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LA NEWSLETTER DEL GIOVEDÌ DI ANDREA BATILLA
PRADA E VERSACE

Non c’è niente di più distante di Prada e Versace. Il primo, simbolo dell’eccentricità borghese milanese, contenuta e discreta, il secondo, portabandiera di un massimalismo chiassoso e body conscious. Apparentemente.
Bisogna iniziare da qui per capire in che modo l’acquisizione di Versace da parte del gruppo Prada potrebbe ribaltare lo scenario della moda italiana e forse mondiale e anche perché ci sono tutti i presupposti che sia un successo.
Il gruppo Prada, cui fanno capo i marchi Prada, Miu Miu, Car Shoe, Church’s, Marchesi 1824 e Luna Rossa, ha chiuso il 2024 con ricavi netti a 5,4 miliardi di euro, in aumento del +17% a cambi costanti rispetto al 2023. Le vendite retail sono salite del 18% a 4,8 miliardi di euro con un boom di Miu Miu (+93%) e una leggera crescita (+4%) delle vendite Prada e anche il wholesale ha messo a segno un incremento pari al 7 per cento.
Per fare un paragone, nel 2024 i ricavi di Kering, proprietario di Gucci, Balenciaga, Bottega Veneta, McQueen, Saint Laurent e vari altri, sono scesi del 12% a quasi 17,2 miliardi di euro, con l’utile operativo diminuito a 2,55 miliardi (-46%) e l’ebitda a 4,66 miliardi (-29%).
La prima notizia è quindi che Prada, in un momento di crisi globale, sta dimostrando di essere solido, ben organizzato, efficiente e con una visione chiara di ognuno dei propri marchi. È uno straordinario punto di arrivo raggiunto anche grazie al CEO Andrea Guerra che viene da quella straordinaria macchina da guerra che si chiama Luxottica che tra il 2003 e il 2013 aveva portato da 2,8 a 7 miliardi di fatturato.
Il fatto che la direzione del gruppo sia uscita dal controllo diretto della famiglia e passi attraverso manager estremamente competenti è segno di un approccio più razionale, meno istintivo e conflittuale, costruito nel tempo con grandi sforzi. La rotta tracciata la si vede anche nell’affiancamento a Miuccia Prada di Raf Simons che è entrato a far parte del progetto in maniera rispettosa, senza tentare di stravolgerlo ma semmai di ammorbidirlo, rendendolo ulteriormente comprensibile. Volte anche troppo. Ma questo è un altro discorso.
È molto importante capire questo passaggio perché si tratta di una novità nel panorama imprenditoriale italiano. Contrariamente ai gruppi francesi o americani, in Italia storicamente esistono pochissime aziende di grandi dimensioni, con un management preparato che non rispondano a dinamiche familiari involute e a volte schizofreniche. Se si esclude Moncler, il resto naviga in acque piuttosto limacciose quasi sempre a causa di un familismo mal gestito che rende difficile, se non impossibile, una visione oggettiva della realtà imprenditoriale.
Con questi presupposti Prada è pronta al prossimo passo che, come abbiamo ormai capito tutti, è diventare il primo vero polo del lusso italiano. La ragione per tentare di raggiungere questo traguardo sta nel fatto che è ormai impossibile reggere la concorrenza dei mega gruppi LVMH e Kering che hanno disponibilità finanziarie praticamente infinite senza avere le stesse risorse. Per sopravvivere è necessario costruire un gruppo altrettanto forte economicamente che riesca a combattere ad armi pari e possa confrontarsi in maniera competitiva su tutti gli aspetti della gestione di un brand. Le location più prestigiose in cui aprire i negozi si conquistano a colpi di dollari, le celebrity che performano meglio si contrattualizzano con le offerte migliori, gli eventi più spettacolari si costruiscono sborsando quantità di denaro sempre più ingenti.
Per fare crescere velocemente fatturato e margini l’unica via possibile è l’acquisizione di altri marchi, adottando poi economie di scala e applicando su tutti il know-how accumulato negli anni.
La domanda a questo punto potrebbe essere perché comprare un brand così distante dalla spirito di Prada, come Versace, e non, come già era successo negli anni ’90, nomi come Jil Sander o Helmut Lang. La risposta è articolata ma facilmente comprensibile.
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