corte di Giustizia Europea dovesse deciderà contro la UEFA, potrebbe essere proposta a quel punto da chiunque, dal momento che verrebbe indebolito l’intero modello attuale, che nel calcio solo qualche rinnegato (dall’UEFA) sembra voler superare. Eppure altrove esistono, per dire, Celtic Rugby ltd. con il suo intercontinentale United Rugby Championship (l’ex Pro 14), Euroleague basketball con la sua Eurolega europea. E LIV Golf. A proposito, se non lo avete sentito, dal 2024 LIV e PGA si uniranno in una sola entità, dopo mesi di battaglie legali. Americani e sauditi insieme in una lega unica e rafforzata, ma con diversi equilibri che, prima dello strappo di LIV, sembravano intoccabili. Non pensate che a rimetterci siano stati gli arabi.

Triplice fischio. 

Ci rileggiamo l’11 luglio.

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