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Essere un designer, oggi

Lazaro Hernandez e Jack McCollough sono i nuovi direttori creativi di Loewe, ma forse non basta una superficiale somiglianza per sedersi su quel trono. E perché in fondo, la rilevanza culturale uccide solo chi non ce l’ha.

La settimana scorsa sono andata al Museo di Storia Naturale di Firenze La Specola, e ho pensato ad Alessandro Michele. Tra i corridoi del luogo – inaugurato originariamente nel 1775 per volere del granduca Pietro Leopoldo e poi riaperto lo scorso anno dopo un lungo periodo di restauri – ci si perdeva agevolmente. Il luogo era però vivo, nel senso che a frequentarlo erano diverse scolaresche di elementari e medie, ma anche gli studenti delle accademie di Belle Arti, che avevano occupato alcune sale. Erano seduti pacificamente di fronte ad alcune vetrate, e sui loro quaderni riproducevano a matita, chiacchierando divertiti tra loro, i profili di questo o quell’altro mammifero. Che cosa questo avvenimento della mia vita privata abbia a che fare con la newsletter di oggi, lo scoprirete solo più tardi, quando ci ritorneremo su.

La notizia dalla quale iniziamo oggi è quella che riguarda Loewe, il brand che da lunedì ha trovato nel duo di Jack McCollough e Lazaro Hernandez i suoi nuovi direttori creativi, che succederanno all’uscente JW Anderson. I due hanno fondato circa due decenni fa il brand Proenza Schouler che sfila regolarmente alla fashion week di New York, e però circa un mese fa avevano lasciato i loro ruoli di direttori creativi del brand, avvallando le supposizioni di chi li immaginava in lizza per un posto all’apice di una delle tante maison europee prive di stilista. Sebbene, a livello estetico, la scelta di McCollough e Hernandez ha un suo senso - la loro sensibilità è vicina a quella del precedessore – non basta una somiglianza di superficie per replicare l’esperienza positiva che è stata il Loewe di JW Anderson.

Autunno/inverno 2025 di Loewe, courtesy Loewe

A fare il successo della decade guidata dallo stilista irlandese sono stati diversi elementi, dalla sua passione per l’arte contemporanea alla capacità di parlare con la Gen Z attraverso un linguaggio cross-mediale (campagne pubblicitarie, ma anche eventi e attivazioni social così come la scelta dei testimonial), rendendosi accessibile, instagrammabile, memificabile, nascondendo le ambizioni di mercato dietro una più accettabile autoironia su se stessi e sul mondo. Infine ha realizzato, banalmente, prodotti piacevoli alla vista, come la Puzzle Bag che si vende più dei panini con la salamella sbranati in fame chimica fuori dal Plastic. E se si vende è perché è bella, certo, ma anche perché è desiderabile (per tutti i motivi di cui sopra), e averla vuole dire far parte della selezionata compagine di connoisseur, quelli definiti dall’attitude IYKYK (if you know, you know). In fondo, tutto ciò che JW Anderson ha fatto, prima di creare un prodotto che si vendesse, è stato regalare al brand quello che in termini economici si chiama valore immateriale: non compro un oggetto perché corrisponde a un certo valore economico, per quello che costa, ma per quello che rappresenta. Nei video successivi potete trovare alcuni dei progetti di Loewe, tipo le Conversazioni con Fran Lebowitz che parla degli scontri di Stonewall e dell’origine del gay Pride o i video che raccontano la realizzazione dei loro prodotti.

Avere la consapevolezza del tempo nel quale si vive, saperne usare a proprio vantaggio le idiosincrasie e le contraddizioni, aggiungendovi un punto di vista personale: è questa la ricetta che permette ai designer capaci di maneggiarne gli ingredienti di avere l’ambita qualità della rilevanza culturale. Una caratteristica che Lazaro Hernandez e Jack McCollough hanno perso tempo fa, ben prima che in America si parlasse (bene il primo, male i secondi) solo di Willy Chavarria e Coperni. Ad aiutarli a raggiungere la nomina ambita, secondo le voci di corridoio della moda, è stata un’alleata di ferro, Anna Wintour, che non a caso viene chiamata “la donna che sussurra ai miliardari”. Di Wintour si parlò anche quando nel 2012, dopo l’uscita di Nicolas Ghesquière da Balenciaga, venne nominato, con una certa sorpresa per gli addetti ai lavori, Alexander Wang, virgulto della moda statunitense.

https://www.youtube.com/watch?v=5xW0jbXqFsA (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

L’incarico durò 3 anni, e mise in luce, purtroppo, l’inadeguatezza di Wang in un campionato, quello europeo, che vive secondo regole diverse. D’altronde, se anche la leggenda del coinvolgimento della Wintour corrispondesse a realtà, non si dovrebbe sorprendere nessuno: perorare la causa di designer che vengono dal proprio territorio, dalla propria area d’influenza, portandoli a guadagnare la notorietà nel mondo delle maison europeo, vuol dire non solo guadagnarsi la fedeltà vita natural durante di chi si è aiutato, ma significa mettere un piede – con prepotenza e non per meriti – in Europa, che ad oggi mantiene ancora la sua predominanza culturale (almeno nella moda). E far sembrare il mercato americano come culturalmente rilevante oltre che economicamente fondamentale vorrebbe dire smarcarlo dal costante senso di inferiorità che gli Stati Uniti della moda provano da sempre nei confronti della vecchia Europa. D’altronde se Donald Trump si è auto nominato come presidente del Kennedy Center, (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) istituzione culturale il cui consiglio di amministrazione – oggi esautorato – era notoriamente bipartisan, non è perché gli interessi molto dell’arte contemporanea, o dei concerti, ma perché è consapevole che la maggioranza politica non gli garantisce comunque la rilevanza culturale di cui prima. E decidere chi o cosa è rilevante per la cultura, e merita di essere raccontato e celebrato, vuol dire indirizzare l’opinione pubblica in uno specifico modo, puntando i fari su realtà minoritarie (perché essenzialmente mediocri, come lo era il Balenciaga di Wang) ma comunque puntarli. Decidere quale sarà l’argomento di cui si parlerà a pranzo, anche se l’argomento è mortalmente banale, è un potere non da poco. Il rischio è che chi si trova in ascolto pensi che sia il meglio che quel tavolo ha da offrire, e adegui il suo livello di conseguenza, in una guerra al ribasso dove non vince nessuno.

Loewe a/i 2025, courtesy Loewe

Per un giudizio più complesso e meno aprioristico, ci toccherà attendere il debutto del nuovo corso di Loewe, ma è qui che torna utile il riferimento iniziale, quello al museo di Storia Naturale fiorentino nel quale mi ero trovata a vagare, chiedendomi come ci fossi finita, io che un museo di quel genere lo avevo visto solo al cinema. Non mi era mai interessata prima l’anatomia delle cinciallegre o dei formichieri, la storia dei minerali e l’idea di soffermarmi senza avere un mancamento sulle cere anatomiche, eppure ne ero uscita sinceramente affascinata. Chissà perché ho pensato che quello sarebbe stato un posto che avrebbe affascinato pure Alessandro Michele, anche se ero certa che quel posto lo conoscesse già. E poi, infatti, qualcuno tra chi mi segue, e che ha lavorato per Gucci in quegli anni, mi ha inviato un post di Michele del 2017, nel quale il creativo teneva tra le mani uno dei segnaposti realizzati per la sua sfilata Cruise 2018, nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti, a Firenze ( la stessa della quale di recente sono tornati a parlare tutti perché è quella in cui ha sfilato Lucio Corsi, anni prima della fama sanremese). I segnaposto, con mia grande sorpresa, erano realizzati sul modello delle targhette con cui sono catalogati oggi gli animali del Museo della Specola. Una somiglianza che non poteva essere una casualità.

https://www.youtube.com/watch?v=ZyECBR56KqA (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Solo allora mi sono resa conto che se ero stata inizialmente affascinata da quel luogo, di cui prima non avevo sentito mai parlare, perché, anche nell’assenza di espliciti riferimenti, il lavoro culturale che negli anni Michele ha realizzato, mi aveva portato a incuriosirmi verso argomenti a me sconosciuti, e che poi avevo scoperto come invece meritevoli d’attenzione. Un miracolo che nulla ha a che fare poi con quei vestiti, che non avrei mai saputo immaginare nella mia vita quotidiana. In realtà era successo altre volte nel corso del suo settennato da Gucci, anche se ero stata capace subito di rendermi conto del collegamento, che nella maggior parte dei casi non veniva esplicitato, creando un “sintomatico mistero”, per dirlo alla Battiato.

Ad esempio la fall winter 2022, Gucci Exquisite ( quella della colab con Adidas) prendeva il titolo esplicitamente dai Cadavre Exquis, gioco di carte surrealista, quello nel quale ogni partecipante disegnava una parte del foglio, poi piegandola. Il disegno finale era un risultato flamboyant e inconsapevole della collaborazione tra i giocatori (ci avevano giocato Man Ray e Picasso, tra gli altri, e l’invito di quella stagione alla sfilata era stato un libro tagliato in tre parti, corrispondenti a testa, busto e gambe, nel quale si potevano combinare tra loro i vari look).

https://www.youtube.com/watch?v=rTiziX53Czc (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Che c’entravano con la moda Sorvegliare e punire di Foucault, ma pure il Manifesto Cyborg di Donna J. Haraway, citati per la sfilata autunno-inverno 2018-2019? Molto di più di quanto mi sarei aspettata, e l’avrei scoperto solo avvicinandomi a quei due libri che prima non conoscevo. Meno esplicito era stato il riferimento di Twinsburg, l’ultima collezione, quella nella quale a sfilare erano coppie di gemelli. Come aveva fatto Michele a trovare così tante coppie di fratelli? Era forse andato a Twinsburg, cittadina dell’Ohio fondata nel 1825 proprio da due gemelli, Moses e Aron Wilcox, e dove oggi si tiene un festival annuale dedicato, dove accorrono gemelli da ogni parte del mondo, i Twin Days? Da Gucci non vollero mai rispondermi, si limitarono a un educato “non possiamo confermare questa informazione”, perché erano ben consapevoli che il mistero era parte fondante nel gioco di specchi costante nel quale Michele coinvolgeva il pubblico che scovava, per caso o per testardaggine, alcuni degli indizi lasciati nel suo percorso creativo.

Un gioco nel quale non si proponevano, in passerella, semplicemente dei vestiti, ma anche dei modi di intendere il mondo, di sfidarlo, confonderlo, sedurlo. Un gioco nel quale era tanto importante ciò che il brand sceglieva di dire o non dire, quanto i vestiti che poi venivano effettivamente mostrati, in un dialogo con clienti e semplici appassionati che forniva continui spunti per re-immaginare il contemporaneo e il nostro ruolo al suo interno. Insomma, le basi sulle quali si è costruito negli anni successivi, il successo anche economico di Gucci ( lo stesso discorso è applicabile al Balenciaga di Demna o al Loewe di JW Anderson). Non solo vestiti, ma teorie, manifesti, supposizioni inquietanti o invece intuizioni ironiche: si chiama rilevanza culturale, e se sei a capo di una maison la devi avere. Altrimenti, sei solo una linea di abbigliamento. E di una linea di abbigliamento in più, non ha bisogno proprio nessuno.

We are the fashion pack

The tortured audiovisivo’s department

  • Su Rolling Stone c’è un lungo articolo tradotto dall’edizione americana sulla questione Luigi Mangione, una faccenda che da mesi continua a girarmi in testa e sulla quale un giorno scriverò un pezzo. Nel frattempo, potete leggere questo (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

  • Ho concluso L’arte della gioia, la serie in sei puntate di Valeria Golino che è ispirata all’omonimo romanzo. Correte a vederlo subito su Sky, Modesta è l’anti-eroina di cui abbiamo bisogno. Altro che Brat

  • Jude Law interpreterà Putin nell’adattamento del film Il mago del Cremlino, e la somiglianza (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) è impressionante

  • La divinità del jazz Herbie Hancock ha detto (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) che non fa un album da 15 anni perché si distrae a vedere i video su YouTube. Come ti si capisce, Herbie.

  • Tramite un post Instagram (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), Lana Del Rey potrebbe aver annunciato la prima nuova canzone del suo nuovo album: Lana, ci servirà il defibrillatore anche questa volta?

  • Ho cominciato a vedere The residence, il nuovo giallo prodotto da Shonda Rhimes per Netflix, ricordandomi perché è la pop star della tv americana

Official soundtrack della settimana

https://www.youtube.com/watch?v=uunIBJ3tvcM (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Tamino ( sì, come il protagonista del flauto magico di Mozart, si chiama davvero così), è tornato con un nuovo album. Accendete le candele, versatevi un bicchiere di vino e immergetevi nelle atmosfere che il musicista belga-egiziano classe 1996 è capace di creare. Nipote di un notissimo attore e cantante egiziano, Moharam Fouad, sua madre, antropologa, gli fa scoprire Serge Gainsbourg, Tom Waits e Jeff Buckley, e di lì comincia la sua fascinazione per la musica. Dopo anni ad Amsterdam, si trasferisce a New York e produce il suo ultimo lavoro, Every Dawn’s a Mountain ( qui Willow eseguita live, ma io amo molto Babylon e Sanctuary, in collaborazione con Mitski, altra voce di cui un giorno parleremo). L’ho visto in concerto diversi anni fa alla Santeria di Milano ed era all’altezza delle promesse che la sua voce mi aveva fatto, ascoltandola sull’album ( oltre che sì, prima che lo facciate notare, è evidentemente geneticamente avvantaggiato, lo ha voluto scattare Paolo Roversi per Vogue Hommes ed è stato protagonista della campagna spring/Summer 19 di Missoni insieme a Gisele Bundchen). Suadente, capace di mischiare una tristezza che guarda ai Radiohead con strumenti che fanno l’occhiolino a un mondo molto più nord-africano: non avete ancora stappato il vino? E cosa, esattamente, state aspettando?

Per oggi ci salutiamo, è stato più lungo di sempre, spero non siate tramortiti, ci rivediamo su Instagram, sulle pagine di Etc, e, prestissimo, anche di nuovo live <3

A presto

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