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Albedo Newsletter - N°

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e informazioni sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque, come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction. E lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza, insieme alla redazione di Duegradi, cercheremo di rispondere ai dubbi e alle tue perplessità (scrivi qualsiasi cosa che ti salta in mente a redazione@duegradi.eu);

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

Abbiamo bisogno di una scienza etica

Sono andato a vedere Oppenheimer al cinema. Come chiunque, sono stato suggestionato dalle aspettative dovute all’ingente promozione pubblicitaria, e dal ritardo (leggasi, attesa) con cui è stato rilasciato qui da noi, in Europa. Devo dire che il film ha un notevole apparato scenico e, soprattutto, sonoro (l’ho potuto apprezzare maggiormente quando, mentre vedevo un altro film, ho ascoltato i roboanti boati di alcune scene che mi sono arrivati, con annessi tremolii, dalla sala di fianco dove lo stavano proiettando). Anche il cast è qualcosa di stellare: per capirci, uno dei migliori attori in circolazione, Casey Affleck, ha una particina di pochi minuti. Ma dopo averlo visto me ne sono tornato a casa con una sensazione di incompletezza, come se alla pellicola mancasse qualcosa. Il filosofo Francesco D’Isa, sul suo canale Telegram Filosofia stramba, mi ha aiutato a dare un nome a questo vuoto. Lo riassumo a parole mie: va bene la figura di Oppenheimer, scissa tra eroe e “distruttore di mondi”, ma se fai un film su un personaggio così legato all’atomica, non puoi ignorare (o sviluppare solo di striscio) i lati oscuri di questa bomba.


Le implicazioni dell’atomica sono enormi. Riflettendoci bene, senza l’atomica, ad esempio, non ci sarebbe nemmeno questa newsletter sui cambiamenti dell’Antropocene, poiché di fatto il gruppo di ricerca con il compito di valutare l'accettabilità di questa definizione, l’Anthropocene Working Group, ha identificato l’uranio rilasciato durante gli esperimenti nucleari degli anni ‘50 l’evidenza decisiva per dimostrare che il nostro pianeta sta vivendo una frattura geologica epocale. Il dibattito è ancora aperto, ma se parliamo di Antropocene, dobbiamo per forza di cose volgere lo sguardo a cosa è successo nei laboratori del progetto Manhattan. Le tracce dell’uranio potrebbero essere la prova stratigrafica che qualcosa sul pianeta sta cambiando; e il fattore di influenza principale sono le attività di una specie vivente in particolare: l’essere umano. Detto in altre parole, una data zero dell’epoca geologica dell’Antropocene potrebbe essere la mattina del luglio 1944 in cui, davanti alle espressioni festanti degli scienziati di Los Alamos, è stata fatta detonare la prima bomba atomica.


D’altronde, che si era di fronte a qualcosa di veramente grosso, lo si era intuito già durante l’agosto 1945, quando furono sganciati i primi ordigni atomici. Non fu tanto il numero di morti: al momento dell’esplosione a Hiroshima morirono 66.000 persone, 39.000 invece a Nagasaki, mentre solo pochi mesi prima la città di Tokyo fu colpita da un attacco di bombe incendiarie che causò la morte di quasi 100.000 persone. La differenza la fece lo scenario apocalittico postumo: i luoghi prossimi alla detonazione erano irriconoscibili; i cadaveri delle vittime letteralmente spazzati via dall’esplosione; i feriti avevano la pelle nera, e in alcuni dei sopravvissuti le ustioni, oltre ad aver bruciato pelle e capelli, avevano aperto squarci da cui si potevano vedere le ossa. A rincarare la dose poi, responsabile di questa distruzione non era stato un intero raid aereo, con tonnellate e tonnellate di esplosivo, ma solamente due singole bombe. Come ha scritto Marco Malvestio in Raccontare la fine del mondo, ciò che è stato creato nei laboratori di Los Alamos “ha messo in risalto la doppia natura - distruttrice e creatrice - dell’ingegno umano”. Per la prima volta nella storia dell’umanità con l’atomica la nostra specie si è trovata di fronte a un evento, per giunta di origine antropica, capace di spazzarci via completamente (i prodromi del cambiamento climatico, si potrebbe dire).


Come si vede anche nel film, a Los Alamos molti scienziati erano dubbiosi sul possibile impiego militare della nuova bomba. Sappiamo (Abre numa nova janela) che una delle ragioni per cui il Comitato scientifico ne approvò l’utilizzo partiva dal ragionamento che la scienza è un’acquisizione collettiva, per cui qualcuno prima o poi ci sarebbe arrivato e avrebbe sganciato la bomba. In un convegno (Abre numa nova janela) del 2001 dedicato a Enrico Fermi e tenuto alla Normale di Pisa, il senatore Marcello Pera, all’epoca presidente del Senato, ha invece sintetizzato così l’argomento usato dal personale del progetto Manhattan: “[Alcuni] sottolineano l'opportunità di salvare la vita di cittadini americani con il suo immediato uso militare e credono che tale uso migliora le prospettive internazionali [...]. Noi ci troviamo [vicini a questa] opinione, [sebbene] non possiamo proporre alcuna dimostrazione tecnica che ciò probabilmente condurrà alla fine della guerra”.


Le conseguenze dell’avanzamento tecnico nucleare sono state considerate, dagli scienziati, in maniera eccessivamente riduttiva. Di fatto anche i suoi risvolti etici sono stati sottovalutati. Il lasciapassare utilizzato è stata l’impossibilità di una “dimostrazione tecnica”, di una metodologia consolidata che potesse protocollare la tesi: sì, la bomba porrà fine alla guerra e migliorerà le prospettive internazionali. Il punto qui è che il tipo d’indagine che veniva usato abitualmente dai fisici, in questo caso, non era applicabile. La previsione era di tutt’altro ordine e natura. Ciò che veniva richiesto, non erano competenze specifiche e settoriali, ma una visione di insieme, una piena consapevolezza del respiro collettivo di cui si è parte. 


Questa consapevolezza a Los Alamos non si è avuta, o si è avuta tardivamente. Eppure la scienza non dovrebbe essere esonerata da speculazioni di questo tipo. Come ha notato Pera, “la scienza non è fatta solo di teorie, è fatta anche di persone”, e ciò significa che quando si persegue la verità non si può trascurare l’individualità dello scienziato. La scelta dei singoli problemi, insieme all’impostazione delle soluzioni, ai modi di pensare, i convincimenti profondi a cui una persona aderisce, tutto ciò influenza la ricerca scientifica. Per cui se la singola individualità entra nel processo scientifico, allora, entrano anche la responsabilità e l’etica.


“Ci si chiede di quale progresso possa essere portatrice una scienza indifferente alle sofferenze degli animali, alla bellezza della natura, alla perdita della biodiversità; o alla distruzione, con un semplice gesto, di migliaia di vite,” ha scritto (Abre numa nova janela) la professoressa di Environmental Humanities dell’Università della Carolina del Nord a Chapel Hill, Serenella Iovino. La domanda posta dalla Iovino, la quale si lega a doppio filo con ciò che è successo a Los Alamos, si rivolge a un certo uso della ragione e della scienza, un uso che già vari decenni fa aveva allarmato, sul piano filosofico, i pensatori della Scuola di Francoforte. Il rischio che si corre a separare la ricerca scientifica dalle valutazioni di natura etica è infatti quello di corroborare una razionalità di tipo “strumentale”: cioè “un atteggiamento speculativo che intende lo sviluppo della scienza e della tecnica esclusivamente come mezzi per il raggiungimento di un fine” (che può essere, se va bene, la fine di una guerra, se va molto male, il profitto, il potere, lo sfruttamento, eccetera). 


A mio modo di vedere, sulla falsariga di queste conclusioni si muove un articolo (Abre numa nova janela) sul soluzionismo tecnologico pubblicato pochi giorni fa su Duegradi da Giordano Zambelli. Pensare che l’avanzamento tecnologico di turno possa farci raggiungere obiettivi complessi come la transizione ecologica - sembra scrivere Zambelli - in realtà potrebbe nascondere, nella peggiore delle ipotesi, l’interesse a conservare un modello di sviluppo di tipo predatorio, nella migliore, invece, la volontà di mantenere una prassi di consumo insostenibile per il pianeta. Insomma dietro la tecnica possono muoversi aspirazioni e interessi poco raccomandabili.


È qui che entra in gioco l’etica e la ricerca di senso. L’esigenza di più etica nelle azioni che compiamo quotidianamente ci arriva anche dai recenti articoli, sempre su Duegradi, di Viola Ducati (Abre numa nova janela) e Alessandro Cattini (Abre numa nova janela). Dunque, se c’è qualcosa che si può imparare dalla storia del progetto Manhattan, e che sarebbe servito al film Oppenheimer per rappresentare l’abisso di fronte cui si è trovato il fisico (e dal quale poi, con gli anni, si è tardivamente redento), è che chi si occupa di scienza non è sollevato dalla responsabilità di discernere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male. E quindi non è sollevato dal comprendere l’epoca storica in cui si sta vivendo. La scienza deve interessarsi tanto alle cose, quanto alle persone. In tempo di crisi climatica, quello di cui abbiamo bisogno è un uso etico della razionalità scientifica e tecnologica; e soprattutto una valutazione etica delle sue conseguenze sul piano ecologico, umano e sociale.

Rispondiamo alle vostre domande

A proposito di più etica, anche prendersi cura delle relazioni è una scelta etica. Da poche settimane sono terminati gli Stati generali per il clima, un forum che ha riunito per la prima volta la variegata comunità ecologista italiana. L’obiettivo era mediare tra le diversità dell’attivismo nostrano, che esistono e in alcuni casi sono evidenti, per dare forma a una voce comune. Certo, la strada è ancora lunga - si punta nei prossimi mesi ad arrivare a proposte concrete - ma il primo tassello del mosaico è stato posto. 

Al forum ha partecipato Chiara Camporese, la social media manager di Duegradi. Albedo di settembre si chiude con le sue impressioni di questi tre giorni di forum. Noi ci risentiamo a ottobre.

"Si profumava aria nuova" sono le parole che hanno accompagnato il weekend di incontro, con tutte le realtà che si muovono all'interno dell'attivismo climatico. Quella rete di cui, in questi lunghi anni, abbiamo sempre parlato, era tangibile. Vedere le persone dal vivo, in 3D, conoscere progetti nuovi e realtà ancora in costruzione è stato un arricchimento personale. Abbiamo gettato le basi per dare vita a una piccola comunità, che collabora, coopera, che si assiste. I temi emersi sono molteplici, dall'energia al turismo lento.  

Riaffioro, con nuova energia, pronta per un percorso ancora tutto da scrivere, ma con la consapevolezza che alla base di tale tragitto ci sarà la pluralità, la collettività. Vedere tutto per iscritto e realizzare che, finalmente, questo passo di incontri e scontri è avvenuto, mi riempie di speranza. 

Consigli di lettura

Lavoro e formazione

Greenpeace a Roma cerca stagista (Abre numa nova janela) per tre mesi in ambito comunicazione.

Riflessi: qualche numero dal pianeta Terra

941

milioni di mtCO2, sono state le emissioni di gas serra dell’unione Europea nel primo trimestre del 2023; il 3% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. 

Ci vediamo il mese prossimo!

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