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LONGFORM 1

LA NEWSLETTER DI ANDREA BATILLA

LA STORIA SEGRETA DEL MADE IN ITALY

Questo è un articolo pubblicato su Dust Magazine nel 2023 che ha avuto una limitata circolazione in Italia e che mi fa piacere ripubblicare in forma free.
I longform appariranno all’incirca una volta al mese, essendo una scrittura molto lunga e complessa.

Neanche Wikipedia ha ben presente che cosa voglia dire Made in Italy.

Prima dice che “il Made in Italy è un'indicazione di provenienza che indica l'origine di un bene in base alle disposizioni comunitarie in materia di origine non preferenziale di un prodotto ed in questo caso riferite ai prodotti che hanno origine in Italia”. Un’affermazione piuttosto oscura ma che credo voglia semplicemente dire che è Made in Italy ciò che è fatto in Italia.

Poi dice che “Secondo uno studio di mercato realizzato da Statista in Made-In-Country-Index (MICI) 2017 e pubblicato da Forbes il 27/03/2017, Made in Italy oggi è censito al settimo posto in termini di reputazione tra i consumatori di tutto il mondo. KPMG, censiva nel 2012 il Made in Italy quale terzo marchio al mondo per notorietà dopo Coca Cola e Visa.” Anche questa seconda definizione è piuttosto fumosa perchè parla di reputazione ma continua a non definire che cosa sia esattamente questo strano oggetto del desiderio chiamato Made in Italy.

L’enciclopedia Treccani definisce invece il Made in Italy “Espressione utilizzata, a partire dagli anni 1980, per indicare la specializzazione internazionale del sistema produttivo italiano nei settori manifatturieri cosiddetti tradizionali. Rientrano in questa definizione le cosiddette 4 A: abbigliamento (e beni per la persona), arredamento (e articoli per la casa), automotive (inclusa la meccanica) e agroalimentare.” Per quanto sia più dettagliata e ci dia alcuni elementi di riconoscimento, anche questa definizione non ci dice di cosa si tratti, quale sia l’origine e come agisca oggi la parola Made in Italy, limitandosi ad indicarne le aree di appartenenza.

Eppure Made in Italy è un’espressione usata e conosciuta in tutto il mondo e nell’immaginario collettivo indica creatività, qualità, buon gusto e artigianalità. È insomma un marchio ancora prestigioso che dona valore aggiunto a tutto ciò che viene prodotto in Italia, lo rende più desiderabile e quindi più facilmente vendibile a prezzi alti.

Le sue qualità derivano da una storia che comincia dopo la seconda guerra mondiale e arriva ad oggi ma invece di scorrere fluida nelle menti degli amanti del ben fatto, invece di essere raccontata e preservata, rimane una serie di aneddoti, di episodi favolistici che sembrano non avere una coerenza nè una continuità.

Quando nel 1980 esce il film di Paul Schrader American Gigolò, nessuno si aspetta che diventi un successo mondiale. Schrader è uno sceneggiatore importante e impegnato (ha scritto insieme a Scorsese la sceneggiatura di Taxi Driver) e fa parte di una generazione di registi chiamata New Hollywood, che rifuggono dalle rappresentazioni patinate e pop e raccontano un’America problematica e con forti tensioni sociali. Sia Christopher Reeve, all’epoca famosissimo per aver interpretato Superman, che John Travolta, fresco del successo planetario de La Febbre del Sabato Sera e Grease, rifiutano la parte perchè il personaggio è troppo chiaroscurale e poco positivo. Invece American Gigolò diventa un film epocale e Richard Gere, insieme a Lauren Hutton, diventano da un giorno all’altro due tra i sex symbol più infuocati del pianeta.

In una delle scene più famose del film, Richard Gere si prepara per uscire scegliendo tra una sterminata collezione personale di abiti Giorgio Armani costruendo un parallelo di ferro tra la sua carica erotica, il suo cinismo decadente e gli abiti del più calvinista tra i designer italiani. In un’altra scena Lauren Hutton va ad un appuntamento ad alto tasso erotico con Gere indossando un trench maschile e una clutch in intrecciato di Bottega Veneta, uno dei primi marchi italiani ad aprire una boutique su Madison Avenue.

Il 5 Aprile del 1982 Giorgio Armani viene fotografato da Bob Krieger sulla copertina di Time magazine, uno dei pochi designer di moda nella storia del giornale ad aver ottenuto questo onore e in assoluto il primo stilista italiano.

La differenza tra Giorgio Armani, Bottega Veneta e tutti gli altri marchi internazionali, ma soprattutto tra gli italiani e i francesi è, in questo momento storico, totale.

Innanzitutto c’è una questione di mercato: nel 1982 il 70% degli ordini di Bergdorf and Goodman provengono dall’Italia, mentre il seguito commerciale di grandi nomi come Saint Laurent, Givenchy o Dior è sempre più basso. Armani esporta abbigliamento negli Stati Uniti per 14 milioni di dollari e ha un giro d’affari mondiale di 135 milioni di dollari. All’epoca erano una fortuna.

Ma c’è anche una seconda, ma non secondaria questione. Nella straordinaria intervista a Time, piena di intercalari inferociti di Pierre Bergè, storico partner di Saint Laurent, il giornalista Jay Cocks (uno che ha lavorato alla sceneggiatura di Guerre Stellari, l’Età dell’Innocenza e Strange Days) definisce in maniera chiara quali siano le ragioni del successo di Armani. Per il mercato americano avere degli abiti dall’aspetto quotidiano e contemporaneo oltre che di eccellente fattura era una novità assoluta. Prima di Armani per un uomo era praticamente impossibile sentirsi alla moda senza sembrare ridicolo o esagerato. Per una donna era anche più difficile.

Anche la storia di Bottega Veneta è straordinaria e anch’essa parla di understatement. Nato nel 1966 a Vicenza per opera di Michele Taddei e Renzo Zengiaro, il marchio diventa famoso per la particolare lavorazione di pelle intrecciata e per non avere nessun logo evidente. Il primo negozio viene aperto a New York nel 1972 ma è attraverso la capacità di intessere relazioni di Vittorio Moltedo, che nel frattempo ha assunto la proprietà dell’azienda, che il marchio diventa desiderabile. Vittorio Moltedo frequenta Andy Warhol e a lui affida il video di racconto dell’azienda. Da lì al successo internazionale il passo è brevissimo.

In effetti basterebbero questi due esempi per inscrivere la storia del Made in Italy dentro una narrazione mitologica fatta di personaggi creativi e solitari che spinti solo dalla genialità hanno cambiato il mondo com’era per trasformarlo nel mondo com’è.

In realtà la questione è molto più complessa di così. Anche se è più facile immaginarsi una storia fatta di Dolce Vita, sfilate a Capri o nella Sala Bianca di Palazzo Pitti e poi, appunto, di copertine di Time, la storia del Made in Italy nasce da molto più lontano, almeno dal 1946, ed è strettamente legata alla struttura industriale italiana, profondamente antifordista e familistica, all’interconnessione tra mercato italiano e americano, al travaglio storico politico degli anni settanta e all’esplosione edonistica degli anni ottanta ma anche alla totale mancanza di una cultura della moda da conservare e alla spinta innovativa di due periodi precisi chiamati Miracolo Economico e Craxismo che poi diventa Berlusconismo.

Storicamente mentre il concetto stesso di moda in Francia diventava parte dei meccanismi del potere con Luigi XIV nel seicento fino a Napoleone nell’ottocento, all’idea di sovranità vengono associati dei meccanismi di riconoscimento, di inclusione o di esclusione, che passavano attraverso i vestiti. La stessa cosa succede, con effetti opposti, in Inghilterra che per prima, tra settecento e ottocento, sviluppa un linguaggio differenziato per aristocratici e borghesia.

In Italia invece, dopo l’esplosione rinascimentale, il paese subisce un lento arretramento e nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, è ancora divisa in 14 stati diversi. Quando nel 1861 si arriva all’unificazione dell’Italia ci si ritrova in mano un paese a pezzi, in senso metaforico e pratico, che viaggia a velocità diverse e che culturalmente è dipendente dalle altre nazioni europee.

Non si può quindi dire che esista una continuità tra la Firenze di Lorenzo il Magnifico e quella di Emilio Pucci, anche se le stampe dello stilista fiorentino rimandano alla gloria cinquecentesca. L’Italia uscita dalla Seconda Guerra Mondiale è un paese impoverito, senza risorse economiche e con un grande passato alle spalle che l’ha fatta diventare una specie di cartolina turistica, tra le rovine del Colosseo e quelle di Pompei.

La prima questione interessante è quindi che il Made in Italy non nasce da un atavico senso della bellezza che gli italiani hanno fin dalla nascita nè ha qualcosa a che vedere con la straordinaria produzione artistica e artigianale italiana nel corso della storia.
 Quando dopo la guerra si comincia a ricostruire l’Italia si sceglie di investire le montagne di soldi di aiuti americani, il cosiddetto Piano Marshall, nelle industrie che avevano riportato meno danni dai bombardamenti, che avevano bisogno di meno investimenti in ricerca e che quindi potevano ricominciare a funzionare da subito. Il settore del tessile abbigliamento è uno di questi.

In Italia settentrionale esisteva un’industria manifatturiera tessile che non era costruita sull’idea di eccellenza ma su quella di standard. Solo l’area di Como, famosa per la lavorazione della seta e quella di Biella, nota per le lane, avevano una continuità storica che durava da secoli. Per il resto, sia l’industria tessile che quella dell’abbigliamento, avevano standard qualitativi piuttosto bassi e volte addirittura inesistenti. Con l’iniezione soldi, tecnologia e know how statunitensi la situazione migliora sensibilmente.

I primi a risollevarsi dalle macerie della guerra sono proprio i distretti tessili di Biella, Como e del Veneto che riescono a superare piuttosto velocemente l’industria francese e inglese sulle quali i governi hanno deciso di disinvestire perchè considerate tecnologicamente arretrate.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta quello che oggi chiamiamo ready to wear non esiste ancora ma esiste l’alta moda, cioè il fatto su misura, che diventa un punto di riferimento qualitativo e che porta le aziende italiane tessili a sviluppare obiettivi di eccellenza, invece che di standard.

Il ready to wear, cioè la ripetizione in serie di abiti pronti da indossare è di fatto un’invenzione americana, ma il modello viene applicato in Italia in un modo radicalmente diverso. Le aziende italiane non riusciranno mai a seguire il modello della grande produzione di massa statunitense principalmente per motivi finanziari ma svilupperanno un approccio alternativo fatto di entità piccole e medie che riusciranno a fondere la produzione in grandi numeri con la dinamicità, la capacità continua di cambiamento e l’artigianalità.

Negli anni Sessanta nasce di fatto un modello unico al mondo in cui gli standard qualitativi dell’alta moda vengono trasportati nelle piccole fabbriche italiane, fatte di operaie che hanno passato la vita a cucire a casa e che conoscono la differenza tra un crêpe e un raso e di proprietari che hanno un’idea di profitto che unisce marginalità a qualità. In Italia non era pensabile andare in giro per il centro città con un cappotto che non cadeva perfettamente a piombo e quando nel 1951 Achille Maramotti fonda la Max Mara sa bene che ci sono dei passaggi che devono continuare ad essere fatti a mano da operaie specializzate, per evitare che i suoi cappotti abbiano un aspetto dozzinale.

La qualità altissima dei tessuti e la capacità di riprodurre in serie oggetti di alto artigianato creano, fino all’inizio degli anni Settanta, un terreno fertilissimo senza il quale il Made in Italy per come lo conosciamo oggi non sarebbe mai potuto esistere.

È a questo punto che arrivano gli stilisti, invadono le fabbriche e il mercato e rendono il sistema produttivo italiano ancora più fluido, aperto e capace di fondere una qualità altissima con la possibilità di infinite riproduzioni.
I personaggi che si muovono in questo universo primordiale sono moltissimi ma uno su tutti opera uno sforzo di fantasia che spinge tutto il settore verso orizzonti fino ad allora sconosciuti: si chiama Walter Albini.
Albini si inventa dal niente la figura del catalizzatore, del personaggio che passa le giornate nelle fabbriche e le notti in discoteca, del lavoratore indefesso e della superstar. Si inventa il ruolo dello stilista che semplicemente prima non esisteva. In un’Italia fatta di piccole aziende monoprodotto crea un modello di riferimento che è ancora quello attuale: è un personaggio noto e amato che riempie le pagine dei giornali con la sua fantasmagorica immagine e allo stesso tempo costringe i produttori a inenarrabili sforzi realizzativi. Siamo lontani secoli dal modello dell’alta moda francese, elitaria e distaccata, ma anche da quello dell’anonima serialità americana. È una nuova via di mezzo che oggi chiamiamo Made in Italy.

 l risultato di questo sforzo è un prodotto che è ben fatto, creativo ma molto meno caro di quello francese e molto più interessante di quello americano. Il più grande mercato mondiale dell’epoca, gli Stati Uniti, spalanca le porte perchè sa che ha trovato il giusto nutrimento per una classe media che ha bisogno di vestirsi bene, di autorappresentarsi seguendo standard europei, di elevarsi. I department store inondano di ordini non solo Albini ma molti degli astri nascenti della moda italiana, da Krizia ai Missoni fino a un sacco di marchi sconosciuti come Callaghan o Genny, Montedoro o Sicons  che si affidano a giovani designer del calibro di Gianni Versace e Giorgio Armani.

E cosi arriviamo alla fine degli anni Settanta. A questo punto esiste un modello produttivo di riferimento e esistono molte nuove leve piene di talento che sanno come seguirlo. Ma prima di fare esplodere mondialmente la storia del Made in Italy e far salire sul palco Franco Moschino, Luciano Soprani, Enrico Coveri, Gianfranco Ferrè e ovviamente Armani e Versace, è rimasta una cosa da fare: cancellare le tracce del recente passato per far sembrare che questa supernova italiana sia stata originata dal niente, sia stato un movimento autoprodotto, proveniente esclusivamente dalla genialità di alcune menti eccelse.

Per riscrivere la storia della moda italiana non solo Walter Albini viene cancellato dai libri di storia ma non viene neanche più nominato, attribuendogli una fama di sregolatezza vera solo in parte. Tutto quello che era successo dalla fine della seconda guerra mondiale ai primi anni Ottanta viene dimenticato e la favola dei solitari stilisti geniali diventa la narrazione ufficiale, più facile, più digeribile, più romantica e sicuramente più vendibile.

Il Made in Italy non è più percepito come un complesso meccanismo di cui gli stilisti sono solo una parte ma come un fortunato allineamento planetario avvenuto grazie all’innato buon gusto degli italiani, alla nostra secolare vicinanza all’arte, al nostro saper fare artigianale.

In realtà è esattamente il contrario. Il modello produttivo italiano ha note così caratteristiche proprio perchè non nasce da nessun modello ma, anzi, da un vuoto economico e culturale iniziato nell’Ottocento e finito con la Seconda Guerra Mondiale. Dentro questo vuoto sono avvenute delle improvvise variazioni genetiche in parte dovute a fattori endogeni in parte a cause esogene, come abbiamo raccontato. La somma di tutto è stata che l’etichetta Made in Italy è passata dal contraddistinguere un prodotto dozzinale e a poco prezzo a indicare lusso, qualità e ricerca creativa. Ma senza la lunga esperienza pregressa di aziende come il GFT di Torino, Genny di Ancona o Zamasport di Novara tutto questo sarebbe stato impossibile. E Armani non avrebbe mai avuto la copertina di Time.

Riscoprire le vere radici storiche del Made in Italy, molto poco studiate, dovrebbe permettere di gettare uno sguardo su quanto molte delle problematiche di oggi discendano dalla poca cura con cui questa storia è stata trattata.

Le aziende, il sustrato produttivo della moda italiana, non hanno resistito al passaggio generazionale e all’entrata della finanza nel lusso si sono spente o sono state vendute, lasciando i giovani designer senza riferimenti. Il meccanismo si è inceppato, o forse si è rotto, e l’attenzione è passata dal prodotto alla comunicazione del prodotto.

Una delle cose più interessanti che sta succedendo ultimamente è che alcuni marchi italiani emergenti, come Vitelli o Sheena, stanno cercando di riappropriarsi di quelle dinamiche riportando la produzione in casa, comprando vecchie macchine da maglieria dismesse o macchine da cucire abbandonate. È come se stessero cercando di rimettere insieme i pezzi di un puzzle che qualcuno ha volutamente distrutto, di riappropriarsi di una storia dimenticata.

È un segno importante di rinascita. Ma queste esperienze per ora isolate per diventare parte di un cambiamento strutturale hanno bisogno di aiuto sicuramente economico ma anche culturale.

Sulle origini e le caratteristiche del Made in Italy bisogna tornare a lavorare, come si studiano latino e greco per capire meglio l’Italiano, come si studia la storia delle religioni per capire i conflitti in Medio Oriente. Il nucleo di questa ripartenza dovrebbe essere uno stimolo culturale che viene da istituzioni, musei, scuole, associazioni di categoria e privati, per esempio attraverso un’attenta mappatura di tutto l’incredibile materiale esistente in archivi abbandonati o semplicemente mai studiati.
Nella storia sta il nucleo dell’identità e nella storia spesso si trovano le indicazioni per la risoluzione di gravi problemi.

 

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